Cassiodoro e lo scrittore
Un racconto di Mimmo Bitonto
Tutto principiò dalla miseria, quella
vera, cui mio padre, sventurato uomo, ci ridusse. Per tanto almeno credo gli
debba esser grato, infinitamente e con filiale affetto. Vivevamo nello sfarzo,
nel più bieco lusso, io non conoscevo sacrifici, gli stenti dei ragazzini miei
coetanei mi sembravano burla, il loro aver di continuo fame un capriccio.
Dalla miseria iniziai a diventare uomo, e da mio nonno materno, potendo grazie
a lui scrutar l’animo umano, scrittore.
Papà, mercante scaltro come pochi,
accumulò beni a dismisura, finché conobbe conti e marchesi, prodighi e
spilorci, puttane e biscazzieri. Divenne gaudente, in un amen dissipò ogni
ricchezza, sfumò i terreni al baccarat, a la roulette, a zecchinetta; al banco
dei pegni di Rossano impegnò, meglio, lasciò gli ori di famiglia, conservati da
generazioni; poi passò ad alienare il minuto, vacche cavalli asini e muli, fino
agli animali che razzolavan nel cortile.
Cominciò a mancarci il necessario. Io presi
presto ad abbacchiare, rastrellare olive,
spigolare grano, insieme alla tata andavo per campi a la raccolta d’ogni
verzura selvaggia, mamma a lavorare, dall’alba al tramonto in frantoi e molini.
Quando papà mise gli occhi sulla latteria, l’immensa nostra biblioteca, mia
residua consolazione, in cui di suo v’era pressoché nulla, nonno lo cacciò
fuori dalle stanze, ne chiuse il portone, gli intimò di mai più entrarvi: fu la
prima volta che gli si rivolse contro. Credo più per il senso di colpa che provò
che per timore del caro vecchio, il giorno successivo papà partì. Non come le
altre volte, riempì con cura valigie e scatoloni di ogni cosa che pensò gli
appartenesse, li caricò sul calessino, mi baciò in fronte e andò via: era un
abbandono.
Quando morì il nonno, poche settimane
dopo, ritornò a casa, a la Vota, come
se nulla fosse, ed eran passati due anni. Poco tempo appresso, rimise gli occhi
sulla biblioteca, che mia madre prese a proteggere col suo corpo. Profittò,
ahimè, de la sua assenza e con compari, brutti ceffi, il giorno del mio decimo
anno, la svuotò delle cose migliori, lasciando che i compari mi bastonassero a
sangue, ché m’ero opposto all’arraffo.
Con quel ben di Dio su un carretto -
preziosi codici miniati, calcografie, papiri, mappe, stampe antiche, pregiate
edizioni di opere di grandi scrittori - il malnato girò le contrade, le fiere,
tra galline e papere, lupanari e bordelli.
Chi volete li comprassero, massaie e
contadini, baldracche e magnaccia? Pochi ne vendette, chissà in quali mani
capitarono, i pochi soldi intascati si giocava in loco a mazzetto e scarabuscio;
altri scambiò per un piatto di minestra e miserabili amplessi in luridi casini.
Deluso dall’infame commercio, provò con
donazioni a vecchi doviziosi amici, fidando in prestiti che non ebbe, e infine
dette il resto al circolo, allora appena sorto, degli italianissimi fasci di
combattimento, una manica di violenti analfabeti, affinché dei libri facessero
roghi in piazza. Tutto per denigrare la memoria del suocero - socialista,
critico letterario, storico di grande qualità - che lo sostituì, nei pochi anni
che sopravvisse a lo scempio da lui compiuto in casa nostra, nel ruolo e negli
affetti.
Morì d’infarto, papà, sul laido letto
di una prostituta vecchia, altro non poteva permettersi.
Per chiudere i conti, mamma fu costretta
a mettere in vendita anche la Vota,
bella e maestosa, la nostra casaccia. Di acquirenti se ne presentò uno solo, Alfio Morrone, un pecoraro arricchito
con la guerra di Libia.
Metà del valore stimato da l’onciario, da
noi richiesto, 62.500 lire (ancora non si applicava il nuovo catasto savoiardo
del '86), gli sembrò troppo, ce ne offrì un quarto e il saldo di mille lire che
papà, disse, gli dovesse, purché comprendessimo ne l’affare anche l’unico fondo rimasto, confinante con la casa.
(Podere improduttivo, perché za Bommina
e compare Luiggiu, i nostri anziani
coloni, costui da tempo inabile, senza figli e nipoti - sparsi tra Brooklyn e Buenos
Aires, e nel Mato Grosso ad accoppare Indios col machete e la carabina,
stramaledetta miseria! - che potessero
continuare a coltivarlo, l’abbandonarono e vennero ad abitare a la casaccia e
spartire con noi il poco di minestra che riuscivamo a mettere in tavola. Comare
Bambina si occupò con saggezza della povera
economia domestica, e, per l’assenza diurna di mamma, mi fece da tata; compare
Luigi, sentendosi un peso, morì presto, poco dopo il nonno).
No,
disse mamma, il podere no! La casa colonica, dovendo alienare la Vota, era l’unica prospettiva di un tetto sulle nostre
teste.
Passarono mesi, sempre più pressanti le
richieste dei creditori, mamma tuttavia resistette e, a la fine, Alfio cedette:
liquidato con seicentoventicinque ducati (in realtà lire da più di un trentennio) il debito di papà, ce ne avrebbe dato
quindicimila per la Vota e avremmo potuto mantenere in
proprietà il podere e la casa colonica, a patto, qualora si decidesse di venderli,
dovesse lui comprarli; si decise allora anco il prezzo: 625 rucati, disse, non uno in
più.
Si sputò allora su la mano e la porse a
mamma, il cui guardo torvo lo convinse a rimettersela nel cosciale.
Chiusa così la trattativa, tolto dal nostro affanno le incombenze
più pressanti, io mamma Letizia e la tata, trasportammo a mano le suppellettili
necessarie da la casaccia e, a la bel e meglio, ci sistemammo a cento passi ne
l’alloggio serbato.
Il picciolo apprezzamento, qualche
acro, ma di buona terra, aveva vegetato bellissima erbaccia che mamma principiò
subito a sfoltire (za Bommina liquidò
in minestre la forba, i cardoni, i porri, la gramigna e ci cenammo per
settimane, i fieri arbusti di liquirizia e di mirtillo ridusse a stecchetti e
confettura che vendemmo), quindi a coltivare a orto, intaccando seriamente il
gruzzoletto residuo.
Un dì di domenica di Pasqua, gli empi (tali
credevo fossero padre e figlio Morrone),
il giovine in divisa fascista, da su il recinto mi dissero vociando: “Ruve jurn e jettam ‘nterr tutt!” (due
giorni e tireremo giù ogni cosa). D’impatto
non capii a cosa si riferissero. M’accostai mostrando il dubbio: una coltellata
mi diede il vecchio con quel dito che indicava a sinistra la Vota. Potevano farlo, roba loro, da noi
dismessa per bisogno, maledetta miseria!
Eppur non erano così cinici,
tutt’altro. Il Mondo (proprio il
Mondo disse), guarda avanti , spiegò
il vecchio, e anco essi. Giusto o no
succede, continuò il figlio notando il mio sconcerto; succede, ripeté il vecchio, ogni cosa cambia; è la natura, eh sì, il
giovine, la natura. Bah, la natura,
che accoppiata.
Aggiunsero che capissero fosse tragedia,
per me e mamma, veder un palazzone al posto della nostra bella casa. Passerà, disse il vecchio, pur compito;
passerà, la Vota diverrà per voi un
bel ricordo, e non sofferenza al solo vederla, chiuse il concetto il
giovine.
Mi stupì sì piacevolmente che gli volli
bene.
Piccolo, graziato, corti i capelli
castani, due occhi verdi che parevano posticci tant’eran lucidi, labbra
inferiori pendule, da sciocco, che mascheravano l’acuta intelligenza, zigomi
alti e fronte spaziosa, ove malignamente nera pendeva la frangia fascista del
berretto, a contrastare la bella immagine. Più grande di me di forse un lustro,
non c’eravamo frequentati fin’allora, può dirsi non lo conoscessi affatto se
non di vista, io mi circondavo di campagna, lui di mattoni, io coi libri e la cuntorta (falcetto che persi e
ritrovai), lui con la cazzola e il moschetto.
Accetta
le nostre scuse…, disse,
togliendo il fez e stropicciandolo in mano.
Non
dovute!, malamente lo fermai
e peggio, tu che c’entri?, inasprii.
Mi fossi la lingua tronca, mannaggia! Era
la verità, ma la dissi con astio.
Restò di sasso il giovine, teneva
preparato il discorsetto, la mia risposta l’aveva gelato.
Insomma,
intervenne l’anziano, duro bastante a
farmi sentire un verme, dentro v’è roba
magari a voi cara. A gente come noi, sopra
tutti alla signora, ricalcò, va dato rispetto. Due giorni avremmo avuto per
portare via quel che ci aggradi, l’altro resterà tra calcinacci e sterro e
scaricato nel fiume.
Azzardai una mano in su la spalla del
giovine e un sorriso. Non scostò, capì fosse un perdonami, un sorriso rivolsi pure al buon vecchio.
“Mamma!
- urlai «ci sono i …”
Mamma si affacciò a la posterla, vengo, rispose, aveva sentito tutto. “Buon giorno compare Alfio” disse al
vecchio sventolando il canovaccio che reggeva in mano.
“Buon
giorno, donna Letizia, come state?”
rispose questi.
Ella protese un braccio con ossequio a
salutare l’uomo.
“E
tu, brigante, brucia quel cappellaccio!” ammonì il giovine.
“Signora,
non dovete temere…”
“Oh,
non ho timore, sei un bravo figlio, ma per te sarebbe un bene”.
Rientrò, un attimo, sortì subito con il
panama di nonno.
“Ecco!
Prova questo, vedrai se ti dona!”
“Grazie
signora”.
“E
no!, devi darmi il tuo!”
Il giovine restò indeciso, il padre lo
toccò col gomito
“Che
ne farete?”
“Ah,
questo è cotone fino, non lo brucio no, ed è sprecato a portarlo in capo, mi
servono strofinacci, la casa è tutta impolverata, e con lo sfilaccio ci
scaccerò le mosche”.
Rise il vecchio, al giovine illuminò lo
smeraldo diafano dell’iride e fece lo scambio.
“Bravo.
- disse mamma - Tira su quel labbro… - e gli mollò un buffetto - andate, compare Alfio, verremo or ora”.
La lasciai giù da basso, io salii in
soffitta. Una moggiata di roba ammassata, v’ero già stato altre volte, ma
quando mai l’avevo notata?
Ohi le belle cose! Lo studiolo del
nonno, la vetrinetta ov’io mi nascondevo per non buscarle dalla nonna, “Così picciola?, come c’entravo?” mi domandai stupito; il planisfero tolemaico, che
per serbarlo a mamma costò un ceffone, più l’offesa, e pianse, di sentir le
mani di colui ch’ancora amava addosso; la lucerna, le sue carte, una montagna! La
mia cuntorta, ecco dove s’era
nascosta!
Tre
giorni!, urlai - senza
motivo, ché tutto era silenzio - da la finestrella a quelli, non empi quanto
brave persone ormai nei miei concetti, che da sotto guardavano in su. Tre
giornate intiere, dissi in sussurro più a me stesso che a loro, avessi di
bisogna, da mane a sera.
Il vecchio non capì, il giovine
accondiscese, pure cinque, rispose aprendo
la mano a indicarlo - la retta prima, poi la manca, ché non confondessi col
malnato saluto da balilla.
Non fu da mane a sera, ma da vespro a
notte, ché a mattino, m’ero scordato, avessi a guadagnarmi il pane. Mamma, di
contra, stazionò a la Vota e per
tutto il tempo, za Bommina dovette
sostituirla nel lavoro.
A lo scadere de l’accordo, prima
albeggiasse il sesto giorno, mi venne in mano un quadernone nero.
Guardai da basso, loro, i padroni, eran lì, al buio, a rimirar
come sempre le finestre. E sì che il cielo era stellato di mille luccichii e il
letto l’avevan comodo nel più bel abituro di Calopezzati.
“Che
fanno?”, mi chiesi. A
divenir ricchi si guadagna il tempo,
mi risposi.
Reggevo in mano il quadernaccio, in
realtà un quaternione: quattro fogli
piegati in due, inseriti l’uno nell’altro e cuciti alla piegatura; una riga di
scrittura indecifrabile di sbiadito rosso in cima, in basso, appiccicata, una
velina crema, con su, calligrafico a mo’ di fanciulla, memento mori!; e stilizzata, ma ben fatta, una testa scarnata, quasi un
teschio, che mi fece rabbrividire e sospettar la nonna. Grande donna!
Una patina di fuliggine alta un pollice
lo ricopriva e m’imbrattai le dita, anni era stato stretto in accosto a la
malmessa canna fumaria, poco faceva distinguere la bella sua fattura.
Dentro, ma senza svolazzi come nella
locuzione dei trappisti, un bel ragnetto
moro, che credevo in disegno anch’esso, il quale invece tosto si mosse,
s’appuntò al margine e ieratico scese, la seta sbrilluccicò al chiaror de la
lanterna.
Un libello, tale mi sembrò di primo
acchito, ché solo d’invettive era la pagina. “L’abbia scritte il ragno spodestato?”, pensai e sorrisi.
Indeciso, stavo per buttarlo, a la fine
lo misi con l’altro, libri sovra tutto e la cuntorta,
ne la ricolma carriola.
Compare Alfio non costruì il palazzo. Non butterò giù la Vota, signora, venne
a dirci, col cappello a larghe falde in mano, non molto dopo, e che quando vi sarete rimessi in sesto, e pareva convinto, mi darete quel che v’ho dato e sarà di nuovo vostra.
La restaurò, sì, con criteri
discutibili (adoperò ferro e calcestruzzo per esempio e al granito de la Jumarella, con cui era stata saggiamente
edificata, preferì il tufo di Paludi)
ma intatta lasciò, maestosa, la struttura.
Dopo un tanto rivenne, sempre col
cappello in mano (in verità la coppola di pecoraro che aveva dismesso). Fatemi la cortesia, io ne sarei felice,
ritornate alla casaccia, disse,
nessuno è più degno…, ma non concluse. L’avrem pagato con tutto il comodo,
e, se avrem potuto, un qualche ducato in
più, di quanto ci aveva per essa dato, sarebbe
stato gradito. Ecco le chiavi… le
vostre chiavi…
Mamma lo interruppe, no, rispose, compare Alfio, non ora, e… sì, l’avremmo
ricomprata, quando avremo potuto, avrem pagato tutto, e il di più che aveva
speso, e solo allora felici l’avremmo riabitata.
Fui contrariato, essa manteneva sempre
la parola, non era più la nostra casaccia e non lo sarebbe più ridiventata a
quel prezzo, come mettere insieme tanti quattrini in una volta? M’accorava
ancor di più da quando ci avevan messo mano. Guardai truce compare Alfio, poi mia madre, ma mi trattenni
dal replicare.
In seguito venimmo a conoscenza avesse
provato a disfarsene più volte. A Viceconte
Jannone l’offrì, a don Gennaro,
che di case aveva di bisogno per le amanti, viepiù abbassando il prezzo, senza
riuscirci. Accettò persino da Fulvio il
rospo, il più perverso dei Mazza,
scambio alla pari con un terreno. Il reprobo stava, suo costume, per turlupinarlo,
rifilandogli una pietraia. Il figlio se ne accorse per tempo e gli stampò il
contratto sul pustoloso grugno.
Noi non ritornammo in sesto, come
contava compare Alfio, la Vota restò
disabitata e guastò nei muri, che si scoprirono mal rifatti. Licheni li ricoprirono
e rampicante un’imponente edera vi crebbe; la latteria - una vetusta stazione
di posta sul desolato tratturo per la Sila, ove s’era, anni addietro,
sistemata la nostra biblioteca - cadde presto rovinosamente.
Mamma deperì con esse, pian piano, e un
giorno di novembre, col rovaio, serenamente spense.
Tutto del nonno avevo scorso per tempo
dei libri del solaio, non del quaternione
che ritenevo insulso, di frasi amorose pieno e turpi di fanciulli a le prime
calorie.
Lo feci quando restai orfano, in un
crepuscolare giorno di melanconia.
Ancora ne la carriola, con altre
cianfrusaglie, decisi fosse per il fuoco. Strappai la prima pagina, l’accesi,
ma si consumò prima potesse infuocar nel camino la legna, che secca non era.
Presi per staccare la seconda e inconsciamente lessi “… ab Iove principium, val la gruccia e il pendolo e merita l’esser
ponderato a fondo …” in un rigo al centro.
“Merita?
- mi dissi - Or dumque, sia, per Iuppiter!” scherzai per il modo antico in cui
fosse scritto. E lo lessi, d’un fiato al freddo gelido, per poi maledire stessi
per distruggerlo!
“…
il grande incendio, che tutt’oggi va per nominata, tre giorni imperversò ne l’89,
in stagione, ne l’agro di Mandatoriccio. Da le stoppe sortì, forse fu acceso
consapevolmente, passò poi ad arbusti e querce e da qui a’ campi e, quel che
più m’impensierì, a gli scantinati del vecchio maniero, su la litoranea, ove
s’arrese dopo averle devastate.
Sito
a sette miglia da la Vota, proprio sovra le cantine insistea, vetusta, una picciola
libreria. Tenuta a malasorte (infrequentata ché strage vide, in tempi remoti,
di fanciulle e ancora li presenti si retenea fossero quali spirti), ma di
pregio, di antichi libri e qualche codice fornita, talora io v’andava a
consultar testi e a chiacchierar col duca.
Quando
n’ebbi notizia, ed era già il terzo giorno, disperai avessero le fiamme il
sacro luogo invaso, e, bastato il mulo, lo misi al carrozzino e partii a la
volta. Povera la bestia, tanto fu scossa che arrivò trafelata a l’erta del castello
e si fermò. Da lì vidi gente affannata con secchi e pompe in mano, pensai non
spenta ancora fosse la pira e, attaccato il puledro a lo scheletro di un pero,
feci a perdifiato la salita.
Ne
la cantina enormi botti e fusti e barili e barilotti e botticelle eran crepate,
il vino sparso, millanta litra riempiano il locale e crepitava a mosto, carbone
gli stipiti e i banconi, fumo nero irrespirabile fuoruscia da le alte grate,
insinuandosi ne le finestre de la biblioteca.
Maledii
chi non le chiuse e mi si inoltrai, ma non potei entrare. Fosche tenebre e
umide di spirito avvolgeano la stanza, scottava il pavimento a pietra a
calpestarlo, non uno di tutta l’accozzaglia presente ne la corte se n’era
preoccupato e vi avea buttato acqua. Paventai il fuoco prima o poi scoppiasse,
bastava una pagliuzza per la vampa… I libri!
Chiamai
aiuto, implorai, nessuno mi diede retta, temean per il vino quei balordi, dovea
far da me. Corsi a perdicollo la discesa, slegai il mulo, lo presi per le briglie,
gli dissi “Su, coraggio vecchio mio!”, durai fatica a convincerlo d’andar verso
il fumo e il caldo, e salimmo l’erta.
Ne
la corte v’eran barili sempre riempiti d’acqua, ché la gran parte venia sprecata
nel percorso o buttata a casaccio, un paio li assicurai a bilanciere in groppa,
altri ne misi nel carro, raggiunsi la finestrella de la biblioteca e da su il
mulo scaricai tutta la massa nel locale.
Ripetei
fra le proteste quattro volte il giro, quindi mi fasciai gli scarponi ed entrai,
tenendo uno straccio umido su bocca e naso.
Lavorai
duro, nebbia d’etanolo lo ricopria, poco potea la pezza bagnata, la respirai.
Cavai quanto potetti di libri e carte e papiri e stampe, tanti mi si
sbriciolarô ’n mano, e fuori li buttai, prima di venir meno.
Sognai
per mesi l’uomo che mi cavò da la brutta situazione, ma la figura m’apparia
sfocata, come avessi fumo avanti gli occhi, non seppi chi fosse se non dopo
anni, eppure l’avea incontrato tante volte, l’unico serio idiota ne la zona,
con tanto di rinomina di scemo dei villaggi, quale non sapendo fosse il suo, di
tutti que’ del circondario.
Pepp
‘e gualità, Peppe il magnifico, lo si chiamava, ovvero Mienza nasca, mezzo
naso, che gliel’avevan tagliato mascalzoni e parlava roco tanto da parer
astruso.
Lui
stesso un giorno me lo disse, “ Cariente professò, ntra l’8 e 9 vaju serbatu,
vérberu!”, esimio professore, ne l’ottantanove vi ho salvato. Ma forse volea
significare: “tra l’8 e il 9 - ossia per un pelo - grazie a me siete ancora
vivo, caro mio!”
La
sua vita, Peppe, conducea in giro, con una pertica con appeso un tovagliolo e
un sacco che contenea tutto il suo avere. Cercava per quella notte un posto
dove dormire, e non avea mangiato che un pomo. Dal castello passò e, vistolo
deserto e col portone aperto, credette il fattore, uno sfaticato, si fosse come
spesso addormentato ciucco, e poter entrando l’una e l’altra bisogna
soddisfare, v’era sempre roba in su l’aia, e buona, cocomeri, zucche, talora
pane, e frescura pensò ci fosse sotto il sorbo per dormire.
Nel
cortile trovò desolazione, e fango e il sorbo magnifico inscheletrito, e un
mulo legato a un palo e attaccato a un calesse che appena lo vide nitragliò
penoso. Ne la cantina entrò da la porta overta, vino sparso per terra, le dita
intinse e le portò a le labbra, “ Era buono - disse – “l’imbecille s’è riempito
il bottiglione e non ha chiuso la spina della botte – pensai”.
Ritornò
in cortile, carezzò il mulo, gli diede una manciata di fave che prese da la
bisaccia e un secchio riempì d’acqua d’un fusto e glielo pose sotto il muso. Il
fattore non vedeva in giro, pensò fosse in che buco stravaccato col pintone. Lieve
poi sentì un suono, come un guaito, venia da la finestrella del mezzano.
V’arrivava
appena con la testa, dentro non vedea che in alto. “Un cagnolino” pensò. Ne
avea di bisogno, essendogli da poco morto Argo. Posò la pertica e la bisaccia e
s’arrampicò. Mi trovò disteso, di primo acchito credette fossi un lupo, e stava
per risaltar la finestrella, ma l’ohi ohi di cristiano l’arrestò, girò coraggiosamente
e mi toccò le spalle e risalì fino a la faccia. Il volto mi colava di sudore,
disse, nei panni era bagnato, accese la lucerna, mi riconobbe, “Tante volte da
voi ebbi ristoro”.
Mi
caricò sul calesse, quel che io avea serbato da la libreria parte era già sul
carro, mise dentro il resto che per terra c’era la vicino, sedette a cassetta e
frustò con la sua pertica la cavalcatura.
Mi
condusse a casa e sparì subito. Letizia, giovinetta, s’affacciò a la porta, lo
intravide un lampo, mi disse poi credette fosse l’angelo mio custode.
In
quelle carte v’era un rotolo scuro, di certo pergamena, sentenziai, e di pelle
di capra, un palinsesto, raschiato e riscritto. Subito intravidi fosse
preziosa, antica di mill’anni e più, de l’alto evo medio.
Bravo
a restaurare vecchi libri e codici, con le pergamene non m’era mai provato.
La
svolsi delicatamente, sette palmi per 24 pollici misurai, la fissai con pietre
ai lati, buchi v’erano e strappi, con polpa di carta li ridusse, de le parole
un massacro, tre di dieci forse eran rimaste, l’altre nascoste o offuscate, e
in tempi non recenti, certo non per colpa del fumo de l’incendio.
Cominciai
a pulire il verso, ove non v’eran scritte, poco con la pezza di morbido cotone
potetti, provai con gomma vinilica, andò meglio, parti si sbiancarô, altre
resistettero, non volli insistere, contentai. Lo girai, la gomma grattugiai per
bene su la superficie e massaggiai coi polpastrelli, lavoro inutile e dannoso.
Feci
poi una mistura di acqua e alcool, al cinquanta, vi inumidii un panno di lana
rasa lungo a bastanza e ve lo posi sopra, delicatamente, un’asse di mogano usai
a pressa. Due giorni aspettai, quindi lo tolsi.
Mi
prese un colpo, sbiancai, la polpa avea agito bene su le crepe, ma tutte le parole
cancellate! Notai però che sotto eran comparsi, pur debolmente, i calchi de la
scrittura precedente… Li spennellai con infuso di mirtillo e qualcosa venne
fuori, bastante a sentirmi soddisfatto: la fortuna avea agito meglio di me. In
calce lesse: F...i.. M…..s ..r....s
.....o. - C.s..odo..i, e feci un ohh!, l’ultimo lemma, pressoché
intiero, mi fece ribollire il sangue: Cassiodorii!”
Grazie al nonno, ho un manoscritto di Flavio Marco Aurelio Cassiodoro, che da Giove Casio, del tempio di Antiochia,
derivò il nome. Narra di quando fuggì
da Ravenna - temendo per la sua vita, essendo buon amico di Boezio, ch’era
stato condannato a morte da Teodorico
- e, tra molte peripezie, ritornò a Schillacium. Nessun libro di storia ne parla, io mi
accingo a scriverne un romanzo.
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