Racconti del Pataro

di Mimmo Bitonto


Il narratore  – homo dell’anno 1000, speziale e, in tarda età, archiatra – è un vecchio che in gioventù ha girovagato per l’intiera Italia, allora costituita da un’unica immensa foresta che di tanto in tanto si apriva in piccole o ampie rade, naturali o disboscate, le quali accoglievano case sparse, villaggi, borghi e città, per subito richiuderli dalla sua macchia, spesso impenetrabile. Rare le strade, le meglio conservate avevano mille e più anni e costruite dagli antichi romani, come le vie Appia, Salaria, Popilia, e la via Franchigena, che da Roma raggiungeva la Gallia a nord e Brindisi, ove era un imbarco per le crociate, a sud; praticate, quando la quantità delle acque le permetteva, le vie fluviali e quelle marittime a cabotaggio, a meno che non si possedessero grandi flotte, commerciali e militari, come a Venezia, Genova, Pisa e Amalfi; i restanti erano sentieri impervi, mulattiere sconnesse e tortuose, frequentati da feroci grassatori, che provavano a violare, sovente senza riuscirvi, la verginità della Selva. Insomma, il cammino era tutt’altro che sicuro.

Il narratore racconta historie da lui vissute durante il suo lungo peregrinare. Sa leggere e scrivere, ma non è certo un letterato: scrive come parla, in un volgare tardo medievale, talvolta sgrammaticato (perché il volgare della comunicazione, pur derivato dal latino, non ha la precisa, dotta regolamentazione sintattica della Lingua ciceroniana) e con inflessioni dialettali di varie regioni, dovute al  vagare del nostro da luogo a luogo (dalle terre longobarde e venete, alle emiliane, romagnole, fino alle campane, apuane, calabre e sicule). Racconta di sé in terza persona, incidentalmente in una sorta di colloquio paradossale (reso in corsivo) con l’altro se stesso, che invece parla in maniera diretto, da protagonista (come mostra nei quattro settenari in epigrafe). Il narratore, serio e pacato, aveva cominciato a dialogare, contrapponendosi, in effetti un monologo volutamente schizofrenico, ossia fisiologico, con l’altro sè – cialtrone, buffonesco, bugiardo e blasfemo – da quando, diventato completamente sordo, gli fu pressoché impossibile comunicare con altri. Nella trattazione delle historie, l’alter ego, quasi gli fosse seduto, ovvero steso accanto sul letto di morte, ascolta estasiato se stesso e interviene, per piccole, sapide precisazioni, come se il ricordo non sia completamente condiviso e compreso.
Non sono certo di essere stato chiaro, ma a leggere ho speranza vi rendiate subito conto.
Questa la terza historia. Le prime due trattano dell’infanzia e dell’adolescenza di Liuti, protagonista-narratore, che qui è un giovanotto (di historia in historia diverrà adulto e vecchio).
Incidentalmente in questo racconto Liuti incorre nell’epistolario di Johannes Calybite, un vecchio monaco del Monte Athos ha la missione di portare la preziosa reliquia a una comunità di basiliani, successori di religiosi che un centinaio di anni prima si erano rifugiati nel Bruttium, trovando protezione dalle persecuzioni iconoclaste dapprima, poi di papi e dei Normanni che intendevano latinizzare la Ecclesia Romana, impedendo il rito bizantino. Da anacoreti ton armòn (eremiti di grotte) diventarono cenobiti. Numerose furono le eparchie bizantine, dal Pollino all’Aspromonte. Appartenente all’eparchia rossanese un monasterio sparso sulle colline tra le valli del Traente e de lo Jumarella che nomarono, dal loro santo, Calybiti. A questo cenobio, nella finzione del racconto,  era destinato l’evangelario, il “libro” lo raggiunge decenni dopo e sarà narrato in un’altra historia. Le alterne vicende dell’evangelario, che cambia mano e proprietà più volte, fino a scomparire, e la  mia ipotesi che sia infine ricomparso sotto altro nome, possono indurre il lettore a pensare che evangelario e Codex Purpureus siano la stessa cosa. È solo un artificio letterario, elucubrazioni, pertanto non necessitano di prova documentale. Insomma, supporre l’identità dell’evangelario di san Giovanni col Codex, per quanto verosimile, non è vero. Tenetene conto. Un’ultima considerazione che mutuo da un mio dotto amico: per scrivere volutamente male è necessario saper scrivere bene. Buona lettura.





[…] et peroché me accingo
a ragionar, ramingo,
con me istesso d’historia
d’inane esistenzia.

Premitto

In illo tempore, lo dogado di Venisia, ove nacqui or è multo lasso, loco era di libertate et justizia, de la sua gente, da lo più piccolo piscatore, boscarolo, bottegaro et artigiano a’l grande mercante et giudio, niuno era in miseria né servo. S’operava commercio (cosa la cui radamente videtti in altro loco), ovverossia trafficavasi merci et homini, res ferrosa, argentea, aurea, materia stagnosa, ramosa, brunzea, d’ottone, carboniosa, granitea, lo pretioso salgemma del Salzkammergut, ambra et ligno, granaglia, et omnia strumenta d’utilitate li quali si coglieva oveunque si riuscìa a cogliere, vicino, in Carinzia, Tridentino, et luntano, da’ russi et scandinavi, et si dislocava con grave periglio per li flumini et le terre da’l baltico, attraverso l’alpes rhaeticas, da lo Mar Niro, lo Donau, la Drava, lo Mur fino allo mare; in Dalmazia comperavasi vino et schiavi ultramarini, ungari, partici, non christiani (ché proibito è lo schiavizzare li christiani). Porzione picciola ristava ne lo dogado, la maggiore trabordavasi con la sua grande flotta in oriente et vendevasi a Bisanzio, Alessandria, a li ottomani, a lo califfato di Baudac, di Farsa.
Da quivi et quinci, qualche uno raggiungea lo remoto Katai con carri et muli, sentij con le mee orecchia favolosi cunti di arcobaleni orta et contraversi, nivose montagne le cui cime surpassano lo primo limen de lo cielo, praterie sconfinate, di olio de petra, foco libero, ditto greco, che pote incendiare un naviglio fusse un fuscello, un maschio fusse un tronco, un maniero como fusse un arbore.
Da ogne dove riportavansi altro ben di Deo: spetie, broccati, tappeti, che stipava in piazzeforti et vendeva in fondachi, numerosi et sanza vincoli, in tutto lo mar di mezzo a le terre[1], et ne la terra firma di Venisia, in grandi fiere a Rialto, Malamocco, Torcello.
Da isto loco movono le historie di Liuti, per lo svolgerle in oveunque.


Terzia historia

Patari calybitani et evangelario


Lo incontro che cambiogli la vita lo hebbe fori di un lupanare. Era giunto ne la civita di Capua, principato normanno, non volea fermarsi, troppo grande et perigliosa, li homini parean malindolosi, bruti armati fino a li denti, taluni con la scimitarra de li saraceni et la istessa mussola sopra lo capo. Ma le donzelle…

oh, le donzelle! succinte, sanza mammillare né capezio, gnude da le terga in suso et da li ginocchi in giuso

… lì gli pareano più pulcre, non rescìa a smetter di mirarle, lo loro odor balsamico, di menta, miele, issopo, alloro et salvia, sentìa gli entrasse drentro, occupasse le viscere...

Un formicolio provava a lo basso ventre, la peluria ivi s’era foltita et lo bigolo, a mirar fanciulle, cresciuto in tal guisa che parea vorrìa sortire da le brache. Che sensazione!

Vagabondò collo cagnolo[2] a lo fianco per le strade con neuna voglia di procurarsi lo vitto, a li trivi et li quatrivi non sapea quale la via pigliare, tante v’eran fanciulle dianzi, a dritta et a manca. Non sentìa la fame, sol frenesia, desio, che impuro lo rendea…

sovente trovavami irrorato ne le braghe di liquor denso, appiccicoso.

Dovea risolversi, o morto sarìa di inedia. Così, lasciando lo cagnolo fori le porte a mordicchiar una fusciacca, entrò in un lupanare. Li avventori, ne li vestimenta differenti, parean foresti de lo loco; chi mangiava minestra di farro, chi trangugiava pinte d’ippocrasso et idromele, chi a lo joco de le carte intento; qualche uno talora bracciava una baldracca et s’appartava. Luiti chiese a lo patrono quanto lo costo at appartarsi.

L’oste mi squadrò da capo a piedi, «Truoppo pe ttia» respose. «Quanto?» replicai. «Tri tarì de rame pe le vecchje, cinco pe le jumente». Per jumente intendea le giovine.

Di giovine, ve ne fussero, Liuti non ne vedea punto, v’eran quattro laide et una piccola servetta, la quale certo non potea ancor esser meretrice.

«Di che jumente cianciate, qui…» dissi a l’oste, che parve non mi ascoltasse neppure et continuasse a servir li tavoli. «Patrone!» vociai et mi gli si opposi contra per trattenerlo. Allora misemi un palmo a lo petto et con facere dubitoso disse: «Tu famme veré li sordi, io te fazz guardà le jumente, tu ramm li tarì, io te dongo la jumenta». «Più a lo tardi» resposi, tusciando lo borzello, drendro c’eran li sassolini che, da saltimbaco, volteggiava ne l’aere a le fiere, et un solido soltanto, che valea meno di tre tarì.

Lassò lo osservasse curiosito et si lontanò da isso. Girò per li tavoli. Su quello di scarabuscio v’eran tarì sparsi, a lo meno una decina, et una moneta splendente (un argiros di Bisanzio), sanza troppa attenzione supra d’essi. A quello de lo zecchinetta et a li dadi, stando in piedi, li juocatori li dinari li teneano in mano, o ne’l burzellino legato a la cintola: potea co lo cortello tagliar la cordicella et faserlo scivolare sutta ne la mano. Mirò un homino basso, posto in un canto, con ventre prominente, una voglia rubra d’acino in visu, ricche le vesti con borchie et spille d’oro, di cuoio le calighe, la borza pendiculante a tracolla. Di certo di Amalfi un mercantero, pensò, che avea vista florida di mercanzia quasi como Venisia. Dovea sceglier dove agire...

Lo meglio sarebbe stato alleggerir l’homino, non curava lo joco quanto le donne. Preda facile, ne la confusione metter la mano ne la bursa sanza che s’accorgesse di nulla era cosa factibile, ma li due gaglioffi che tenea vicino me lo sconsigliarno.

Scelse lo tavolo di scarabuscio. Andogli bene due volte, raffando una moneta et un’altra ne’l mentre discuteano animosi supra un punto: se lo tenutario de’l postribulo apprezzava lo suo solido papale, potea bastare per la meretrice grassa...

ma io desiava una jumenta, a lo quanto meno mirarla, mostrando a lo rejetto pronubo cinco tarì, le puppe certamente avean sode et non le flaccide de le matrone.

Parea simplice colpire ancora, gli sembravan così sciocchi et avvinazzati, metter isso medesmo zizzanìa, volgerli at inculparsi a vicenda de la ruberia, trascurando lo tavolo et li dinari...

Lo fici, riuscij a scatenare li animi tra duo villani su li tarì scomparsi.

Non eran pur troppo tutti scimuniti. Uno smilzo, lo quale dubitava, avea forse pria notato una sua mossa, guardavalo sottecchi già da pria...

io non me n’era reso cunto, calai la mano su la moneta d’argento, la quale sola sarìa bastata per cinco jumente. El tale mi scoprì et diede alarme. Mi furon subbito a dosso, strapporonmi la tunica, caddero li dinari, l’argiros, la pruova, mi sentji perduto.

Ma lo cagnolo da fuori, esso s’accorse lo patrone fusse nei guai. Con la fusciacca in bocca, pelo et coda irti, zanne in mostra, s’accostogli: un ringhio sordo persuase l’assalitori  a mollar la presa...

Gagnai con un balzo l’uscio, mentro lo cagnolo tenea li altri a la bada.

Trovò rifugio in un’oscura grutta, sentì la canea sortita da lo lupanare per brancarlo passare ultra. Pur ben ascosto, vacillava et tremolava, non tanto per la spaura, tante volte avea rischiato et facta franca: per la prima fiata sentìa la culpa, avea messo homini contra homini, che nulla di male gli avean producto, per lo suo vantaggio. Auscultossi lo respiro, li suoi inseguitori, pensò, avean filii, familia, li loro guai... “Per tanto pauco ti fai problema? – si chiedette – li bisogna tua chi li cura? certe niuno, a lo sopravvivere hai lo diritto, anco se avverso li diritti altrui”.
Lo tremolio cedette a quelle razioni, si chetò, anche se restossi interdetto. Non chiesesi lo perché, quel dubitare eragli inusuale, non lo capìa. Qual’altra soluzione v’era?
Con lo ventre vacante et sanza dinari, non restava che ceder a’l sonno, semper consulatorio. Vi era appena caduto, che un lampo veloce chiarigli le palpebre, aparì gli oculi, un romore indistinto, dilicato, non audibile, simile at una vibrazzione, fecelo sussultare. Tutt’intorno lo voto de la grutta, la tenebra gli parve densa, carica d’ignoto, inesplicabile. Sentì un respiro, uno soltanto et non lo suo, ei esalava rozzo, apprenzivo, quello era più un suspiro.

Lo agnolo o lo demone ne li quali meo pater non credea, quelli che faceano consolare et paventare mami?

Si convinse di averlo delirato, per ’l patir la fame, per lo desio carnale insoddisfacto. Si predispose novamente a li sonni. Li avea appena ritrovati che subbito rihebbe la istessa sensazione. Stavolta fu certo: altro che fantasia, non era solo ne la grutta! Essendo a’l buio, stese con batticore le braccia, toccò la petra, fridda, la seguì rasente, quomodo fusse infocata, la volta a lo breve s’abbassò, continuando in un pertugio, tastò li margini, infilò lo capo, allungò la mano... Qualcosa palpeggiò, molle in superficie, sutta più consistente. Un gattolo? No, avarebbe maulato, li sarìa saltato a dosso o fujito, isso ancor avanti d’esso. Un polso sfiorò, poi un palmo aperto che subbito si richiuse: un homo!
Lo respiro che pria sentìa dilicato, s’era ora facto duro, anzimante, di timor panico. «Chi tu sie?» reclamò Liuti in supplica, di paura sopraffacto da togliergli lo fiato. Ma la paura de’l tale era ben superiore a la sua, tremolava tutto, mugolava lieve «Pater noster...», stava orando! «Chi tu sie?», richiese allora con gentilezza, di cui l’homo non si accorse.
«Son christiano respose – non fatemi de’l male». «Perché mai dovarìa farti male» disse Liuti. «Siete un de’ langobardi?» «Langobardo io? Che no, in codesta civitate non ci sono langobardi, son nemici di li normanni». «Oh, che sì, un’intiera schiera, si mascherano da monachi per confundere lor razza, lo capo ha una bulla di salvacondotto apostolico, colla quale voleano convingerci a dar loro... voliono catturarci o perderci!» «Perdervi? Cosa voleano da voi? Quanti li siete?» «Quattro». «Tutti ne lo buco?» «Uno su l’altro». «Perché vi voliono accidere?» «Perché semo patari». «Patari?» «Sì, patari – respose l’altro con voce un pauco confortata et continuò – Patèe in mediolanense vuol dicere stracciconi». «Stracciconi?» «Sic, cenciosi, pezzenti, così credono di infamarci, ma noi semo miserabili, scegliemmo la pauperitate et ne semo fieri; semo anco pàtiros, pronti a lo patimento, a lo martirio, per una Ecclesia paupera et pura». «Per lo codesto bon proponimento li langobardi voliono rendervi captivi, a dirittura accidervi?»
A codesta domanda non li diede resposta, stese lo braccio et trovò la mano di Liuti, la palpò.

Lasciai facere, non ci vidi minaccia.

Tanto che stavi per fujre, lo bugiardello.

L’homo lo trattenne et continuò: «Siete giovine, lo sono anco eo. Ditemi, in tutta sinceritate, siete un langobardo? gli rassomigliate ne lo accento». «Che no! Lo accento alemanno? – se pur non  se ne rendea conto, allora ancor tenea la cadenzia de li teutoni – È per lo che son filio di todeschi, che parlavano più todesco che romanzo, ma nascetti in terre di Venisia». «Siete solo?»
Liuti ci muginò supra, mettendo l’homo in apprenzione, poi respose che...

“Zittati, lo dicio io!” “Facilo, ma dichi lo vero!” “Lo vero meo non è anco lo tuo?” “Non semper, caro lo meo mendace”. “È lo spirto giulivo et schietto, lo quale a te difetta, ne lo quale tu voli ravisar mendacio, caro lo meo serioso sordastro”. “Basta blaterare! Allora, dichi o non la resposta?”

 «No – resposi – ho tria cagnoli fori de la grutta, lupi feroci, et, fate attenzione, vi tiegono a la bada!»

L’homo, lo quale tenea la forza d’un tauro, non diedegli retta, brancò le spalle de’l ragazzo et facile, movesse un fuscello, lo trasse ne lo buco. Niuno cagno gli saltò a dosso...

quello chissà ove era, io sperava fusse ancora vivo.

Drentro lo pertugio de la grutta un audore nauseabondo. L’homo disse: «Tranquilizatevi, patri sancti, niun pericolo, est solum un giovine sfuggiasco tal quale noi».
Uno di quei focò una torcia di sego, quasi consunta. A lo debole chiarore, Liuti vide ’l gruppo: quattro homini, tutti di cenci coverti et di puzzo, in lo fundo un vecio mal lo messo et un anziano, li altri duo a l’intorno, lo minore colui lo quale lo trasse drentro.
«Filiolo – principiò l’anziano, che nomavano pater, ma non magister – clausi siamo in codesto pertugio da tre dì, perdonaci lo cattivo olezzo, ma ci avemo vacuati li bisogna. Habiamo finito le pauche vettovaglie et puro l’acqua, afamati semo et di sete convulsi».
«Et braccati omai da presso – continuò lo giovine musculoso – Stannoci a li calcagna. Duo de li nostri frates furon catturati a Beneventum et seviziati, chè vollero difendersi et non fujire, li nostri persecutori se li portan dietro incatenati, quali fussero issi li malfactori. Da lungi li confratelli ci coraggiarono a non scoprirci, di portare a compimento la nostra missione, ché di lor martirio lieti sono in Christo. Ma star rinchiusi più non lo possiamo, lo pater magister, santo monaco, è vecchio et malato, non pole resistere ancora a tal inedia, co lo sole sortiranno un paio di noi a cercar da mangiare et da bibere, che Dio habbia di noi pietate».
Cadde silenzio a codeste parole, niun’altro profferì motto. Liuti restò impetrato, qual brutta faccenda per quei monachi… ma erano monachi o frati? Allora non capia la differenzia.

In veritate duo patari, lo giovine forzuto et lo pater anziano, frati più che monachi, vivìano ne’l secolo, non in monasterio; et duo monachi più che frates, de la regula di San Basilio: colui che chiamavano pater magister o egumeno, epirota de lo monte Athos, et lo senzale, che seppi poi si nomava Kelilal, et provenìa da la Sancta Terra.

Sol una tunica a dosso, sanza fibbia et bella consunta, calzari rosi da lo longo errare, che dovea esser stato anco largo. In qual maniera potìano far paura? Pensò a lo suo stato, cencioso l’era pur’isso, famato, secutato, sanza familia né lo cagnolo, preso di libidine che gli rendea torbido lo intelletto, da anni et anni a far cialtronerie da saltimbanco, misfacti da latro et baro. Da che putto vagabondava per lo mondo, sanza mai fermarsi troppo in un loco, et avarìa potuto, in un paio di fiate, postare, tra brava gentes che lo avarebbe accolto benignamente, et con sudore et duro laboro guadagnarsi honestamente la pagnotta.
Tuttavia, a paragone d’essi, stava da deo. Amava quella vita, la franchigia, a tanti et tanti preclusa, de lo scegliere questa o quella strada, niun che gliela imponesse. Conoscea ogne jorno novelli posti, villaggi, borghi, civita, mari azzurri verdastri o neri, flumini tempestosi e cheti, montagne svettanti a lo cielo a forar nebule, at incontrar meravigliose stelle, maestosi lachi circundati da foreste, et persona semper diversa. Certe, avea dovuto tullerare ingiurie, provato la galera, la gogna in piazza, ma anco avuto bona hospitalitate et surrisi. Et lo affetto de lo cagnolo, dove mitterlo? Era consolatorio di omnia mala. Raramente patìa la fame, ché la mano avea svelta, sofferì ’l frigore et la calura, codesti sì, ma la libertate di goder ne ’l vento li profumi, ne lo pluvio la voluttà, ne lo rigore invernale li fremiti, ampiamente ripagava la sufferenzia.
Lo sono di una campana si sentì in luntananza. «La prima vigilia[3] de la notte – disse l’anziano – oremus frates, cantiamo sanz’echo l’Ambrosianum, per la veglia basterà».
Per tutt’el tempo de lo coro silenzioso, Liuti restò a mirare attonito quella gente, così indifesa et pur retenuta periculosa. “Se son straccioni, inermi, che guasto posson facere a lor nemici, nobbili et facoltosi da assoldare langobardi, ché si voglia la lor morte?”
Appena finirono le jaculatorie chiese al giovine, con lo quale si sentìa in confidenzia: «Fraticello, che razza di periculo rappresentate, quale spaura facite ché voliono accidervi?»
«Non posso responderti, lo farà lo pater, o l’egumeno, se’l vole, parla pauco et solum per lo tramezzo de lo pater anziano».
«Chi vol perdervi?»
«Ti dirò chi ci persecuta da presso: dimoni sanguinari, vestono da cluniacensi, con tonica et manto grigiastri, simili a li nostri, ma con alti gambali, sutta le vesti pugnali, gladi corti et sanza filo a lo fianco, piccole lanze da razziatori, minuscole balestre in su le spalle, mazze ferrate et bastoni ne la cinta. Lunga la rossa chioma et la barba, piccoli cerchi a li orecchia: langobardi!»
«Possibile scambiarmi co’ tali?»
«Non ti vedea, la paura che tu lo fossi, la tua pronunzia... Tu sei un bravo giovine, perdonami»
«Bravo giovine? eh, tu nol sai, io...»
«Lo sei et eo te benedico, ora dorme con noi, se supporti lo puzzo, dimane...».
«Dimane sarete persi, per inedia o da li langobardi»
«Se Iddio lo vole, fiat! Ora dorme, eo veglierò su di te et de li frates»
Ciò dicto, gli si sedette vicino, lo fice stendere et poggiare lo capo su la sua gamba, lo segnò in fronte, lo benedisse, «Dorme» ripeté. Ma Liuti non riuscì chiuder oculo, non solo per lo puzzo...

Non per lo puzzo, no, ne avea supportato di peggio sin su la chiatta padana a trasbordar carcasse d’animalia et fetenzia humana[4]. Como potea? Quella sancta gente, destinata era a lo martirio, ché indifesa. Dovea far qualcosa.

 Non chiuse oculo a pensare cosa facere, in qual modo un donzello sanza dinari, isso pure in periculo per lo facto de ’l lupanare, sanza armi, de’l resto non avrebbe saputo adoprarle, potea salvare quella brava gente, averla vinta contro malfactori che non avarìano di sicuro remore a mozzargli lo capo?

Certe, non affrontandoli, ma sgattaiolando sotto i loro oculi, batterli con astuzia, in questo era esperto.

D’un tratto si alzò, l’amico s’era addormito, carpon carponi sgattaiolò da lo buco, mise lo capo fori da la grutta. Guardò a dextra et a manca, niuno. Fice una decina di passi et fischiò. Aspettò, fice qualche altro passo e rifischiò. Non lo vide né lo sentì, se lo ritrovò a’l fianco…

lo cagnolo! affannato et contento, zompettante come un cucciolo, dovea avermi cercato da per lo tutto. El male odore de li monaci l’avea di certo confuso, ma qualcosa avea sentito et rimasto ne’ pressi del nascondiglio, s’era in fine accucciato, lo suo patroncino non potea essere luntano. Fecegli qualche coccola, non multe, non era tempo.

Al mattino, andando a zonzo per la villa, Liuti avea scorto un hospitium in un angiporto vicino a la bettola dove avea cercato di rubare et d’appartarsi con una meretrice. Lo desio gli ritornò, lo scacciò. Pensò a l’homino in ricche vesti, dovea trattarsi di un exactore de la decima del principe normanno se era protetto da scherani, o di un mercante.

Chiunque lo fusse, la borza dovea tenere piena di tarì, calli, pizoli, tremisse, danari et piastre argentee et auree.

Dopo l’incontro con la meretrice, costui avarìa dovuto cercarsi un hostello per dormire, più a presso de’l lupanare per poterlo raggiungere in fretta et per vie traverse…

Per non rischiar de lo incorrere ne la rondaccia de’ vizi che lo avarebbe potuto punire a sette anni di pater noster, pane et acqua, cilicium et corona infamatoria per la sua luxuria.

Provò a cercarlo recandosi in quello hospitium. In qual guisa sarìa entrato, si chiese. L’inizio fu coraggiante: lo portone era aperto. Da fori si vedea un patio, con un pozzo a lo centro, debolmente luminato da facule di resina poste su la balaustra del primo piano de lo edificio. Fecesi coraggio et entrò. V’era a lo piano terreno la scuderia, sentìa lo scalpiccio, li soffi et li sbruffi di cavagli…

lo stranio erano belati pecorini et crapini

… et un altro locale, separato da essa da una scalea stretta che conducea a la terrazza. La porta di questo era occlusa, da una finestrella accostata spiò a lo interno: un dormitorio, una longa camerata , con piccole lucerne at olio a li lati, una decina di pagliericci per terra, sei o septe occupati. Dovea certarsi ci fusse anco l’homino ricco…

Li ovini ne la scuderia potiano esser stati razziati, el mal fructo di tributo de li poveri contadini, se l’homino fusse un exactore.

Si segnò, più volte, gli riescìa sempre male…

anco ora, che lo faccio di rado, non mi vien bene et non so qual sia lo justo, portar la mano a l’omero dextro et poi all’altro, così faciono li basiliani, o a lo contrario, a mo’ de li latini

… aparì de la fenestrella un varco bastevole at introdurvisi. Chiuse l’anta et vi si poggiò con le terga per far loco a mente. Uno ronfiare continuo, con tonalità diverse...

ogne tanto una tromba di culo

...tutti dormiano sodo. Con timore passò in rassegna li pagliericci pieni: l’homino non c’era. Sbadatamente toccò un piede che foruscìa da’l lettuccio. Lo tizio si girò, aparì anco un oculo et con questo lo guardò. A Liuti si mozzò ’l respiro in gula. Lo tizio rigirossi, rimise lo capo sutta la coverta et ricominciò a ronfiare.
Rifactosi da la paura, ’l ragazzo capì che l’homo fusse uno de’ persecutori de li suoi monaci: chioma folta et rubra, barbaccia servaggia, viso oblongo, l’anello pagano a’l lobo: un langobardo! Rifece lo giro de li pagliericci, quattro dormienti simigliavano a lo tizio, duo no, anco s’essi aveano la istessa brutta faccia: parve di ricognoscere li sgherri de l’homino ricco visti ne’l lupanare. Le cappe di quelli homacci erano a li lati de’l loro lettuccio: avrarebbero potuto fare comodo; a la pediera stivagli di cuoio con gambali, anco questi di cuoio et con fregi che, al lieve bagliore, luceavano como l’oro. Prese quattro de le une et de gli altri, in tre cappe arrotolò tre paia di stivagli, in uno l’ultimo paio et li gambali, a uno a uno le buttò fori de la finestrella, poi sortì. Lo bottino era gravoso, in qual maniera l’avarebbe portato a la grutta? Ne lo mentre che meditava su’l da fare, uno cigolio da supra lo scosse. Non riuscì at ascondersi. Da la terrazza, un homino col ventre prominente si poggiò con una mano a la balaustra, con l’altra alzò da basso la camiciola notturna et pisciò ne lo cortile, proprio drentro lo pozzo. Liuti da la voglia su’l viso riconobbe lo suo riccone. Durante lo facto, l’homino guardò in giuso, certamente vide le cappe per terra, che forse, ammucchiati com’erano, gli parvero stracci, et lo ragazzo con le mani supra…

probabilmente pensò fussi un servo che raccattava ciarpame da’l cortile

L’homino si scrollò ’l bigolo, sputacchiò ne’l pozzo, ritornò su li suoi passi et Liuti risentì lo cigolio de la porta: era rientrato. A la stanza superiore, dove dormiaci lo riccone, dovea esserci anco lo capo de li langobardi, quei che conserbava la bulla apostolica. Ci meditò supra… Troppi rischi, pensò, dovea andar via et alle più leste. Ma a trasportare ’l maltolto, come, in su le spalle? Certe che no, v’era altro modo? supra at un cavaglio, di cui sentìa vicino gli sbruffi. Si risegnò, mai avea osato tanto, non potea andarsene a mani vote. Alzò la barra che serrava lo stallatico, spinse con prudenzia ’l portale, uno stridio sinistro lo fece tremare. Calmati li battiti entrò, dietro la soglia, su paglia gettata a casaccio dormìa lo guardiano…

putezzava d’idromele da schiantar un basilisco…

… ciucco o non ciucco, avaresse aperta ancora d’un pollice la porta l’avarebbe ridestato. Non c’eran torce né lucerne, ’l fievole chiarore venia da’l cortile et da un’apertura de lo soppalco. Scavalcò lo guardiano et ristette per adattarsi a la pauca luce. Tra gli sbuffi de’ cavagli et lo belare, gli arrivò flebile la echo di un vocio, provenia da l’alto, v’era qualcun altro supra. Stava per andar via… poi ristette, tenea un sospetto…

Sì, tenea un sospetto. Salij i gradini de’l solaio et trovai, legati assieme a mo’ di capponi, li monachi, li frates... in summa, li prigioneri de li langobardi. Quando mi videro et videro che prendea lo coltello di Cesiro[5] da la giubba, pensaron male. Fici at essi segno di far silenzio et non temere. Tagliai le corde, li aiutaj ad alzarsi. Raccommandaj di non facere romore et scendemmo.
     
Si recordò che presto sarebbero sonato Mattutino, a quella voce qualche uno si sarebbe levato, li servi per le bisogna de l’hospitium, lo istesso guardiano de le bestie, smaltita o no la bibonia d’idromele, l’armigero de la camerata che potea ricordare d’averlo intravisto. Leste, mise le briglie et coperì di gualdrappa la bestia che più gli parve tranquilla, ma farla uscire da la scuderia sanza destare lo custode non era possibile. Come facere? Lasciare stare lo cavaglio, constringere coi legacci de li prigionieri li manti ripieni et addossarli in groppa at isso et a li frati o monachi et far di corsa la via fino a la grutta potea essere una soluzione. Pur troppo, uno de li fratimonacelli era ben malconcio, dovea esser trasportato isso che trasportare pesi

et era ’l meno: lo monafraticello zoppo avarebbe pregiudicato la fuga de li compagni. Ragionai, ma solum per un fiato, lo si dovesse abbandonare a lo martirio per la salvazione de li altri.

In summa, lo cavaglio era proprio necessario. Cercò un’ulteriore uscita da la scuderia. Dopo li stabbi de’ cavagli c’erano, stallati in un recinto, li porcelli, le pecore et li crapetti, et, in fundo trovò un altro portone, ben più ampio de’l primo. Appese a la sua anta un bel pauco d’armi, l’arsenale de li langobardi: gladi, lanze, balestre minuscole, dardi piccioli tanto da entrare in un palmo di mano, mazzette chiodate. Da lì poteano sortire col cavaglio, ma at aparirla le armi avarebbero cozzato, lo romore inusitato di ferraglia destato lo guardiano. Con extrema cautela, le tolse una at una, ponendole per terra, tolse poi la barra a’l portone et l’aparì: dava a la campagna. Gli sovvenne un’idea…

qual fusse, se vi fusse, lo sancto che vegliava su di me, dovea ancor proteggermi.

Retornò indietro, fece cenno a li frati di seguirlo, prese le briglie del cavaglio et li condusse fora, disse loro di aspettarlo in istrada. Con assai maggior avvertezza liberò li ovini et li porci, poi, uno a la volta, i cavagli, su li quali caricò le armi de li langobardi et lasciò fujissero. Richiuse lo portone et sortì da quello d’avanti…

rientrando ne’l cortile salutai lo guardiano, eragli grato como a bon amico che sappia quando facersi li cazzitelli propri

bruffone!

In summa, raccolse li manti, pesanti como lingotti di piombo, et li portò uno dopo l’altro fori de l’hospitium. Trovò li monachi nascosti dietro un canto di mura, timorosi. Li calmò, et volìa isso esser calmato, pose el bottino in groppa a’l cavaglio… ma un altro pensiero li venne repentino: isso et li monachi, o frates che fussero, non aveano ’l becco di un soldino, et at ogne bordo di territorio, su li ponti, a li imbarcaderi v’eran baglivi che esigeano lo balzello de lo transito. Dovea prendere lo borzello a l’homino ricco, non potea andare via sanza, altrimenti…

altrimenti: sortite di fra i hoglioni, va pijala ’nculu, raus schnell!

… altrimenti, non sarìano mai usciti da lo principato di Capua! Retornò ne’l cortile, salì la rampa fino a la balaustra, si ricordò l’anta cigolante, decise di entrare da’l tetto, su cui vedea un abbaino. Da supra la balaustra si grappò a le falde de la copertura, zompò su la tettoia, co’l coltello scardinò l’apertura del lucernaio, ne la stanza duo li letti, uno di fronte l’altro, et un tavolo con a lo centro un cesto di fructa. Si calò su’l tavolo, smosse un pomo che cadde. A’l romore l’homino emise un grugnito, l’altro, lo langobardo, mastichiò voto. Liuti aspettò riprendessero a ronfare. La bisaccia del primo era supra uno scranno accanto a lo letto…

lo sgarbato vi tenea un braccio supra

... si appressò, riuscì at infilare da un piccolo pertuso duo dita et trasse un borzellino di cuoio…

era più pleno di una scrofa pregna di cinco verri et tintinnava periculosamente.

La sella de lo secundo penzolava da la testiera, drendro una sacca potea esserci la bulla apostolica.  Lo bruto si mosse, dovea aver sentito lo tinntinnio de li sordi, ’l ragazzo fu lesto a ficcarsi sutta lo tavolo, lo bruto s’alzò fino a la cintola, si sporse et vide lo pomo per terra, lo raccolse et ci diede un morso, poi un altro et un altro.

A la fine sputò lo torzolo, ructò come un verro, tanto che svegliò l’homino, che sacramentò peggio di un carrettiere. Lo langobardo non lo capì, da zotico qual era rise sguaiato, io sì, et volea proprio dirgli che riferisse a quella porcona di sua matre.

Si rimisero sutta le coverte et ripresero li sonni. Liuti, raccolto lo residuo coraggio, sortì da sutta lo tavolo…

m’ero pisciato a dosso!

 … s’accostò a’l langobardo, ficcò la mano ne la prima sacca de la sella, non v’era carta, la ficcò ne l’altra, ne trasse un rotolo di pergamena, sperò fusse la bulla et la mise ne le braghe. Rifece lo cammino di corsa, da lo scranno passò su lo tavolo, da quivi si grappò a’l lucernaio, sortì, lo chiuse, saltò su la balaustra, fice romore, andasse tutto in malora o l’aiutasse la sorte, dovea facere in fretta! Da la balaustra spiccò direttamente su’l cortile. Spinse li frati in malo modo, fice montare in groppa ’l malconcio, tirò lo cavaglio da le briglie. Appena fori le campane di una ecclesia vicina sonarono a distesa Mattutino. V’era gente in istrada. Meglio, si disse, si sarìano confusi con essa, se qualche uno si fusse svegliato ne l’hospitio et guardato fori, prima di scoprire li furti, li avarebbe scambiati per braccianti o mandriani a la jurnata.
Si portarono lesti a la grutta, lasciò lo cagnolo a guardia de’l puledro, entrò coi frati et i mantelli, drendro eran tutti desti. Li mise a tacere, faceano ressa festosa su li compagni, troppa …

diedi manate a chi mi venìa a tiro, mi trattenni solo a l’ultimo momento da lo dare un pugno a lo pater magister.

Vestì de li manti rubati a li trucidi li più anziani, restò sanza illo et lo gievene monaco, vabbé frate, suo amico. Quando disse che la roba l’avea presa in prestito, li monaci (sic!)… lo monaco e lo frate che avea liberato lo guardarono et sorrisero, allora confidò che l’avea rubata et a chi. Li altri restarono allibiti. «Como hai facto?»  chiese lo giovine suo amico. Tempo non era di lo dare spiegazioni, «Via – disse – leste, tutti fora!». Fice salire lo vecchio eugumeno su’l puledro et lo monaco, o frate, che non riuscìa a camminare, gli altri intorno a piedi, lo monacello... lo fratemonacello sanza cappa di retro, isso prese le briglie.
Lo crepuscolo de l’aurora indorava oriente, ’l pater disse che per uscire da’l principato normanno doveano dirigersi da la parte opposta, su la via de lo mare, a’l limen con lo ducato di Neapoli, protetto da Bisanzio et lo pater magister era bizantino, non dovea essere lontano più di quindici milia, lì sarebbero stati fori periculo. Incontrarono gentes che recavasi a’l lavoro, una patulla di ronda dette oculo a quella strana carovana, ma non li fermò. Liuti era preoccupato da li langobardi, avessero trovato cavalcature, anco gnudi, sanza armi né stivagli, li avarebbero presto raggiunti et sopraffacti. Lo pater lo rassicurò riguardo a quei bruti…

Sanza lo travestimento con difficultate sarebbero riusciti a sortire persino da l’hospitio, sanza lo salvacondotto papale li normanni, che da pauco aveano cacciati li langobardi da Beneventum, li avarebbero subito riconosciuti quali inemici. Lo problema era lo publicano de lo principe, se si accorgea de lo ammanco de lo burzellino, più che de’ cavagli, avarebbe potuto allertare la milizia et farci cercare. Io non dovea rubare le cappe de li suoi sgherri, che eran pruova de lo reato. Ma tempo per pensare non l’avea, ultra tutto a’l buio et una spaura che a stento trattenni la cacarella.
«Che Iddio ce la mandi bona» chiuse lo frate. «Noi diamogli una mano a l’Onnipotente et sbrighiamoci leste a passar lo limite» resposi io. L’exactore, da la consapevolezza de’l furto a’l collegare lo ragazzo veduto da su la balaustra, ossia me, al misfacto, sarebbe corso un battito di ciglio, ancor meno a mettere cento militi, su cento veloci cavagli, a la mia ricerca ne la civita et a le frontiere. Urlai di andare lesti.

Ma como ire lesti? Li fratimonachi non mangiavano né bibevano da jorni, firmarsi a comperar vittovaglia in una taberna o da un agricola, che avrebbero potuto dirlo alli inseguitori, non era proprio lo caso. Lo frate (uffa!) giovine disse a lo pater che li avarebbero raggiunti anco con una jornata di vantaggio se essi andavano a lo passo et quelli a’l galoppo. «Una maniera ci sarìa per sveltire – continuò – trasportare a cavaglio ogne uno fino al limitare de’l principato». Ma di cavaglio ne aveano uno solo, a metter tutti in groppa si sarìa sfiancato et morto prima di facere un miglio. «Duo at ogni fiata» disse lo giovine…

«Tre la prima fiata – intervenni io – ché lo cavaglio è in forze: voi, pater, che sapete l’orientarvi, lo magister et lo zoppo, che ci rallentano, più armi et bagagli. Li posate lo più a presso a lo confine et returnate a prenderne un altro; ne lo mentre noi camineremo lo più possibile lesti».

Certe, de’l tempo ce ne vorrìa comounque et lo proseguire per la strada maestra un’alea. Non si vedeano altre vie et incominciammo lo trasbordo. Lo timore crescea di momento in momento, ci volle una intiera jurnata et anco Liuti, che fu’ l’ultimo, venne portato da’l pater at meno di un milio da lo limite de’l principato.
Raccolta la roba per terra, si avviarono insieme a’l confine, ove era uno sparuto castro, un baglivo at un tavolino et duo militi a’ lati de la barra. A pauchi passi da essi, sentirno lo sbraitare, a meno di cinquanta pertiche[6], di cavaglieri.

«Leste! Leste!» urlai, pressando da dietro: era uno squadriglio che proprio di noi andava a caccia. Passarono tutti da’l confino, buttai su lo tavolo molto più dinaro di quanto avesse chiesto l’exactore, che ne mise subito in tasca un bel mucchio, lo pauco resto ne lo cassetto, chiuso con clavistello, et uscij anco io.

Lo baglivo così ben remunerato non fice caso a la richiesta de gli homini in arrivo, li quali strepitavano di fermarli, et ordinò a’ militi d’abbassare lo palo. Oramai a dieci passi da lo confine bizantino, un arcere schioccò da la barra un dardo che colpì Liuti at un braccio...

Ne lo muscolo appena supra lo gomito, me lo trapassò da parte a parte et restò infilzato.

Subito si mossero i militi neapolitani, che protessero ’l ragazzo et intimarono a l’arciere lo cessare le ostilità, se non volìa guai. Li due gruppi si fronteggiarono, ma più che guardarsi in cagnesco non ficero, ritornando ogneuno a’ propri posti.
La compagnia di monaci et frates soccorsero Liuti, lo posero su’l cavaglio et si fermarono a’l primo rivolo che incontrarno. Un di essi troncò la freccia, la cui punta ricurva era per fortuna uscita da’l muscolo, et l’extrasse. Liuti sbraitò pejo d’un matto...

“Quel Liuti che braitava semmai eri tu, sordastrello, io recordo sopportai lo tremendo dolore in silenzio et sanza movermi”. “Sì, como lo no, tanto che tre monacelli o fraticelli, o che cavolo fussero, dovettero tenerti firmo et chiuderti la bucca, ché li grida si sentìano da la civita”.

Lo monaco speziale deterse la ferita, prese da la sacca che portava in ispalla una bocettina verde, versò su’l taglio un liquore...

disse fusse olio de l’erbario di San Johannes Calibyte

... con un sottile ago di corno et filo di seta ne cucì li lembi, a la fine rotolò a lo braccio folie di borragine frisca, che un altro frate o monaco era ne’l frattempo andato in cerca, et strappando la tonaca, già di per sé sbrindellata, che portava sutta la cappa, ne fice fasce, con una avvolse stritto lo braccio, altre annodò a’l collo perché lo trattenesse a’l petto.

Tornata la calma, li monachi et li frates, sanza distinzione, bibettero con voluttà da’l ruscelletto, niuno, nonostante l’arsuna, avea toccato acqua fino a che lo monacoiatra non mi hebbe curato la lesione et ostruito lo foro. Aveano ora necessità di mangiare. «Anderò io col cavaglio el cagnolo dissivoi repusate».

Lo fraticello suo amico non volea che andasse, Luiti l’assicurò di star bene. «Allora anderemo insieme» disse isso. Così ficero. Ne’l bosco raccolsero noci, uva spina et carrube, ne riempirono le bisacce. Fori de la boscaglia, in un casale di posta, scambiarno a la pari lo faticato roano, povera bestia, che dovea reposare, con un mulo...

Ne valea almeno duo, non io né lo fraticello eravamo boni mercatari, et mai lo divenimmo

... ma non bastava et comperarono con quasi tutti li zecchini de l’homino, un forte stallone bretone; col restante de’l burzellino riempirono le sacche di pane di segale, olive et sarde marinate. A’l ritorno, trovarono una grutta in cui entravano anche le cavalcature. Oramai sera, lo fraticello recitò la letania di Vespero, poi decisero, per non sperdersi ne la boscaglia, di sostare per la nocte. Liuti non lamentava, ma l’amico sapea sofferisse per la ferita. Sortì ne’l bosco, finché ci fu luce raccolse erbe, arbusti et folie, ritornato a la grutta li macerò con una petra, li ridusse a poltiglia con succo de l’uva spina, gli tolse ’l medicamento, ne umettò l’ulcera et li rimise le fascie. Lo ragazzo ne hebbe subito giovamento.
«Sie anco spiziale ultra che forzuto» disse Liuti. «Sto  imparando da lo meo maestro: Kelilan». «Ancora non so lo tuo di nome». «Adelmo – quei respose – et lo tuo?» Lo ragazzo ci pensò su, poi disse…

«Liutitche». «Eh? Liu… lo como?» «Eh eh eh eh, poi lo nomarmi Liuti».

Poi gli disse lo nome de li li altri: «Kirillos, lo egumeno, Guido lo pater, lo monaco infirmarius, lo quale ti ha curato, Kelilan, nato in Terra Sancta; li duo che eran prigionieri de’ langobardi, Piotr lo maggiore, ma lo appelliamo Pietro, Remigio quello giovine et ferito». Chiacchierarono da bon amici, longo tempo, quasi si frequentarìano da sempre.

In veritate, io non avea avuto mai alcun amico, anco li compagnucci di infanzia di Muran non mi erano proprio amici, non rimembro d’essi nemmeno le facce. Con Adelmo a l’inizio non sapea cosa lo dire, se trattarlo a la pari, se aver rispetto de la sua tonsura. Ci pensò isso a mettermi a meo agio, con pacche, risate, sorrisi, fu divertente, facendo ’l muso di lepore, muggendo uguale at una vaccarilla, co’ rai del sole et le mani projettò su la parete de la caverna animali et piante, homini aggobbati talmente buffi che risi fino a le lagrime: ne avea visti di saltimbanchi et scimmiari ne le fiere far codeste magherie, mai niuno tal como illo; fu serio, carezzandomi quando li raccontai di mie sventure, di mami, di papi...[7]  Forse l’unico che posso assimilare at Adelmo è mio pater Helgardo, co’l quale juocava, scherzava, in qualche modo mi confidava, mami dicea che papi non fusse mai cresciuto, per lo codesto ce la intendevamo bene. Adelmo me lo ricordò dopo tanti anni, piansi, a guisa d’un fanciullo.

Lo fraticello a un tratto si fice serio et gli raccontò di sua vita. «Meo pater...»

stramaleditto bastardo et carogna, filio di un caprone puzzolente et de la più laida baldracca de la Gallia Cisalpina

“Non disse così!” “No, ma lo pensò et anche peggio, et tu lo sai bene, evito di lo dicere per filo et per signo per non facerti incazzare” “Ah, che delicato. Si non voi facermi nervosare, stai zitto!”
  
... «Meo pater, Ficardo, secundo genito de lo signorotto di Formighera, che stava a li comandi de lo viscovo di Cremona...»

schifoso nicolaita asservito a lo ighnobile kaiser pruxiano, et germano de lo episcopo mediolanense, porco immondo, anch’isso... boccaccia mea ammuta!

... «mea mater, Julia, filia era di un boscarolo. Fin da fanciulletti si volìano bene. Meo pater tenea a gli studi ne l’episcopato, quando returnava a casa si vedeano di nascosto».
Raggiunta l’etate, si volìano sposare. Quando isso lo disse a suo pater, costui montò su tutte le furie. «Non lo puote! – gli urlò – Lo feudo appartiene a lo tuo frate Jacopo» isso era distinato a farsi previte. Costrinse lo malnato a chiudere la giovenetta in convento, lo giovine fue trasferito per sempre a Cremona et affidato a le cure di un vecio monsignore.
«Di intelligenzia non comune meo pater – proseguì Adelmo – et scaltro, divenne presto baccielliere et presto diacono, in meno di duo mesi gli fu data licenzia per l’ordinamento: ancor pria del vigesimo anno fu ordinato previte».
Ficardo entrò ne le grazie de lo piscovo, che lo nominò ceroferario, rettore de lo studium, poi suo terzio vicario.
«Curò li interessi de lo suo segnore in tal maniera che niun altro. Si occupò di tributi et decime, de li bifolchi et de li vassalli de l’intiero feudo, compreso suo pater, a lo cui tolse le terre et ridusse, per vendetta, a simplice exactore...»
Con isso a capo di tutto l’episcopato, lo piscovò poté scatenarsi sanza altra preoccupazione a li piaceri et a la luxuria.
Successe allora che l’episcopo di Crema si ribellò a l’episcopo di Cremona et questi gli mosse contro li suoi scherani, lo vinse et segregò in un turriazzo...

Poi ci ripensò et, per maggior tranquillità, lo fice avvelenare.

“codesto no lo disse!” “Et tu credi una carogna como l’episcopo di Cremona lasciarìa in vita un suo inimico?” “Era clauso a septe mandati!” “Tu lo pure da regazzino fosti ligato at un palo a mo’ di salame et fujisti, recordi?” “Fummo aiutati da la servetta[8]”. "Di serve et servetti lo piscopo di Crema dovea averne a iosa”. “Sì, ma tu nol sai l’avarebbero liberato”. “È quantomai probabile, lo sapea bene lo maleditto piscopo di Cremona” “Basta così, individuo insopportabile!”

A lo posto di costui elesse suo piscopo suffreganeo lo pater di Adelmo, non uno gli era fidabile più di esso. A li primi tempi de lo importante incarico, parea che lo novello episcopo si fusse scordato di Julia, la fanciulla costricta novizia in monasterio, ma così non era.
«Qualche mese dopo la sua nomina la richiese alla badessa, che non fice quistione,  la introduxe ne lo episcopato et visse con ella more uxorio».
De lo resto, continuò Adelmo, anco lo episcopo di Cremona era nicolaita, ne la sua corte mantenea numerose concubine.

Et io cosa avea detto?

L’ambiente mondano de l’episcopato pian piano trasformò la bona indole de lo giovine Ficardo in pessima.
«Divenne crapulone et gaudente, principiò a trattare da serva qualsiasi la novizia, la usava per lo suo piacere carnale, sanza più lo puro sentimento che ella ancor provava per illo»
Cosa poteva facere, povera monachella, offesa ne l’onore, ne la dignitate, ne’l pudore, pur piena di vergogna non potea opporsi. Quando nacque Adelmo, per tacitare lo scandalo, lo piscopo le cavò di dosso la tonaca et la rivestì da cortigiana, per confonderla con le altre.
«Ma mea mater era tanto diversa, non frequentava la corte, s’occupava solo di me»
La notizia di un filio arrivò a le orecchie de lo viscovo di Cremone, che gli impose di tacitare le voci, la maniera non gli importava.
«Dopo pauco fui tolto a mea mater et fu ella mandata in un monasterio luntano. Avea io meno di uno anno».
Adelmo crebbe tra gli stravizi, sanza sapere chi fussero li suoi genitori.
«Nulla erami vieto, non le cortigiane, né la caccia co’l falcone, lo borzello avea sempre pleno di zecchini»
 Cominciò a frequentare cattivi ceffi, giovinastri violenti, in breve fu a capo di una squadraccia che atterriva contadini et villani.
«Diventai spadaccino et ulano, era davvero bravo con la lanza, non mi perdea una giostra, per quanto luntana fusse, un carosello, una quintana, un torneo cavaglieresco et ne vicea tanti. Ma non bastavami, cavagliere errante volea diventare, catapano di un esercito di ventura, girare per lo mondo fino a li extremi confini a guerreggiare contro li turchi, li normanni, li franchi. Ma non questo volea lo viscovo, sapea lo meo talento di comando et volea guerreggiassi, ma per isso solo, per ingrandire lo feudo con altre terre, sopraffare l’episcopo di Cremona, rivaleggiare in potenzia con l’episcopo di Mediolanum et de li altri grandi feudatari, ire a patti con l’imperatore et lo romano imperio di Bisanzio. Ma pria di tutto, volea che fossi prete!»
Fu presto constituito diacono et affidato at un vecio monaco benedettino.
«Et fu lo suo errore. Costui , pater Anastasio, era un homo bravo et probo, ne’ suoi insegnamenti, altro che guerra, raccomandavami pietate, solidarietate, humanitate, che l’homo consacrato non dee darsi a’ piaceri de lo mondo, ma dare a’l prossimo tutto se stesso in humiltate. Lo piscopo non maginava certe che potarìa lo monaco mettere in crisi le mie passioni, che stornasse da me lo desio di immonda luxuria, de li piaceri mondani. Smisi subbito lo andare a caccia, poi lo frequentare brutte compagnie, le cortigiane, più duro rinunciare a li tornei cavagliereschi, ma anco di questo fici a meno».
Lo sancto monaco fu felice de’l cambiamento ne lo giovine, ma lo tenne segreto, raccomandando at illo de lo schermare a lo meglio li novelli propositi: se ne fusse accorto l’episcopo, lo avarebbe trattato in maniera maligna como trattò sua mater...
«“Mea mater? Sapite chi la sie?” chiesi “Lo sì” et me ne narrò, sanza nulla nascondermi»
Avea sentito parlare, di sottecchi tra le serve et le cortigiane, di una monachella ne la sua infanzia, non ne comprese ’l senso. Lo racconto de lo retto pater lasciollo exterrefacto. N’hebbe conferma da una vecchia serva che ben recordava la novizia, quanto bona fusse, honesta et bella. Le avea confidato lo suo amore fin da puella per un bravo giovine et fusse stata costricta a monacarsi, como l’amante l’avea ritrovata per poi maltrattarla et renderla rejetta.
«L’amante di cui la serva tacea lo nome et che lo potere avea di tanto scempio sanza patire conseguenzie era non un simplice guastallode lo episcopato, ma lo istesso episcopo!»
La serva gli disse in quale monasterio fusse stata mandata, Adelmo vi si recò speranzoso, ne apprese lo decesso.
«Morte s’era data in disperazione, troppa la sufferenzia di non poter vedere suo filio».
Retornò a Crema, deciso at accidere lo piscovo, consapevole fusse patricidio. Con nascosto un pugnale ne la manica, andò prima a confessarsi...
«Lo meo bon consiliere dovea sapere cosa stava per facere. Esso mi disse che se credea fusse justizia l’assassinio, allora lo accidessi, ma sarìa diventato uguale at isso: un criminale! Mi riferì le parole di santo Oddone, abate di Cluny, riformatore de lo suo ordine: “Li ministri de la Ecclesia si saziano di carne; ebbri son d’orgoglio, inariditi da l’avarizia, ammolliti da la voluttà, tormentati da la malvagità, ardenti di collera, lacerati da la discordia, stravolti dall’invidia, accisi da la lussuria. Tu puoti combatterli et vincerli, con l’esempio, non con la spada. A Mediolanum bravi frates lo stanno facendo, nominati patari, lottano per una ecclesia pura, sancta et povera, veri desiderata di Christo, contro lordura simoniaca et nicolaita, de la cui face parte l’episcopo tuo pater; va da essi et averai la tua vendetta!” Cosi feci».

Dopo codesto drammatico racconto, Adelmo volle che liuti sapisse anco lo vero motivo, lo perché fussero incalzati da li langobardi...
«Lo pater magister reca seco da lo monte Athos, da dove dovette fujre a l’ira iconoclasta, lo pregiato evangelario, di petre preziose ornato et d’oro, de’l suo sancto Johannes Calybita, lo quale, nato in dovizie, fecesi straccicone per la gran fede in Christo et morì dementicato, li istessi genitori riconobbero isso grazie a codesto libro che portava semper seco. Raggiunto Mediolanum, confidò di avere lo sacro objetto at un monaco, de la sua istessa regula basiliana, et d’aver missione lo recare da li suoi fratelli anacoreti…»
anco essi perseguitati et fujiti a li potenti perversi metropoliti ortodossi, in guerra aperta contro lo Papa, la Catholica Ecclesia et li suoi seguaci in terra costantinopolitea
«… che ne lo tolerante Bruzio aveano trovato hospitio, et grutte eremitavano in un loco da lor nomato, in honore di sancto Johannes, Calybiti. Lo monaco, per procuragli protezione, disse lo facto a l’episcopo di Mediolanum, perverso ancor più di quelli di Cremona et di Crema, et lo mise in extremo periculo: costui gli ordinò di far accidere lo pater magister et prendergli lo libro, reliquia sancta, et da simbolo de la pauperitate de lo sancto Johannes, lo quale renunciò a le ricchezze, testomonanza volea renderlo che la dovizia de la Ecclesia sia cosa sanctificata da quel evangelario. Lo monaco, però, svelò a’l basiliano l’infamia et lo condusse da noi patari, che guerra sostenevamo contra li simoniaci et luxuriosi nicolaiti, contra l’episcopo. Fummo però sconfitti, multi trucidati. Lo resto, s’el vole, tel dirà isso egumeno istesso»
Così terminò Adelmo, si stese a canto a Liuti, lo benedisse: «È tempo di addormirsi, filio». Lo chiamò filio, et avea solo pauchi anni in più di esso.



Bibliografia

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Classici U.T.E.T., Volgarizzamenti del 200 e 300, 1980
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Ibidem, Rimatori del 200 e 300
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Guglielmo Cavallo e Giovanni Orlandi, Rodolfo il Glabro, Cronache dell'anno Mille: Storie, Mondadori 1989
P.Rossi, Richer di Saint Remi, I quattro libri delle storie (888-998)



[1] Mediterraneo
[2] Cane-lupo che trovò cucciolo (prima historia) subito dopo la sua fuga da Venezia e fu suo primo, e unico per molti anni, compagno di   viaggio
[3] Circa le dieci
[4] Vicenda della Secunda historia
[5] Personaggio del secondo racconto
[6] 100 metri
[7] Narrate nel primo racconto
[8] Vicenda narrata nel primo racconto

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