Sulla grande questione dei piccoli comuni
Tommaso Greco
Domenica scorsa, 26 marzo, si
è svolto un referendum in alcuni paesi della Calabria pre-silana per decidere
se fondere i relativi comuni dando vita a un unico centro. In 4 (su 5) dei
comuni interessati ha vinto il SI alla fusione. Ora toccherà alla Regione fare
i passi decisivi per realizzare la nuova unità amministrativa. La scelta dei
comuni di Pedace, Serra Pedace, Casole Bruzio e Trenta, che hanno deciso di
fondersi nel nuovo comune che prenderà il nome di Casali del Manco, può fare da
battistrada in vista di altri appuntamenti, a cominciare da quello che interesserà
i comuni di Rossano e di Corigliano, due città storiche dello Jonio cosentino,
i cui cittadini saranno chiamati a breve a esprimersi sulla possibilità di dar
vita anche qui a un unico comune.
I fautori della fusione,
naturalmente, cantano vittoria: nel caso specifico di Casali del Manco,
probabilmente, hanno pienamente ragione nel farlo. I comuni interessati
rappresentano già da tempo una unità sul piano territoriale e sociale, e pur
non conoscendoli personalmente, ho ragioni per credere che le persone che vi si
sono impegnate siano motivate esclusivamente da ragioni legate allo sviluppo e
alla tutela del territorio e dei paesi e non da interessi politici o meno che
mai personali. Quello che ritengo meno legittimo è che si prenda questa
occasione per farne una regola generale. Non manca infatti chi già preannuncia
una campagna regionale per far sì che si riducano drasticamente i comuni
calabresi. Il consigliere regionale Giuseppe Giudiceandrea, ad esempio,
impegnato in prima persona per la fusione appena approvata dai cittadini della
presila cosentina, ha affermato che "il nuovo paese (...) dovrà essere un esempio per altre realtà territoriali.: la nostra regione conta 409 comuni per un totale di meno di 2.000.000 di abitanti; bisogna creare un processo virtuoso di fusioni per far sì che i territori possano contare di più".
È proprio questo passaggio
che vorrei contestare. Non solo perché ritengo, in generale, che le soluzioni
che possono sembrare adatte in un caso non sempre possono esserlo in situazioni
diverse (un tema che qui, ora, non voglio approfondire). Ma soprattutto perché
vorrei, una volta per tutte, capire le ragioni per le quali la fusione dei comuni
è divenuta all’improvviso la soluzione a tutti i mali dell’ “Italia interna”,
come la chiama il paesologo Franco Arminio. Seguendo il dibattito che ogni
tanto ne sorge, a me sembra piuttosto
che la fusione sia divenuta una sorta di ideologia alla quale è ritenuto
illegittimo opporsi, perché appunto — ma è solo una petizione di principio —
“questa è la strada giusta”. Allora, lo chiedo sul serio in maniera non
provocatoria: potete spiegarci per favore per quali ragioni comuni che si
trovano anche a distanza di chilometri, divisi da fiumi e montagne, dovrebbero
fondersi e dar vita ad un comune unico?
Perché possono funzionare
meglio i servizi, dice qualcuno. Ma la logica dei servizi integrati è già possibile
ed è in atto in molte realtà e dà la possibilità ai comuni di collaborare
utilmente, senza che ci sia la necessità di annullarsi.
Per avere un risparmio di
risorse, dice qualcun altro, dimenticando che la riduzione delle risorse per i
piccoli paesi, nello stesso momento in cui per le metropoli e i grandi eventi
si stanziano continuamente milioni e milioni di euro, è un problema che
andrebbe affrontato con azioni di contrasto e di resistenza, non
acconsentendovi e sottomettendosi ai diktat.
Ancora: perché le fusioni
sono oggetto di politiche favorevoli, come finanziamenti più generosi e il
venir meno di alcuni vincoli di bilancio. Ho chiamato fin dall’inizio questa
tecnica di cui fa uso il nostro governo “la politica del cappio al collo”. O
fai come dico io, o ti strangolo. Anche questo è un argomento che meriterebbe
forse qualche riflessione in più, invece di essere assunto come giustificazione
a priori di una scelta da compiere: a mio parere assomiglia all’argomento
precedente e meriterebbe di essere respinto al mittente, perché è come se un padre
togliesse da mangiare al figlio piccolo e malato — col motivo inconfessato che
il figlio grande e sano deve crescere ancora di più — e poi gli dicesse che gli
darà qualcosa da mangiare (un qualcosa che è sicuramente molto di più dello
zero a cui lo aveva ridotto) soltanto se farà le stesse cose del figlio grande,
cose che peraltro lui non potrà mai fare perché non ha le condizioni fisiche e
strutturali per poterle fare. In altre parole, ancora una volta, si vogliono
applicare ai piccoli paesi le stesse regole che si applicano alle grandi città
e alle metropoli e a tal fine gli si chiede di accorparsi, pena la chiusura
definitiva, come minaccia una proposta di legge a firma PD sulla fusione
obbligatoria che giace, per ora, in Parlamento.
In un’Italia che è il Paese dei paesi ci vorrebbe forse un
atteggiamento diverso, più attento alle singole realtà, per tutelare una
ricchezza che tutto il mondo ci invidia e che rappresenta l’unica vera possibilità
di salvaguardia del ricco e variegato territorio italiano, con l’enorme e
prezioso patrimonio che esso custodisce. Se possiamo ammirare i famosi borghi
italiani sulle riviste patinate è perché nei secoli scorsi, e fino a pochi
decenni fa, su quei borghi si è investito e qualcuno ha avuto la forza e le
risorse per prendersene cura. In alcuni casi la fusione può essere utile a tale
scopo, quando l’unione dei centri urbani è già una realtà di fatto. Ma in
moltissimi casi non è affatto così, soprattutto per ragioni geografiche, e
sarebbe una forzatura mortale costringere queste realtà a riunirsi dentro una
realtà fittizia e artificiale che li trascenda e che finirà per annullarli.
Bisognerebbe dunque evitare
di affermare che contro la fusione ci sono solo argomenti ‘passatisti’,
‘nostalgici’, ‘campanilisti’: un modo, questo, per delegittimare le resistenze
e per non discutere nel merito dei problemi. Per quanto la questione
dell’identità non sia affatto secondaria — ne riparleremo quando si tratterà di
valutare la probabile fusione di Rossano e Corigliano, due grandi centri che
non potrebbero essere più diversi per vari motivi — il punto principale rimane
quello di dare dignità e speranza ai
piccoli centri e a coloro che hanno compiuto coraggiosamente la difficilissima
scelta di viverci con le loro famiglie. Il fatto che in molti comuni possa
venir meno, in conseguenza della fusione, la rappresentanza
politico-amministrativa che si esprime nell’avere un sindaco e un consiglio
comunale rischia di essere la pugnalata mortale al loro senso di autonomia e di
esistenza. Dico questo, pur essendo pienamente consapevole delle manchevolezze
e della quasi totale inadeguatezza di molte amministrazioni comunali
nell’affrontare la difficile sfida del mantenimento in vita delle piccole
comunità. Ma non è chiudendo i comuni che si risolverà la crisi dei comuni.
Il vero problema dei paesi è
lo spopolamento, l’abbandono da parte dei suoi abitanti, e la nuova fuga di
massa verso i centri più grandi. La ragione principale di questa fuga, lo
sappiamo bene, è la mancanza di lavoro, non sempre determinata esclusivamente
da ragioni di depressione economica ma spesso — non nascondiamocelo — causata
da ragioni politiche, in particolare dalla scarsa lungimiranza e dalla
impreparazione degli amministratori (quando non dalla loro malafede e dai loro
interessi privati), da inefficienze amministrative, dalla presenza della
criminalità più o meno organizzata e più o meno presente nei comportamenti
delle amministrazioni stesse. La maggior forza
di cui i comuni hanno bisogno non deriverà perciò da operazioni artificiose,
ma potrà discendere da una rinnovata consapevolezza delle proprie possibilità e
della propria dignità, che vuol dire anche della propria storia e delle proprie
tradizioni. L’esempio della Puglia — un vero miracolo, fiorito proprio nella
disperata Italia del Sud — dovrebbe bastare per dire che il rinascimento dei
territori non può venire dall’acquiescienza alle politiche di bilancio che
privilegiano i grandi centri — acquiescienza che si configura pienamente nell’idea
delle fusioni sempre e comunque
— ma potrà venire soltanto da un nuovo investimento di energie — innanzi tutto
umane e morali e poi anche economiche — da mettere il più possibile in rete per
generare processi virtuosi di crescita. Chi dice che i comuni avranno maggior
forza solo fondendosi dovrebbe fare un’analisi più approfondita delle ragioni
che hanno portato i paesi e i loro territori — parlo in particolare del Sud, e
ancora più in particolare della Calabria, dato che la situazione in alcune
regioni appare ben diversa — a vivere la situazione disperata nella quale oggi si
trovano.
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