Resistere al potere. Il dovere della disubbidienza



di Tommaso Greco

(Testo della lezione tenuta in Piazza dei Cavalieri il 5 ottobre 2010)
  
1.
Mi rendo conto di quanto sia poco originale fare l’elo­gio della disubbidienza, in un Paese che se ne infischia delle regole, delle leggi e della Costituzione e in cui una buonissima fetta di popolazione (la maggioranza?) vive quotidianamente nella condizione dei personaggi di una recente vignetta di Ellekappa: “pare che agli italiani non importi nulla delle regole” – “Chissenefrega” chiosa l’altro inevitabilmente. Con quale pretesa di catturare il vostro interesse mi accingo ad elogiare la ‘resistenza’ alle leggi in un Paese in cui qualcuno, molto più autorevole di me, pensa quotidianamente a screditare la Costituzione e ha ingaggiato una lotta senza tregua contro i guardiani del sistema giuridico?
Insomma, se c’è una cosa di cui davvero non si sente il bisogno è proprio l’elogio della disubbidienza. Ci sarebbe infatti bisogno, piuttosto, di una maggiore osservanza delle regole a tutti i livelli, in Parlamento come nei comuni, come nelle Università, dove – lo sappiamo bene – negli ultimi anni ne abbiamo visto di cotte e di crude.
Sennonché, di fronte ai ladri, ai furbi e ai prepotenti, ritengo – se non altrettanto, quanto meno anche – responsabili tutti coloro che avrebbero il potere di fare e non fanno, che avrebbero il potere di controllare e non controllano, che potrebbero alzare la voce e non la alzano. Ecco da dove nasce il mio elogio della disubbidienza. Dal vedere quanto, della nostra condizione, dipenda dal nostro silenzio, dalla nostra pigrizia, dalla nostra comoda posizione di ubbidienti: ubbidienti non alle leggi – si badi bene – ma ai potenti o agli arraffoni di turno, a coloro che ci chiedono di tenere una certa condotta, che magari viola le regole e le leggi con le quali dovremmo governarci, o semplicemente contribuisce a peggiorare la condizione di qualcun altro o di tutti. Mi è capitato di recente di parlare con persone a me molto care, che raccontandomi di certe discutibili operazioni in corso nell’am­ministrazione comunale del mio paese, consigliavano di “farci gli affari nostri”, perché tanto “sono sempre gli stessi che se la giocano tra loro”, e, argomento ancora peggiore nella sua evidente falsità, “tanto per noi è la stessa cosa”; come se gli effetti della cattiva amministrazione non ricadessero su tutti e quindi anche su di noi, che almeno per interesse, se non per ideali, qualche volta dovremmo pure intervenire.
Una situazione non diversa da quella che ho potuto cogliere spesso in questi giorni (e anche in passato) quando sento studenti che accusano i loro rappresentanti di aver voluto rinviare le lezioni perché tanto loro pensano alla carriera politica e non si preoccupano delle esigenze vere degli studenti. Come se le condizioni in cui versa (e sempre di più verserà) l’Università non riguardassero tutti noi che ci viviamo dentro, compreso l’ultimo dei nostri studenti.
Ecco: a volte bisogna essere addirittura disubbidienti a se stessi. Per citare uno dei grandi pensatori dell’Italia contemporanea – parlo di Francesco Altan, il padre della Pimpa – quando ci vengono in mente idee che non condividiamo (magari perché accusano la nostra pigrizia) è il caso, qualche volta, di seguirle e di metterle in atto[1].
Insomma, per concludere questa premessa: se siamo fin troppo ubbidienti in un sistema che ha come sua norma fondamentale lo spregio delle regole, possiamo sperare che un elogio della disubbidienza possa produrre – quale negazione della negazione – una qualche forma di ubbidienza virtuosa.

2.
La filosofia del diritto, che indegnamente insegno in questa Università, si muove fin dall’inizio tra un gesto di estrema disubbidienza e un gesto opposto, di estrema sottomissione alla legge. Antigone ha l’onore della citazione nelle prime lezioni di un corso filosofico-giuridico perché ci aiuta a mettere a fuoco il contrasto talora insanabile tra diritto naturale e diritto positivo; Socrate è colui che ci ricorda l’ine­lu­di­bile necessità del vincolo giuridico e dell’obbligo che ne de­ri­va. Da una parte, la ribellione al comando e la sfida al potere costituito; dall’altra parte, la sottomissione alla sentenza di morte.
Due modelli che appaiono inconciliabili, tanto sembrano opposte le direzioni verso cui orientano il nostro ragionamento. Proprio perché entrambi ritenevano ingiusto l’ordine al quale erano chiamati ad ubbidire, Antigone e Socrate sono da collocare ai due lati estremi del filo che dalla disubbidienza conduce all’obbe­dien­za, e viceversa. Questo ci spiazza: se l’ordine di Creonte era ingiusto, come ingiusta era la sentenza del popolo di Atene, come si spiegano due atteggiamenti così diversi? È il gesto di Socrate che ci mette in difficoltà. Se la sentenza era ingiusta, perché accettarla? Lo storico americano Howard Zinn, uno dei cantori della disobbedienza civile, non perdonava a Socrate il suo atto di sottomissione: se «è giusto disobbedire a leggi ingiuste», allora è giusto anche «disobbedire alle sentenze che puniscono la violazione di quelle leggi»[2].
A spiazzarci, in realtà, non è Socrate ma il nostro cuore, e più precisamente è il sentimento di partecipazione che quei due gesti estremi suscitano in noi quando rileggiamo le pagine grazie alle quali sono stati resi immortali. Come è possibile che due gesti così diversi provochino un sentimento analogo di condivisione e commozione? Cosa ammiriamo di più, la ribellione o la sottomissione? Una possibile risposta è che ciò che noi ammiriamo, in entrambi i casi, è il coraggio: il coraggio della ribellione al potere; il coraggio di affrontare la morte. Più che il coraggio, io credo che a suscitare il nostro sentimento di condivisione e di partecipazione sia il sacrificio: il mettere in gioco la propria persona, fino alla perdita della propria esistenza, per affermare la validità di una visione, di un certo modo di intendere la vita e i rapporti tra gli uomini.
Da questo punto di vista, Antigone e Socrate si ricongiungono e i loro gesti assumono un significato analogo e non contraddittorio. Si è trattato, in entrambi i casi, di dare seguito a quella che Simone Weil chiamava una «lettura» della realtà: entrambi i nostri eroi hanno dato seguito a una lettura della situazione che stavano vivendo che li orientava inesorabilmente verso il sacrificio. Per Antigone si trattava di affermare la validità di una legge «non scritta» che i decreti del potere volevano mettere a tacere; ella «non poteva, per paura di un uomo arrogante, attirar[si] il castigo degli dèi». Per Socrate si trattava invece di confermare il principio supremo del suo insegnamento etico, e cioè che non si deve mai commettere ingiustizia, nemmeno quando ingiustizia si sia sofferta, dal momento che solo il comportamento giusto conduce alla vera utilità per sé e per gli altri; sottomettersi alla sentenza, per quanto ingiusta, era giusto in quanto la disubbidienza “a fini personali”, non solo avrebbe attribuito un significato utilitaristico all’ubbidienza alle leggi, ma avrebbe dato ragione a chi lo aveva condannato, vanificando tutto il suo insegnamento. Ubbidendo alla sentenza di morte, Socrate disubbidiva in realtà a quanti avevano interesse a neutralizzarlo. Paradossalmente, la sua ubbidienza alla sentenza è un estremo gesto di disubbidienza.

3.
Se sono partito da un richiamo a pagine tanto alte della storia della filosofia non è perché avevo bisogno di trovare un appiglio retorico per questa particolare lezione di oggi. Anzi, ho consapevolmente corso il rischio di sembrare troppo serio perché mi interessava sottolineare soprattutto un aspetto della lezione di Antigone e di Socrate. Il loro gesto di disubbidienza (al potere, e al potere dell’opinione) è motivato dal farsi carico di una situazione in cui solo il gesto individuale può ambire ad affermare un principio di giustizia quando tutto volge all’in­giu­sti­zia. Essi rispondono ad un dovere.
Ho intitolato la mia lezione al “dovere della disubbidienza” e non al diritto, violando consapevolmente l’abitu­di­ne corrente. Siamo infatti abituati a parlare piuttosto di “diritto di resistenza”, coerentemente con la rivoluzione copernicana di cui parlava Norberto Bobbio per indicare come nella modernità si fosse passati dal linguaggio del dovere e dei doveri a quello dei diritti.
É il diritto alla resistenza ad essere sancito in modo solenne nella Dichiarazione del 1789: all’art. 2, insieme alla libertà, alla proprietà e alla sicurezza, la resistenza all’oppressione figura tra i diritti fondamentali del cittadino.
Affermare un diritto di resistenza, nella modernità, non era affatto scontato: il modello contrattualistico dei giusnaturalisti era piuttosto chiaro: lo stato è la macchina artificiale (il Dio mortale hobbesiano) creata dagli uomini mediante la loro volontà per sfuggire alla condizione precaria dello stato di natura. Come ben sapeva Hobbes, la volontà del sovrano non è altro che la volontà di coloro che hanno creato il sovrano, affidandogli la propria sopravvivenza. Come potrebbe giustificarsi la resistenza a colui la cui volontà non può – per definizione – che coincidere con la mia? Il patto che abbiamo stipulato – il pactum subiectionis mediante il quale i governanti ottengono dalla volontà dei governati la legittimazione della loro supremazia – ci obbliga all’ub­bi­di­en­za. Alla protezione che il sovrano ci offre dobbiamo rispondere con la nostra ubbidienza.
Sappiamo quanto lo schema contrattualistico abbia in realtà dato vita a modelli politici diversi, persino opposti. Sappiamo bene quanto John Locke, ad esempio, padre del liberalismo e del costituzionalismo moderni, abbia derivato da quello schema un modello che sa quasi di quadratura del cerchio. Stavolta, grazie ad un ben congegnato stato naturale, nel quale gli individui si riconoscono reciprocamente determinati diritti, il rapporto governanti/governati include addirittura – senza per questo contraddirsi – il diritto alla ribellione nei confronti del governo ingiusto: l’“appello al cielo”. Locke è colui che nella maniera più dettagliata, tra gli scrittori moderni, ha presentato una tipologia delle ragioni legittime della resistenza. Ma non è questo che vorrei sottolineare. Vorrei proporre una lettura più generale e evidenziare due aspetti.
Il primo. Ciò che la storia del contrattualismo ci insegna è che nel rapporto tra protezione e obbedienza c’è un residuo, un qualcosa che rimane sempre fuori da quel nesso e che non può essere catturato. È la ragione che ha portato a costituire il rapporto medesimo, la causa del contratto direbbero i nostri amici privatisti. Per Hobbes si tratta della vita (sapete bene che persino il teorico dell’assolutismo ammetteva la possibilità di sottrarsi all’ubbidienza, qualora il sovrano avesse messo in pericolo la vita, cioè la ragione che aveva spinto al contratto); per Locke si tratta dei diritti naturali, i quali non possono essere mai ceduti perché nessuno «può dare maggior potere di quanto ne possiede» e, ad esempio, nessuno può cedere il proprio diritto alla vita dato che la vita ci è stata data dal Creatore. Per Spinoza, autore il cui contrattualismo è controverso, si tratta del diritto naturale, cioè della possibilità di mettere in atto tutto ciò che è in nostro potere per la nostra sopravvivenza.
Il secondo punto che vorrei evidenziare è che la validità di questo residuo, il suo persistere di fronte al potere non è legato ad alcuna garanzia giuridica, ma dipende piuttosto da una sua ‘durezza’ naturale, o come nel caso di Locke, all’as­sun­zio­ne di uno specifico ed esplicito dovere di difenderlo. Se per Hobbes la difesa della vita è un istinto, una necessità naturale, per Locke la difesa dei diritti naturali è un compito che gli individui si assumono, sia nello stato di natura sia nella società civile, fino al momento supremo dell’appello al cielo. Per Spinoza, là dove le cose sembrano talora funzionare in modo automatico e meccanico, in realtà entra in gioco una sorta di dovere di farle funzionare: il diritto di natura agisce (deve agire) là dove i governanti si allontanano dalla ragione. Spinoza ci credeva davvero e riteneva questo meccanismo infallibile. Sentite questo passo: per Spinoza, il governo, se vuole persistere, dev’essere in grado di mantenere le condizioni del timore e del rispetto dei cittadini. Perciò, «correre ebbro e nudo in mezzo a prostitute per le pubbliche piazze, fare l’istrione, disprezzare apertamente quella legge ch’egli ha stabilita, e conservare la maestà del potere, è impossibile al sovrano, come essere e insieme non essere» (TP, 4.4). Come dire: non è possibile mantenere l’ubbidienza dei cittadini quando il governo fa (i governanti fanno) cose che non dovrebbe(ro) fare. Di fronte a queste cose, infatti, il diritto naturale di ognuno insorgerebbe immediatamente facendo “resistenza” nei confronti del potere. Purtroppo, o meno male, Spinoza non conosceva l’Italia dei nostri tempi dove proprio il tratullarsi con le prostitute, raccontare barzellette, disprezzare la legge, sembrano conferire un prestigio sempre maggiore al governo.
L’interesse estremo della posizione di Spinoza sta proprio nel modo in cui concepisce il potere (la potenza) del governo. Essa è fatta dalla somma delle nostre potenze; sta a noi fare in modo che vadano nella giusta direzione, e qualunque sia il nostro comportamento l’equilibrio delle potenze ne risente. Qualunque cosa facciamo, si tratterà di comportamenti che avranno una loro conseguenza; anche quando ci facciamo “gli affari nostri” l’equilibrio ne risente (ovviamente, a favore di chi è al potere). Si tratta di volta in volta di decidere a favore di quale equilibrio mettere al servizio la nostra forza, la nostra potenza, il nostro diritto naturale.

4.
Mi rendo conto che un’indagine esauriente del nostro tema ci avrebbe dovuto portare non solo ad un approfondimento del percorso storico (dai monarcomachi medievali e protomoderni e dalla loro teoria del tirannicidio arrivando fino alle timide affermazioni di questo diritto presenti in alcune costituzioni contemporanee) ma anche ad un percorso analitico che avrebbe dovuto aiutarci a distinguere le diverse forme di resistenza al potere, da quelle più lievi, come la cosiddetta ‘obbedienza passiva’, a quelle più radicali, come la ‘resistenza attiva’.
Non abbiamo la possibilità – e, devo ammettere, nemmeno tutte le competenze necessarie – per un cammino di questo tipo. Mi interessa di più, in questo frangente, tirare un po’ le fila del breve discorso che siamo venuti facendo.
Ho tenuto a sottolineare la figura del dovere piuttosto che quella del diritto. È a mio parere la prospettiva più adeguata ed è anche quella che maggiormente è stata percorsa dai grandi autori del passato: basti pensare allo Jhering de La lotta per il diritto, dove il diritto è frutto di una lotta costante e continua, necessaria sia nel momento dell’in­stau­ra­zio­ne del nuovo diritto sia in quello del mantenimento dell’ordine giuridico conquistato. Per non parlare dei grandi nomi della disubbidienza civile da Thoreau a Gandhi, da Martin Luther King a Nelson Mandela. In tutti è dominante la componente del dovere, il non poter fare diversamente da quello che si deve fare.
Venendo più vicino a noi, com’è noto, la nostra Costituzione non parla né di diritto né di dovere di resistenza. Il tentativo compiuto in sede costituente da Giuseppe Dossetti ­– il quale aveva proposto la seguente formulazione: «la resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino» – fu dapprima annacquato nella commissione dei 75 e successivamente annullato nella discussione in aula[3]. Tra gli argomenti vincenti vi fu quello di Fiorentino Sullo, costituente democristiano come Dossetti, secondo cui si rischiava di fare un’operazione meramente pedagogica, operazione del tutto fuori luogo in una costituzione. La storia ci ha insegnato che le operazioni pedagogiche vanno fatte; se non altro, perché ci sarà sempre qualcuno che opererà al tuo posto se non vuoi fare il pedagogo: dove non opera la pedagogia della Costituzione, potremmo dire con amarezza, ha ben operato la pedagogia della televisione. Ricordiamo tutti  che una delle promesse non mantenute della democrazia di cui ci parlava Bobbio era quella del cittadino non educato. Se proprio non era possibile sperare che si realizzasse il paradossale auspicio di Saint-Just, il quale voleva che fossero le istituzioni «a ispirare ai cittadini e agli stessi fanciulli una resistenza legale e agevole all’in­giu­sti­zia»[4], era quanto meno auspicabile che ci fosse un maggiore impegno sul fronte dell’edu­ca­zione civica e dell’elogio della virtù.
Eppure c’erano stati padri della patria che avevano insistito su questo; se proprio non vogliamo parlare di Mazzini, parliamo di Guido Calogero, anche per ricordarlo in una Piazza che lo ha visto spesso negli anni in cui onorava Pisa col suo insegnamento nella nostra Università.
Per Calogero, ogni cittadino ha il dovere di chiedersi, di fronte a un ordine del proprio governo, se questo è stato posto in modo tale da rispet­tare tutte quelle pro­cedure che permettono a chiunque di far valere le proprie ra­gioni. Egli ha il dovere di «opporsi attivamente, e non solo con pas­siva disobbedienza, ad ogni autorità le cui coercizioni non risultino da un li­bero giuoco di persuasioni, assicurato il più possibile attra­verso gli strumenti della democrazia costituzionale e dello stato di diritto»[5]. Calogero nega per­ciò che ci sia un diritto all’insubordinazione, un diritto di appellarsi alla pro­pria co­scienza quando «si sia tirati personalmente in ballo». O le procedure fondate sulla legge del dia­logo sono state rispettate, e allora bisogna sotto­stare al­l’obbligo politico e ubbidire al comando democraticamente posto; oppure quelle procedure non sono state rispettate, e allora si ha il «dovere d’insor­gere». In sostanza, l’esercizio della disobbedienza o di un eventuale diritto di resistenza non viene giustificato con la pre­tesa di difen­dere il pro­prio diritto, bensì con l’obbligo di difendere il diritto al­trui (e anche il diritto tout court). «Certamente non si deve ob­bedire in tutti i casi in cui un’auto­rità presenti il proprio co­mando come asso­luto e incondizionato: giacché, per ciò stesso, si mancherebbe di riguardo verso tutte le al­tre coscienze che potes­sero non esser convinte del­l’opportu­nità di quel comando, e che dovrebbero comunque fruire di possibi­lità co­sti­tuzionali di prote­sta, cioè di possibilità di modificazioni future di quell’or­dine. Nessun ordinamento di diritto può essere seriamente stabilito da un’autorità, che pretenda essa medesima di sottrarsi a ogni norma di di­ritto»[6].
L’esempio del dovere d’insurrezione mostra con evidenza che il porre l’accento sul dovere anziché sui diritti non è un modo per tornare alla conce­zione assolutistica o quietistica ­del rapporto politico. Calogero non fa affatto l’apologia dell’ob­bedienza al sovrano, ma pone su basi più solide la possibilità (che per lui è una necessità, quando vi siano i presupposti) di ribellarsi all’ordine in­giusto. È esattamente il punto sottolineato da Locke – quando rispondeva preventivamente a chi lo avrebbe accusato di fomentare il disordine ammettendo l’appello al cielo – e ripreso di recente da John Rawls.

5.
Ho detto poc’anzi che il diritto di resistenza si afferma grazie ad un residuo, grazie al fatto cioè che nel patto di sottomissione al governo rimane fuori un qualcosa che non possiamo mai delegare al governo stesso. Qual è il nostro residuo? C’è qualcosa che non possiamo mai pensare di delegare ad un governo, al quale pure promettiamo obbedienza, ad esempio in quanto funzionari dello stato? Ho il sospetto di sì, ed ho anche il sospetto che tutti noi ne siamo convinti, e che è per questo, per questo residuo che siamo qui in questa piazza.
Si tratta in fin dei conti di sapere quando e perché bisogna disubbidire. Direi, in generale che si deve disubbidire, non di fronte a un ordine che ci appare genericamente e soggettivamente ingiusto, ma di fronte a un ordine, una legge, che rendono impossibile lo svolgimento della propria missione, del proprio ruolo, della propria funzione. Penso, per avere un riferimento, al Bobbio di Politica e cultura (1955) che parlava di una politica propria degli intellettuali, che egli chiamava “politica della cultura”: quella politica richiedeva che gli intellettuali difendessero le condizioni che permettono lo svolgimento del proprio lavoro. E allora mi domando, riferendomi ad alcune situazioni dei nostri giorni: non c’è una qualche cosa, un qualche bene che, ad esempio, i giornalisti devono difendere dal potere? Non esiste una “politica del giornalista”, che poi non è altro che la difesa delle condizioni che rendono possibile la sua professione? Quante volte vediamo che sono gli stessi giornalisti a dimenticarsene facendosi servi del potere? Ecco, allo stesso modo, deve esistere una politica dell’Università, che poi non sarebbe altro che la difesa delle condizioni che le rendono possibile l’esplicazione della sua funzione di ricerca e di formazione. La consapevolezza di questa “politica” ci impone dei doveri.
Sentite cosa scriveva don Milani nella celeberrima lettera ai magistrati che dovevano giudicarlo per aver scritto contro i cappellani militari: «la scuola è fuori del vostro ordinamento giuridico»; poiché essa «siede tra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi […] è l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio; da un lato formare in loro il senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè di senso politico». Questo significa che «anche il maestro è fuori del vostro ordinamento e pure al suo servizio. Se lo condannate attenterete al processo legislativo»[7].
Ecco il punto. Mi domando di nuovo: c’è una funzione della scuola e dell’uni­ver­sità che noi abbiamo il dovere di difendere, qualcosa che non possiamo mai inserire dentro un patto col potere, e che anzi dobbiamo difendere contro qualunque potere, di fronte a qualsiasi ordine politico? Io credo di sì. Noi abbiamo il dovere di difendere il ruolo della cultura e del sapere nella società.
Un’avvertenza importante, a questo punto: questo dovere non vale solo contro coloro che da fuori attentano all’università o alla scuola, ma vale anche – e a volte soprattutto – contro coloro che attentano all’università e alla scuola da dentro, minandone la credibilità, il prestigio[8]. Evitiamo di fare come il personaggio di una poesia di Trilussa che, per non rimanere solo nella denuncia di una truffa, preferisce farsi truffare in compagnia di tutti gli altri[9]. A volte, bisogna trovare la forza di dire che “il re è nudo”, il che significa che bisogna trovare il modo di far emergere quanto non funziona in ciò che ci circonda o che magari funziona in un modo tale da portare discredito e vergogna.
Bisogna avere il coraggio di disubbidire agli altri e a se stessi, avere la capacità di alzarsi come quei personaggi del film di Wall-E che avevano disimparato a camminare ma che alla fine ci riprovano, dando una grande prova di resistenza al potere, ergendosi in piedi contro chi voleva continuare a lasciarli seduti davanti ad uno schermo, impedendogli di guardarsi intorno e di assumere i doveri corrispondenti allo stabilirsi di nuove relazioni.
Compiere il nostro dovere di docenti, oggi, vuol dire assumersi la responsabilità di difendere l’Università senza nascondersi dietro le proteste degli studenti, e magari avendo la forza di compiere azioni scomode. Troppo facile protestare a parole lasciando sempre le cose come stanno o mettendo in atto azioni di cui nessuno, fuori dell’Università, si accorge davvero. Bisognerà una buona volta dimostrare quanto teniamo alla dignità nostra e del nostro lavoro. «La nostra approvazione, la nostra stima, infatti – scriveva Alessandro Passerin d’Entreves – non vanno a chi vuol fare l'eroe senza correre rischi, (o) a chi, dopo aver violato la legge, cerca, o pretende addirittura, di farla franca. Vanno invece a chi, contro l'opinione dei più, ha il coraggio di denunciare apertamente la legge che considera ingiusta, invocando non già il diritto, ma il dovere di farlo, e contribuendo, col soffrire la pena che la legge gli commina, all'avvento di una legge migliore e di una società più libera»[10]. (A. Passerin d'Entreves).
La disobbedienza civile, in fin dei conti, «è una forma di partecipazione politica, attraverso la commissione di atti illegali o l’omissione di atti giuridicamente doverosi al fine di modificare alcune norme di un ordinamento»[11], anche se, come ricordava Hannah Arendt, non sempre gli atti di disubbidienza sono rivolti «verso mutamenti desiderabili e necessari»»; talvolta essi mirano alla «preservazione o restaurazione necessaria o desiderabile dello status quo»[12]. Noi dobbiamo lottare per cambiare l’Università, ma per cambiarla davvero e migliorarla, non per distruggerla. Il nostro silenzio, oggi, contribuisce a farla morire.
Tutto questo è necessario. Non possiamo scegliere di star fermi, se davvero amiamo l’Università, che per gran parte è la nostra vita. Dobbiamo agire, con la consapevolezza che, quando avremo fatto tutto ciò che andava fatto, non potremo far altro che pronunciare le splendide parole del Vangelo di Luca: «siamo servi inutili; abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17, 10).


Testo in formato pdf disponibile qui.




[1] Mi accorgo solo a posteriori che questo mio ragionamento collima con quanto Hannah Arendt attribuisce al ‘tipo’ rivoluzionario, là dove contrappone l’interesse comune (da seguire) all’in­te­resse personale (che si sarebbe portati a seguire ‘naturalmente’), secondo uno schema la cui paternità viene attribuita a Rousseau: «da allora in poi la virtù è stata identificata con l’abnegazione. Robespierre predicava una virtù che era mutuata da Rousseau: e questa è l’equazione che ha impresso, per così dire, il suo marchio indelebile sul rivoluzionario e sulla sua intima convinzione che il valore di una politica possa essere verificato in base al grado in cui si oppone a tutti gli interessi particolari e il valore di un uomo possa essere giudicato dal grado in cui egli agisce contro il proprio interesse e contro la propria volontà» (Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano 1999, pp. 83-84.
[2] H. Zinn, Disobbedienza e democrazia. Lo spirito della ribellione, Il Saggiatore, Milano 2003, p. 236.
[3] I termini essenziali di quella discussione sono opportunamente ricordati da Maurizio Viroli nel suo libro L’Italia dei doveri, Rizzoli, Milano 2008, p. 87 ss. «L’articolo 50 del Progetto di Costituzione – commenta Viroli – con il comma sul diritto e il dovere di resistenza, avrebbe insegnato un aspetto fondamentale dell’ethos repubblicano, che si fonda infatti su due princìpi: il dovere di essere fedeli alla Repubblica, alla Costituzione e alle leggi, e il dovere di resistere contro l’esercizio arbitrario del potere» (p. 90). «Dei due mali possibili – conclude il ragionamento Viroli – l’eccesso di fierezza civile che trascende nell’anarchia, e il difetto di fierezza civile che nutre l’abito servile, mi pare difficile negare che in Italia il vero problema è sempre stato la carenza più che l’eccesso di fierezza civile» (p. 91). Su questo tema, dello stesso autore, si legga il recente La libertà dei servi, Laterza, Roma-Bari 2010.
[4] L. de Saint-Just [1767-1794], Frammenti sulle Istituzioni repubblicane, Einaudi, Torino 1975, p. 181.
[5]. G. Calogero, Quaderno laico, Laterza, Roma-Bari 1967, p. 89.
[6]. G. Calogero, Filosofia del dialogo, Edizioni di Comunità, Milano 1962, pp. 397-8.
[7] Don Lorenzo Milani, L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1983, pp. 36-37.
[8] Ne è stato un bell’esempio recentemente la lettera inviata da Roberta de Monticelli al rettore della sua Università per protestare contro alcune parole pronunciate in occasione della laurea di Barbara Berlusconi. Si può leggere la lettera al seguente indirizzo: http://milano.repubblica.it/cro­naca/2010/07/20/news/quella_cerimonia_per_barbara_berlusconi_ha_offeso_noi_professori_e_i_­no­stri_studenti-5717947/ .
[9] Quanno de notte sparsero la voce  / che un Fantasma girava sur castello / tutta la Folla corse e, ner vedello, / cascò in ginocchio co' le braccia in croce. / Ma un Vecchio restò in piedi, e francamente / voleva dije che nun c'era gnente. // Poi ripensò: - Sarebbe una pazzia. / Io, senza dubbio, vedo ch'è un lenzolo:  / ma più che di' la verità da solo, / preferisco sbajamme in compagnia. / Dunque è un Fantasma, senza discussione. E pure lui se mise a pecorone (Trilussa, Bonsenso pratico, in Centofavole, Mondadori, Milano 1995, p. 166).
[10] A. Passerin d’Entreves, Obbedienza e resistenza in una società democratica, Edizioni di Comunità, Milano 1970, pp. 230-231.
[11] F. Biondo, Disobbedienza civile «conservativa» e neocostituzionalismo: rilevanza e limiti di un dibattito teorico, in A. Vv., Diritto in trasformazione. Questioni di filosofia giuridica, a cura di V. Omaggio, Editoriale Scientifica, Napoli 2005, p. 286.
[12] H. Arendt, La disobbedienza civile e altri saggi, Giuffrè, Milano 1985, p. 58.

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