Un libro (in)dimenticato
di Pierpaolo Cetera
Nell’agosto
del 1979, per i tipi della gloriosa casa editrice Lerici (“gloriosa” almeno per
le proposte agli inizi della sua carriera), che aveva sede in via della
Repubblica a Cosenza, uscì un volumetto di 230 pagine in un color aragosta
(diciamolo, un po’ avveniristico, se confrontato con i grigi o bicromatici – ma
sempre scuri! – colori di altre edizioni concorrenti ...), scritto da un
antropologo dall’iter esistenziale particolare, autore di numerosi lavori che
hanno fatto la storia “italiana” dell’antropologia negli anni del fine secolo:
Gualtiero Harrison. Il titolo del libro era Nelle
Mappe Della Calabria. Il sottotitolo recava la dicitura “scorribande
antropologiche” … e la cosa già suscitava un certo interesse (almeno per i
recenti “appassionati” alle discipline antropologiche, come il sottoscritto).
Per certi aspetti l’opera in questione mi si presentava già dall’immagine usata
(un vecchio portolano medievale; il grafico del volume era L. Martinis),
dall’uso delle citazioni presenti fin dalla copertina (una,
dell’antropologo Luis-Vincent Thomas,
“l’antropologo della morte”; l’altra, di … Lewis Carroll, si!, proprio l’autore
di “Alice in Wonderland”!; per non parlare di Gregory Bateson, uno studioso che
non può non suscitare ammirazione e che iniziava a studiarsi in quegli anni,
nelle traduzioni della casa editrice Adelphi), si presentava, dicevamo, molto
interessante. Poi, considerata la mia smisurata passione per gli effervescenti
anni settanta, l’operazione era di primo acchito intrigante.
Debbo
fare una noterella personale: sono in età così avanzata che mi viene sempre più
difficile leggere un libro! Io sono uno che postula una relazione biunivoca tra
esistenza e (lettura di ) libri. Insomma, i libri se sono adatti all’età si
leggono allo stesso modo per cui si respira, cioè naturalmente: e così non
riesco a leggere tutti i libri che ho sotto gli occhi, anche quelli che per
dovere di studio o per piacere e diletto dovrei leggere (ma questa è un’altra
cosa).
Tornando
al nostro autore: sappiamo che Gualtiero Harrison scrisse questo libro durante
una sua (feconda) permanenza presso l’Università della Calabria (che la ricorda
con affetto, per la sua Arca vacàta …
“vuota”, una volta che era ripartito per le sue lunghe traversate-scorribande
nelle altre Università dove ha insegnato e tuttora insegna), seminando
interessi, ricerche e studi che tuttora sono al centro d’interessi variegati di
suoi allievi diretti o indiretti (cito, ad esempio, solo il caso di Ottavio
Cavalcanti). L’antropologo — che era nato in Sicilia e, in quel periodo,
compiva ricerche sugli analfabeti —, si trovava nella Calabria per continuare
gli studi antropologici: un interesse nato sulla scia di letture di libri come
quello scritto dell’antropologa bolognese M. Callari Galli (con cui scriverà
poi alcuni saggi) Le Storie di Vita.
“Ad
ogni era le nuove generazioni scoprono il loro viaggio …”: partiva così l’incipit
delle sue scorribande, ricordando poco dopo i suoi viaggi, le letture che lo
accompagnavano (come Gissing di “Sulle rive dello Jonio”), le osservazioni
dirette della realtà calabrese, le migrazioni, i contadini, la modernità, Pier
Paolo Pasolini e la cultura di massa, le ironie sul “territorio”, la
parola-mantra con cui politici, pubblicitari, giornalisti, amministratori,
professionisti, dirigenti oggi si riempiono la bocca e che usano come un atout per sconfiggere qualsiasi altra
argomentazione (quanta preveggenza il nostro Harrison! e in più luoghi del
libro emerge questa capacità di previsione[1])
Un’osservazione
partecipata e privilegiata. I suoi interessi si spostano continuamente nella
deterritorializzazione (e qui avviene spontaneo l’incontro col suo Deleuze) dei
frammenti di vita, di opinioni, di misure e dismisure, di materialità e
immaterialismo: è una concitata affabulazione ( e forse per questo la prima
lettrice proprietaria del volume l’ha riempito di punti interrogativi … io da
non contemporaneo e lettore diacronico mi diverto!). Emergono spunti
preconizzanti su spoliazioni culturali ed esercizi di quel biopotere che ora fa
orrore, la dissimulazione del subalterno come chiave di lettura dell’esperienza
calabrese (e qui non posso non pensare al Pensiero Meridiano), la “visione
fantascientifica” (!) della “comunicazione per computers”(pag. 143), la long dureé della questione della lingua[2] (a
proposito: quando vogliamo riaprire la questione del dialetto? L’A. ha scritto
di un legame tra l’arbitrarietà scomparsa della lingua arbereshe e “ più generale
crisi della nostra civiltà”)
Ecco
proprio questo emerge nella straordinaria analisi dell’antropologo (anni fa lo
incontrai all’Università di Bologna, lo avevo sentito parlare e pensavo che
fosse calabrese e gli parlai in Calabrese, non sapevo chi era né che fosse
docente di antropologia: ero lì per altro, io cercavo le lezioni di “Civiltà
musicale afroamericana” di Giampiero Cane!): una capacità di riflettere su una
scala vastissima di esperienza che travalicava la condizione contingente,
prevedendo forme di conoscenza e intuendo l’andamento a posteriori di certi
fenomeni culturali che riguardavano in primo luogo la mia terra. Io sto qui a
distanza di 36 anni a parlarne!
Magna Greciae nunc non est!
Ecco,
non il mito positivo che distoglie dalla realtà … ma neanche la realtà distinta
e separata che fa, ancora, la Calabria (che è una “regione inventata”: esistono
le “calabrie”) una regione del “selvaggio bianco” – questo è stato
l’equivalente “glocal” del calabrese nella prospettiva delle “scienze positive”
sul finire del XIX secolo — in un pessimo gioco di accuse tra chi rimane e chi
se ne va (il peggior calabrese è quello che “viene” e ci fa la morale, magari
con l’accento milanese!). Noi non abbiamo nessuna colpa caina né abbiamo perso
l’innocenza: il “dato di fatto” global-calabrese non si distingue (ne potrà mai
distinguere) da quello Veneto o Valdostano (per non dire di quello basco o
serbo). Aspetti individuali non sono riconducibili a tare ereditarie come vuol
farci credere una certa scienza ammantata di tecnicismi “genetici”. Non c’è
un’eccezione della terra rispetto a questi processi: se le ritrovate
dissimulazioni dei presunti retaggi criminogeni
ora alimentano le neoideologie “suprematiste” (padane o renane che
siano) o – in coincidentia oppositorum
- al “globalitario” culto dell’uniformità culturale, tutto ciò serve ai “benpensanti”
di ogni risma.
Il
saggio insiste – e non potrebbe non farlo! — sulla questione dell’ emigrazione:
ma la associa a discorsi non solo economicamente o politicamente rilevanti; ne
fa un discorso schiettamente antropologico, con accenni autobiografici (come a
rimarcare la recente autoanalisi che gli antropologi più accorti hanno fatto su
loro stessi e sulla loro disciplina). La divergenza con ogni altro studio
similare su questo enorme tema è ben riassunta nella frase seguente:
considerando integralmente il discorso sull’emigrazione, migrazione e
immigrazione si nota che «a fianco delle
motivazioni economiche e strutturali che determinano l’emigrazione (e le
migrazioni e le immigrazioni, ndr), esistono differenze culturali e ideologiche
che sono corrispondenti alle prime ma non solo e automaticamente dipendenti da
esse» (pag. 111). E tocca all’antropologo e allo storico capire a cosa corrisponde
il fenomeno da ogni punto di vista (affettivo, familiare, sociale, culturale,
linguistico ecc.). Tengo a ribadirlo questo discorso: qualche tempo fa ascoltai
la lezione di un docente dell’Università di Salerno, in occasione di un libro
su questi temi scritto da un nostro amico, Francesco Filareto. Ebbene il docente
“esaltava” dal punto di vista economico-sociale l’aspetto più visibile della
questione, amputando così – ancora una volta! — la complessa vicenda
dell’Emigrazione.
Nel
suo “racconto metaforico” del dopo-Cosenza (era a Padova, poi confermato docente
di Antropologia culturale a Bologna) l’autore ci ha lasciato materia viva e da
esplorare con le nuove “cose” acquisite. La sua era stata una “geografia
commossa” ante litteram, un pensiero cosciente della sua ricercata collocazione
meridiana. Peccato che la cosa non si sia ulteriormente sviluppata.
Concludo
invitando, naturalmente, a leggere anche altri lavori del nostro autore:
La
danza degli orsi, Sciascia,1974.
La
doppia identità. Una vertenza antropologica nella minoranza etnico linguistica
arberesh Sciascia ed. 1979.
Né
leggere, né scrivere (in collaborazione con M. Callari
Galli), booklet Milano, 1997.
Antropologia
psicologica. Storia, concetti, metodi, campi di applicazioni,
Cluep, 1988.
I
fondamenti antropologici dei diritti umani, Meltemi,
2002.
[1] La
previsione sembra essere un concetto dimenticato dalle scienze umane, una
capacità analitica affidata – con molto imbarazzo – alle correnti “irrazionali”
e superflue del pensiero (cfr: S. Kracauer, Prima
delle ultime cose, Milano, Marietti, 1994).
[2] “In che
lingua, in che perso dialetto?/quella vita, dico, quella sofferenza/ Confonde/
non decifra la scrittura/non riconosce l’evento/ha tutto parificato in uno
sconcio farfugliamento/ del tempo e del vivente/il custode smemorato del
documento/ L’uomo/ rugoso come una rugosa valva/ come lei svuotata dal mare/del
mutamento e basta … ( Mario Luzi, Al
fuoco della controversia, 1978)
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