Il racconto del Gigante
di Angelo S. Caruso
Il Gigante, risvegliandosi dal sonno perpetuo, elevò il busto nella teca in vetro restando seduto e, sorreggendosi a un bastone d'ebano con il manico d'oro, scavalcò il setto e scese. Fece qualche passo sulle tibie trascinando i peroni penzolanti prima di sedersi di fronte ai referenti. Il suo cadavere mummificato non si era scomposto del tutto, era rimasto con la pelle flaccida attaccata allo scheletro come accartocciata a mò di vestito di taglia più grande, l'insieme era ben conservato, l’andatura goffa. I piedi erano stati spezzati dagli stinchi in giù e depositati anch'essi nella teca perché esuberanti nella bara. Con lui c’erano due pargoletti ricomposti tra le sue braccia con le testoline riverse sul petto, come se dormissero, uno a destra e l’altro a sinistra. Essi, si destarono per osservare la scena con le braccia appoggiate ai bordi della teca come due cherubini con l’aspetto da mummia.
Tale gruppo familiare fu tumulato e deposto qui
insieme a altri scheletrici ritrovamenti dopo essere stati disseppelliti dai
lavori di restaurazione pavimentale della Chiesa Parrocchiale a metà del secolo
scorso, ai tempi di Don Peppino Torrente. Essa, edificata dai Sangineto nel XIV sec., fu
depositaria dei defunti notabili dell’antico borgo che sorgeva più in basso
dove c’era ancora la primitiva chiesa, dedicata al Santo Patrono. Essa fu sconsacrata
nel XIX sec. dal Podestà della ricca famiglia dei Filadoro che la ridusse a una
caserma e poi a municipio e ad aule scolastiche.
Il Gigante era, in quel
consesso e in quel luogo, il matusalemme patriarcale, le sue spoglie, potrebbero
risalire alle pestilenze medioevali o forse ai terremoti che hanno flagellato il
litorale. Aveva ancora le vestigia umane con poteri di veggenza profetica
perché vedeva il futuro prossimo meglio del presente e il futuro remoto gli
appariva ancora più nitido.
Tutti gli altri presenti, i cui corpi erano stati consumati
dal tempo svanendo in parte in fuochi fatui e in parte degradati in polvere, erano diventati anime, tranne quelle dannate che
avrebbero continuato a vagare in quei luoghi fino al giudizio universale.
Esse, le anime dannate, non si potettero liberare
del loro corpo peccaminoso che li fiaccava come un gravoso fardello fino
all'espiazione della pena comminata. La sembianza umanoide era proprio la pena
da scontare perché soffrivano ancora le pene carnali che essi stessi nella loro
miserabile vita avevano inflitto ai loro simili, ma la pena sofferta era anche
psicologica come i dispiaceri, le delusioni, gli insuccessi, il disamore,
l'angoscia, l'ansia, le preoccupazioni e quant'altro potessero tormentare la
loro mente e il loro spirito. Essi non si sarebbero mai elevate al rango di anime
beate, ma da anime dannate sarebbero diventate anime
perse e mai anime morte.
Il Gigante
con un tono cupo e profondo, da oltretomba, rimbombante da chissà quale infero,
incominciò con il suo profetico avvertimento, era come in trance perché dal
corpo emanava qualcosa simile a un ectoplasma, il
linguaggio era arcaico, dialettale e la pronuncia era gutturale e cavernosa,
parlava per parabole per codici come la Sibilla Cumana.
A malignità e l’omini è chiù
ranna e ra ragiuna,
certi omini si sentunu meghiu
e l’atri e vonu comandare senza avire a struzione e ra spertizza,
vonu essere rispettati e
riveriti senza rispettare e riverire l’atri.
A ra scola e drà ggnesa s’imbaranu
a mmiria e ra pussanza, a fricuneria e ra vagabbunneria, a lussuria e u menafrechismo.
A democrazia u c’è chù e ra
giustizia mancu,
sulu prumintano e nente
fanu.
I briganti e ri malavita
hanu chiù criritu e ri patri e de mamme.
"Avete proprio ragione" - interloquì il nostro
malcapitato, senza sentirsi, le parole uscirono dalla bocca come aria - "il
mondo non è più come quello di una volta".
Statte cittu, tu!
Si sentì apostrofare da un’altra voce più cupa e cavernosa che lo lasciò
di sasso, si atterri, e per il tono e per la perentorietà del comando, si
raggelò.
U guvernaraturatu puzza da capu
cumu i pisci e ha fattu schifu e ha purtatu u paisu ara risgrazia e quannu Filaroro ha sconsacrato a gghjesa e ru santu povarellu
pè ci fare na caserma e po’ u municipio cu re scole.
E tannu tuttu è cangiatu.
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