Peppe Voltarelli, Il caciocavallo di bronzo
Non mi sono mai riconosciuto, come calabrese, nei depliant o brochure o libri patinati che descrivevano i posti, la bellezza e la gente della mia zona. Sempre poco credibili. Esaltazione solo della bellezza, senza dolori, né guai.
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Dopo averli letti mi sono sempre chiesto: "ma io abito qui?".
Invece mi riconosco perfettamente in questo libro di Peppe Voltarelli, Il caciocavallo di bronzo, scritto in modo schietto, ironico, veritiero. Un libro in cui non si nascondono certo i difetti dei calabresi, le loro paure, la loro mentalità, le loro manie. Tutte cose che esistono e che ne fanno, nello stesso tempo, la loro qualità. Realtà difficili, da non oscurare, da denunciare, da ammirare.
Il caciocavallo di bronzo non è un vero e proprio romanzo e neanche una vera e propria autobiografia. E' una descrizione di luoghi e di avvenimenti, di persone e di usanze. Descrivendone i luoghi Voltarelli rivela l'anima di questi posti. Da cartolina diventano sospiri, speranze, delusioni, partenze, solitudini, canzoni.
Per apprezzare al meglio questo libro bisogna avere due requisiti (che il sottoscritto possiede): essere calabrese ed avere almeno quarant'anni d'età.
Per apprezzare al meglio questo libro bisogna avere due requisiti (che il sottoscritto possiede): essere calabrese ed avere almeno quarant'anni d'età.
Il caciocavallo di bronzo è tra i libri più belli che ho letto. Ed io, di libri, ne ho letti tanti.
Sergio Caruso
Monumento al caciocavallo
sulle rive dello Jonio
(tratto da "La Voce", settembre 2014)
In
effetti dev’essere vero che la speranza è l'ultima a morire se da una terra che
sembra ultima tra le ultime è potuto nascere un artista straordinario come
Peppe Voltarelli. Il canta-attore calabrese – già fondatore del gruppo “Il
parto delle nuvole pesanti” e poi solista sorprendente, con tre dischi
registrati in studio che sono uno più interessante e trascinante dell’altro (e
ci fermiamo qui senza citare la sua nutrita attività teatrale e cinematografica)
– ha pubblicato un libro che è un po’ racconto autobiografico, un po’ reportage
disincantato e stralunato di una terra che, fino ad ora, probabilmente non
aveva trovato chi la raccontasse con il tono e i termini giusti. Soprattutto,
non aveva trovato chi la raccontasse – allo stesso tempo – dall’interno e dalla
“giusta distanza”: dall’interno, perché Voltarelli in Calabria ci è nato, ci è
vissuto e ci torna spesso, ma soprattutto perché la Calabria offre sostanza e
parole alla sua poetica musicale; dalla giusta distanza perché anche Voltarelli
fa parte di coloro che dalla Calabria se ne sono andati e che però, invece di
abbandonarsi ai ricordi e alla nostalgia – e quindi di fornirne un quadro
bucolico e falsato –, ne raccoglie gli elementi permanenti in un quadro
composto con i pennelli dell’ironia e dell’amarezza. Diciamo anche che fin
dalla scelta stilistica – una scrittura senza punteggiatura – il libro produce
l’effetto di incollarti letteralmente alle sue pagine.
Il
caciocavallo del titolo, che allude a un monumento futuristico da dedicare ad
uno dei simboli della tradizione culinaria calabrese, sovrasta e simboleggia
tutto ciò che oggi fa sì che la Calabria sia la Calabria, e in particolare
tutto ciò che oggi fa sì che le terre del basso jonio cosentino (quelle
comprese tra Sibari e Cariati) siano, per certi versi, le più calabre delle
terre calabresi, nel senso di più disperate, più desolate, più abbandonate. Una
terra dove tutto ciò che si doveva fare negli ultimi cinquant’anni è stato
puntualmente non fatto, e dove quel poco che era stato fatto è stato poi
smantellato, nello sconcerto, ma anche nella rassegnata e impotente incredulità
dei cittadini. Siamo nella terra della statale 106, delle stazioni ferroviarie
che chiudono e dei treni che smettono di passare, dei tribunali e degli
ospedali che vengono smantellati senza pudore né vergogna (il fotografo
rossanese Francesco Sapia sta raccontando molto bene, con piena consapevolezza
del valore civile della sua fotografia, la parabola discendente di un territorio
segnato dall'abbandono). Insomma, una terra in cui tutto invita ad andare
altrove se si vuole realizzare qualcosa, ed è forse questo il sentimento che
domina il libro, oltre che la storia, di Voltarelli.
Ora,
i dati esterni di questa storia sono quelli di una vicenda abbastanza comune:
cresciuto inizialmente in uno dei paesi appollaiati sulle colline che guardano
lo Jonio, poi, come molti, “sceso” al mare in uno dei luoghi sorti e allineati disordinatamente
lungo la “statale della morte” – luoghi che letteralmente stanno addosso alla
106, come per dire che sono lì solo per guardarci passare; poi ancora i pullman
e i treni per andare prima alle superiori e poi al Nord a studiare, per
costruirsi una strada. Ciò che non è comune è la determinazione con cui questa
strada è stata perseguita («ero andato a Bologna per suonare sapevo che avrei
fatto quello prima o poi l’università era solo una scusa un pretesto per
convincere la mia famiglia a farmi partire senza storie”); e soprattutto, poco
comune è la capacità affabulatoria con cui Voltarelli racconta il suo mondo attirandoci
e trattenendoci dentro il suo libro: nelle sue pagine, c’è tutto ciò che nella
Valle del Trionto abbiamo vissuto (il Trionto! il vuoto assoluto come
condizione normale e all’improvviso il pieno minaccioso, senza mezze misure:
un’altra bella metafora della condizione di questa terra); c’è insomma nel
libro tutto ciò che tra le colline e il mare abbiamo visto e ‘sentito’ in positivo
e in negativo: la famiglia, i parenti e gli amici, i comizi in piazza, le
processioni e i matrimoni e le grandi mangiate, il mercato con le bancarelle e i
banditori, le musiche folk di Romeo Livieri e Micu ‘u Pulici («ci sarebbero
voluti altri vent’anni di rock di punk e
di new wave prima di capire nettamente che quello del mercato era il mio suono
la mia gente era ciò che Woody Gutrie era stato per Bob Dylan una guida una
speranza un punto di riferimento da quel momento non mi sarei mai più
vergognato di cantare il mio dialetto a tutte le latitudini»), le spiagge
enormi e vuote, le case mai finite assurte a monumento, i ranch nel deserto, gli
ulivi secolari che arrivano fino al mare: tutto ciò che contemporaneamente fa,
in ciascuno di noi, felicità e tristezza, speranza e paura, nostalgia e
desiderio di fuga.
Così
che viene voglia di rileggerlo immediatamente, il libro, forse per far passare quelle
sensazioni contrastanti con cui Voltarelli sembra invece aver fatto i conti
definitivamente – e che, proprio per questo, rappresentano la forza della sua
musica e della sua arte. Ma non c’è verso: il sentirsi presi in un «destino da
esiliato», il sentirsi parte di una « squadra destinata a giocare sempre in
trasferta perché il campo di casa è stato squalificato a vita», la certezza di
aver perso una volta per tutte e che fa dire «ho capito che non sarei più
tornato», rimangono lì a ricordarci che essere calabresi è una condizione senza
redenzione e che, partire e restare, alla fin fine è lo stesso: si è sempre
alla ricerca di un luogo in cui fermarsi, di un simbolo nel quale riconoscersi;
magari un caciocavallo di bronzo che si erga sulle nostre miserie e su cui
posare lo sguardo per porre fine al vagare delle nostre anime.
Tommaso Greco
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