La Calabria del Nord-Est senza fantasmi

di Tommaso Greco


Angelo Tommasi, Gli emigranti (1896) - Galleria Nazionale di Arte Moderna, Roma

1.
La Calabria del Nord-Est è una terra dai contorni indefiniti che per decenni si è stretta intorno ad un fantasma. Questo fantasma — l’aereoporto di Sibari — è stato (e per qualcuno è ancora) come il Caciocavallo di bronzo cantanto e scritto da Peppe Voltarelli: simbolo e sintesi di tutte le speranze e di tutti i fallimenti di una terra e di una gente, che hanno guardato a questo sogno impossibile come alla panacea miracolosa che potesse mettere fine a secoli di disperazione, di arretratezze, di ingiustizie. Pensavamo all’aeroporto di Sibari e dicevamo: se ci fosse quello, tutto sarebbe sistemato! Figuriamoci… Forse verrà un giorno in cui questa terra riuscirà a stringersi intorno a qualcosa di meno aleatorio e di più reale, agganciando la sua identità alle risorse che il suo territorio — pur continuamente schiaffeggiato, persino da chi lo abita — continua ad offrire copiose.
Forse la prima cosa necessaria è che questa terra e questa gente “si riconoscano” e imparino a vedersi come parte di una storia comune, stretta in un comune destino raccolto intorno al lato meridionale del golfo di Taranto sovrastato dalla catena del Pollino. E ben venga se questo riconoscimento dovesse iniziare grazie ai campioni sportivi che da essa stanno nascendo, oppure grazie all’estro di artisti — come il già citato Voltarelli, il quale magnificamente sta dando voce e musica a questa parte della Calabria —, oppure ancora in virtù di qualche scrittore a venire, in grado di fare ciò che Carmine Abate ha fatto e sta facendo per i paesi di origine arbëreshë; qualcuno insomma in grado di dare consapevolezza della propria anima a chi rischia di smarrirla per sempre.
Certo è che abbiamo a che fare con una parte del territorio meridionale che più di altre ha faticato ad emergere, anche storicamente, anche politicamente. E i risultati si vedono quotidianamente nel crescente abbandono in cui essa si trova.

2.
Questa premessa era necessaria per dire quanto importante sia la pubblicazione del libro di Franco Filareto, Fuga e ritorno di un popolo. La Calabria del Nord-Est (1799-2012), stampato dall’editore Ferrari di Rossano. Una importanza, voglio dire, che precede e travalica i contenuti del libro stesso, di cui tra poco diremo. Prendere una parte della Calabria, che non ha saputo mai riconoscersi come tale, e farne la storia con l’intento esplicito di “individuarla” e darle coscienza di se stessa, è già un’operazione che merita elogi e riconoscimenti; con la speranza — ma oserei dire, con la certezza — che di qui in avanti useremo sempre più spesso questa locuzione e impararemo a riconoscerci come “quelli” che vengono “da lì”. E sarà un passo avanti che forse porterà qualche frutto.
Il libro di Filareto è in realtà un insieme di libri: un po’ libro storia, un po’ libro di politica, un po’ pamphlet neo-meridionalistico. Di sicuro è un libro appassionato nell’impostazione e nei toni: scritto con passione equamente ripartita per lo studio e per l’azione. Per i contenuti, se si potesse aggiungergli un ulteriore sottotitolo, si potrebbe dire che si tratta di una “storia delle astuzie e delle atrocità delle classi dirigenti ai danni del popolo”: una specie di Fontamara non romanzato, in cui — qualunque piega prenda la Storia — a farne le spese sono sempre i più umili, i più disgraziati. Ma il libro è anche la storia delle resistenze che gli umili e i disgraziati hanno opposto ai loro oppressori, ed è questa a dare sostanza al lavoro di Filareto: resistenze che si sono manifestate attraverso due fenomeni i quali, ancora oggi, costituiscono forse i fatti più caratteristici nella vicenda storica del Mezzogiorno.
I due fenomeni di resistenza di cui Filareto racconta la storia sono il brigantaggio e l’emigrazione. Quanto al primo, Filareto si unisce alla storiografia più recente, che sta tentando di rileggere la storia del brigantaggio con lenti diverse da quelle che la tradizione ci aveva imposto e inculcato. Non più storia di illeciti e angherie ai danni del popolo, da cui i piemontesi sono venuti a salvarci, ma storia di vera e propria resistenza popolare contro un ordine percepito e vissuto come estraneo e illegittimo. Da questo punto di vista, nel libro di Filareto la riabilitazione del brigantaggio appare piena e convinta, supportata da analisi economiche, politiche, antropologiche e persino psicologiche. Forse anche troppo convinta, nel senso che il tentativo di gettare nuova luce su un fatto così importante e cruciale ha portato probabilmente a lasciare da parte qualche ombra e a rendere poco problematica la ricostruzione dell’intera vicenda. Il libro, ad ogni modo, contiene una straordinaria quantità di dati, di fatti e di nomi, quanti forse non erano stati mai raccolti in un unico volume.
Sconfitto manu militari — e con le violenze che sappiamo — il brigantaggio, ai meridionali non è rimasto che resistere in altre forme. E la principale di queste forme, dice Filareto, è passata per la via dell’emigrazione. Anche questo è un punto di vista interessante: anziché leggere l’emigrazione come fenomeno legato alla disperazione e al bisogno materiale, Filareto la legge come una forma della non sottomissione, come una manifestazione di libertà dei subalterni. Quasi la rivedicazione di uno ius migrandi, nel quale si realizza in forma estrema la libertà dei popoli e degli individui. Il che può sembrare eccessivo, e sicuramente lo è se lo si assume come paradigma unico ed esaustivo, ma coglie sicuramente una parte della verità dell’emigrazione. Ne è testimonianza diretta ciò che scrive Edmondo de Amicis nel suo reportage Sull’Oceano, redatto nel 1884, quando coglie negli emigranti che si recano in Sudamerica il tentativo di sottrarsi ai rapporti padronali e servili che ancora governavano (governano?) le campagne italiane del Sud e del Nord.
Brigantaggio ed emigrazione, come fenomeni di resistenza “dal basso”, dunque. Fenomeni accomunati da un medesimo desiderio di fuga, che però non rimane fine a se stessa ma è sempre accompagnata dal desiderio e dal progetto del ritorno, a completamento di uno schema che per Filareto rappresenta forse la vera struttura antropologica dell’uomo meridionale, nella quale si realizza in pieno la sua dignità (l’Autore parla di una «pulsione connaturata ai meridionali»). È un discorso forse troppo “essenzialista”, che ingabbia il meridionale dentro una identità originaria, costitutiva e tenace, dalla quale sembra non si possa evadere in alcun modo, ma che però riesce a cogliere certamente il sentimento col quale gran parte dei meridionali sta (ancora) nel mondo: partire e tornare (o restare) — come ci ha insegnato Vito Teti — sono davvero le coordinate psicologiche lungo le quali si dispongono i fatti della vita di chi viene dal Sud.

3.
Queste dunque sono le linee fondamentali lungo le quali si sviluppa il libro dell’ex sindaco di Rossano (non dimentichiamo infatti che l’Autore ha ricoperto questa importante carica politico-amministrativa in un passato molto recente). Un libro composto di più libri, abbiamo detto, nel quale per giunta si sovrappongono più modi di guardare al proprio oggetto di studio. Si può dire, infatti, che in esso si sovrappongano quelli che Franco Cassano ha chiamato “tre modi di vedere il Sud”. I “tre modi” di cui parla Cassano — la dipendenza, il ritardo, l’autonomia —  convivono non troppo problematicamente nel libro di Filareto, dando vita ad una visione che li sintetizza. Nella Calabria riletta da Filareto sono presenti infatti sia l’idea della dipendenza, nella denuncia dello sfruttamento da parte dello straniero; sia l’idea del ritardo, che si concretizza ad esempio nella ricerca delle cause dell’arretratezza delle classi dirigenti o del mancato sfruttamento del territorio; sia l’idea dell’autonomia, evidente nella rivendicazione della peculiare identità della Calabria del Nord-Est, che Filareto individua nei caratteri della “mediterraneità” e nella “jonicità”, e che emerge soprattutto nelle pagine finali del libro quando l’Autore sveste i panni dello storico e indossa quelli del politico che avanza proposte concrete per lo sviluppo e la rinascita del territorio che gli (e che ci) sta a cuore.
Una visione storicamente e sociologicamente complessa, dunque, cui forse è possibile rivolgere un unico piccolo rimprovero, relativo al poco spazio che nel libro è stato dedicato alla criminalità organizzata, una piaga che affligge anche la Calabria del Nord-Est e dalla cui debellazione dipenderà in gran parte la possibilità di iniziare quel percorso di rinascita civile, economica, politica e culturale cui Filareto ha dedicato queste pagine appassionate. Ovviamente non si tratta né di una dimenticanza, né di una scelta poco avveduta. L’opinione di Filareto è che qui si abbia a che fare con un fenomeno non strutturale ma epifanico, manifestazione di altri mali e altre mancanze, destinato quindi a sparire quando saremo riusciti finalmente a liberarci di questi mali e a riparare a queste mancanze. Insieme a lui, perciò, non possiamo che sperare che sia davvero così e che la rinascita della Calabria (non solo del Nord-Est, ma della regione intera) possa realizzarsi presto su tutti i piani (dal culturale al civile, dal politico all’economico) e che questa rinascita — con le lotte che certamente la accompagneranno — possa coincidere con la scomparsa di quel mostro nero che ha reso tristemente famosa la nostra regione in ogni parte del mondo.

Ciascuno è chiamato a fare la sua parte in questo immenso, esaltante e forse disperante progetto: anche chi scrive libri — come dimostra questo contributo di Franco Filareto — può svolgere un ruolo importante. Anzi: insostituibile.




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