La faccia, la “razza” e il destino

Dalle nostre parti, in Calabria, si sa: la faccia è una razza. Se vedo un bambino ne riconosco subito i tratti; so già “a chi appartiene”. È un metodo infallibile per riconoscere la gente: un dettaglio qualsiasi, un sopracciglio, l’apertura di un sorriso, uno sguardo scavato, l’andatura, dicono quasi tutto di un individuo, che trova in tal modo la sua collocazione e forse già il suo destino. Proprio per questo, qualcuno può sentirne un peso insopportabile.
Ma la verità è un’altra: collocare una persona dentro una “razza” è un modo per includerlo, per dargli un volto più preciso rispetto a quello che si porta sulla faccia. Se viene inteso come collocazione in un destino già scritto, e quindi come annichilimento dei sogni del singolo, è solo perché si dimentica quanto, persino da queste parti, si creda nella possibilità di riscattarsi e di costruirsi il proprio destino, di far fruttare le proprie mani (anche se poi non si dice mai “quello è stato bravo”, ma piuttosto “quello ha fatto fortuna”). L’unica tragedia è che il proprio destino uno se lo può costruire solo se va via, soltanto se prende una strada che lo porti lontano dalla terra in cui è nato.
Per questo mi addoloro ma non mi meraviglio quando, salutando una bambina nella quale riconosco immediatamente i tratti del padre, alla mia richiesta di portare i miei saluti in famiglia, mi dice, sorridendo: “papà è andato in Germania e fra poco ci andremo tutta la famiglia”.

Il destino, da queste parti, va ben oltre la razza che si può ricavare dalla faccia. Il destino è sempre in quella valigia nella quale si è costretti a rinchiudere il proprio desiderio di vivere. 





Commenti

  1. "[...] in quella valigia nella quale si è costretti a rinchiudere il proprio desiderio di vivere."
    Davvero commuove.

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