Vito Teti e il Sud dei contrasti
Non
c’è verso: bisogna trovarsi al Sud per scrivere sul Sud. Non perché bisogna cercare
chissà quale ispirazione, ma perché solo entrando fisicamente dentro le sue
contraddizioni è possibile cogliere del Sud la natura bicefala e contorta, senza
farsi trascinare dalle immagini da cartolina che troppo spesso condizionano l’atteggiamento
di colui che da lontano vorrebbe aprire un discorso sulle ‘sue’ terre.
Le
contraddizioni del Sud sono quelle che è possibile sperimentare quotidianamente
nei luoghi bellissimi deturpati dalla spazzatura, oppure nella grande capacità
di donare e di ospitare manifestata da gente che, nel medesimo tempo, alimenta
coi suoi comportamenti pratiche ai limiti della legalità. Ma ci sono dietro
contraddizioni strutturali, che vengono da lontano. Ne parla con passione
lacerata e lacerante Vito Teti nel suo libretto Maledetto Sud, pubblicato nel 2013 da Einaudi. Un libro completo e
sofferto, che tutti i meridionali devono leggere per avere una immagine corretta
di se stessi. Un po’ come guardarsi allo specchio osservando, nelle proprie fattezze,
quei particolari che rischiamo di farci sentire un po’ più brutti di quello che
pensiamo ma che restituiscono noi a noi stessi.
L’antropologo
calabrese – certamente il maggior intellettuale che la nostra regione possa
vantare ai giorni d’oggi – ci restituisce con tono lieve e con accenti
personali gli opposti di cui il Sud è costituito. «Il Sud Italia, in realtà, è
un ossimoro, un luogo dai contrasti geografici, climatici, storici, sociali, produttivi»,
scrive Teti, il quale però ripercorre sinteticamente ed efficacemente le vie attraverso
le quali gli “opposti” di cui il Sud è costituito gli sono stati spesso consegnati
dall’esterno. Il Sud ricostruito da Teti, infatti, è un Sud la cui identità si
è venuta costruendo attraverso le immagini che di esso sono state date da chi
ha guardato al Sud cogliendone, con occhio non sempre benevolo, i caratteri
mediante visioni in gran parte distorte. Così, i meridionali sono stati dipinti
come lenti e oziosi, sporchi e maledetti, melanconici e pittoreschi, briganti e
mafiosi. La ricostruzione storica e antropologica di Teti non è tesa però a negare
semplicisticamente gli addebbiti, rimandandoli con tono offeso al mittente
(«dobbiano raccontarci e assumerci noi le verità scomode, anziché negarle o
farcele rinfacciare con cattiveria dagli altri»); e non è nemmeno una ricostruzione
che cerca di rovesciare in positivo la carica negativa delle immagini sopra ricordate
(cosa che però opportunamente avviene in certi casi, come ad esempio per la lentezza).
È invece una ricostruzione in cui la ricerca delle cause storiche o economiche
dei fenomeni sfocia nella consapevolezza che l’attribuzione di certi vizi ai
popoli del Sud sia frutto di una operazione ideologica, mediante la quale caratteri
che venivano attribuiti un tempo a tutti gli italiani sono stati consapevolmente
rimodellati sulla pelle dei meridionali attraverso una vera e propria opera di
“razzizzazione” (un tema caro e antico per Teti, autore di un lavoro importantissimo
su La razza maledetta). I meridionali,
per questa via, sono diventati l’Altro, il negativo, ciò di cui la nuova Italia
voleva e doveva liberarsi per costruire la sua identità di moderna nazione europea.
Ad
ogni modo, Teti ci consegna un Sud non idealizzato e nemmeno altezzosamente
atteggiato nei confronti delle critiche che gli vengono rivolte: è un Sud che
non ambisce a vivere in un suo mondo separato ma che è collocato saldamente in
Italia e in Europa; un Sud pieno di difetti e di mancanze, ma i cui difetti e
le cui mancanze sono segnalati non al fine di inseguire una identità estranea
alla sua storia e alla sua natura, ma proprio per ritrovare intatte questa
storia e questa natura.
Questo
è possibile, tuttavia -- questo sarà
possibile –, se saremo capaci di non tapparci gli occhi davanti a ciò che
devasta il Sud invece di salvarlo; se saremo capaci di vedere, senza reiterarli,
quelli che Teti chiama «gli
scempi, l’incuria e le inadempienze degli uomini d’oggi». Se la condanna del
meridionale è di rimanere sospeso tra il partire e il restare – tema, questo, diventato
dominante nei lavori pubblicati da Teti negli ultimi anni (si veda ad esempio il
recentissimo Terra inquieta. Per una
antropologia dell’erranza meridionale, Rubbettino, 2015) – bisogna assumere
questa condizione nella consapevolezza che, qualunque sia la nostra situazione, bisognerà confrontarsi criticamente (e conflittualmente) con le realtà che impediscono
al Sud di realizzarsi e di valorizzare le ricchezze di cui è pieno, ricchezze naturalistiche,
storiche, umane.
«Non
possiamo tollerare, dice Teti, pregiudizi e stereotipi, ma non possiamo
sopportare gli imbrogli, le menzogne, gli inganni perpetrati in nome di un “noi”
nel quale non vogliamo riconoscerci». Bisogna smetterla, in altre parole, di
pensare ad un “noi” meridionale nel quale tutti ci fondiamo e confondiamo,
sentendoci parte di una storia e di un destino comuni. C’è un Sud che non ci
piace e che dobbiamo essere capaci di contrastare con la forza che ci viene dai
sentimenti e dalla piena consapevolezza di tutto ciò che costituisce il Sud che
ci piace. La cultura del conflitto apparteneva già ai Greci, ci ricorda Teti, e
dobbiamo saperla mettere a profitto: «dobbiamo partire da noi, dalla nostra storia,
capire, comprenderci e darci degli imperativi».
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