La Calabria ‘sospesa’ di Profazio e Voltarelli

Tommaso Greco



“Cronaca di un incontro annunciato”: così potremmo definire il libro-cd che Peppe Voltarelli dedica al Maestro Otello Profazio, appena pubblicato dall’editore Squilibri (un editore la cui infaticabile opera di riscoperta e rilancio della musica tradizionale non potrà mai essere elogiata abbastanza e la cui serietà è visibile nella qualità di questo disco, impreziosito da opere di Anna e Rosaria Corcione, le quali compongono immagini dei due cantastorie calabresi adoperando una tecnica che è un omaggio a Mimmo Rotella).
Le ragioni artistiche dell’incontro tra Profazio e Voltarelli sono spiegate benissimo nel saggio di Domenico Ferraro contenuto nelle pagine che accompagnano il disco: «ineguagliata capacità di reggere la scena da soli» (posso testimoniare direttamente che Otello Profazio ripete sempre che “Peppe è l’unico che, come lui, sa stare sul palco da solo con la chitarra”); la medesima capacità affabulatoria; l’essere entrambi «votati a raccontare di sé e della realtà che li circonda soprattutto in musica», ma senza dimenticare che «entrambi sono anche uomini di penna»; il muoversi «lungo coordinate più estese in cui il richiamo al campanile del paese veicola stati d’animo universali in una prospettiva “glocale”, nella quale si innesta, come un chiodo conficcato nelle carni la decisa opzione a favore del dialetto quale forma privilegiata per esprimere sentimenti impossibili a dirsi nella lingua ufficiale». Nella musica di entrambi — infine, e a sintesi di tutto — «la Calabria diventa metafora di una condizione esistenziale in cui possono ritrovarsi anche realtà molto lontane, con incroci impensabili e imprevedibili».

Tutte le ragioni citate da Ferraro sono vere, e ci tornerò anch’io più avanti. Ma l’incontro tra Voltarelli e Profazio viene da più lontano, da qualcosa che precede ogni elaborazione culturale.
Immaginate un mercato domenicale, dentro un paesino dell’Italia del sud. Sotto il sole cocente di quella che un tempo era l’eterna estate meridionale, tra bancarelle che vendono un po’ di ogni cosa, ce n’è una che ha un pezzo di tavola enorme imbandito di musicassette, e tra le centinaia di musicassette ce ne sono molte, moltissime, di personaggi della più varia natura e con nomi improbabili: Micu ‘u pulici e Romeo Olivieri sono tra i più gettonati. Gente che cantava con la chitarra ma soprattutto con la fisarmonica, e che faceva, così pareva a noi, sempre lo stesso ritmo, sempre la stessa canzone. A volte, noi ragazzi ci vergognavamo di avvicinarci a quella musica, non per la musica in sé, ma perché spesso erano canzoni con il doppio senso: l’ammiccamento piccante, il riferimento sessuale erano sempre dietro l’angolo.
Tra quelle cassette e tra quei personaggi primeggiava il grande Otello Profazio, mito dei nostri padri; l’unico che veniva citato con una forma di rispetto a prescindere — un rispetto quasi timoroso —, forse perché era l’unico che era riuscito a portare la musica popolare oltre i confini consueti: era stato alla radio e alla televisione, aveva fatto persino un programma insieme a Giorgio Gaber. (Quando, qualche tempo fa, ho detto a mio padre che l’avevo conosciuto e che mi ero fatto una foto con lui, qui a Pisa, quasi non ci poteva credere; dev’essere stato felice come quando mi sono laureato).
Peppe ha raccontato l’incontro con questa musica nel suo libro Il caciocavallo di bronzo. Nel capitolo intitolato “Il blues dentro il mercato” è contenuto un passaggio significativo, che dice molto (o tutto) del suo percorso artistico e che soprattutto ci dice come e perché l’incontro con Profazio era scritto nel suo destino:
«studiavo ma ancora non ero consapevole
ci sarebbero voluti altri vent’anni di rock di punk di new wave prima di capire nettamente che
quello del mercato era il mio suono la mia gente
era ciò che Woody Gutrie era stato per bob Dylan una guida una speranza un punto di riferimento da quel momento non mi sarei mai più vergognato di cantare il mio dialetto a tutte le latitudini la forza del suono della terra che attraversa le anime della gente e si fa poesia
una poesia allegra trattenuta arrabbiata arcaica mai domata» (p. 65).

Conosciamo tutti l’itinerario di Peppe. Siccome “un leader lo è per sempre” (è quasi una condanna), ricordiamo anche noi che è stato fondatore del Parto delle Nuvole Pesanti, con cui ha realizzato molti dischi, prima di mettersi in proprio e di realizzare alcuni lavori, a mio parere tutti straordinari. Ma non è questo che ora ci interessa. In questa sede dobbiamo sottolineare il fatto che lungo il suo itinerario Voltarelli non ha mai nascosto il debito che ha con i “padri” della sua musica: tempo fa, non a caso, ha portato in giro per il mondo le canzoni di Modugno. Questo disco dedicato a Profazio, quindi, non ci sorprende e anzi ci fa molto piacere perché rappresenta una testimonianza concreta e duratura dell’incontro tra due personalità straordinarie del panorama artistico calabrese, un trait-d’union tra generazioni diverse, tra due artisti che hanno saputo interpretare allo stesso modo quella che, per me, rappresenta una sorta di eterna “anima calabrese”: un’anima sospesa tra critica e disincanto, tra amarezza e rabbia, tra dolore e rinuncia.
Possiamo quindi riallacciarci a ciò che ha scritto Ferraro per dire che entrambi cantano i vizi e le virtù di una gente e di una terra, con la piena consapevolezza che, a differenza che per altri, per noi vizi e virtù non si ràdicano in luoghi separati del carattere, ma sono intrecciati inestricabilmente e sono sempre l’uno il rovescio dell’altro: una condizione tragica, che potrebbe portare a una spinta in avanti se ne assumessimo tutta la portata, e che invece noi volgiamo in farsa perché non abbiamo la forza, e forse nemmeno il desiderio, di aprirci alla speranza; quella speranza che nasce appunto dagli urti anche violenti tra due princìpi che si oppongono. Anche se, da un punto di vista morale, il male e il bene sono riconoscibilissimi persino per un calabrese, poi di fatto il ‘positivo’ e il ‘negativo’ per noi faticano a differenziarsi. Il senso della famiglia e della socialità che degenera in familismo; il gusto della libertà che degenera in individualismo anarchico; il senso di appartenenza che degenera in una difesa a priori di tutto ciò che sa di Calabria; il rigido senso del dovere che finisce malamente in sottomissione e rassegnazione. Di qui l’ironia di canzoni come “Qua si campa d’aria” (Profazio) o “Turismo in quantità” (Voltarelli): due testi che cito non a caso, per dire quanto, in tutto il Sud ma soprattutto in Calabria, la convinzione (spesso, l’illusione) di vivere nella terra “più bella del mondo” diventi alibi — per gli altri, e prima di tutti per noi stessi — per non fare ciò che bisognerebbe fare per vivere una vita appena un po’ dignitosa di quella che ci siamo trovati a vivere. Tribunali, ospedali… «tutta roba inutile!»; e infatti, mentre gli altri — quelli che stanno a Roma — decidono di toglierceli, noi, quelli che stiamo in Calabria, ce li facciamo togliere senza colpo ferire.

Questo disco nasce anche dall’amore per la tradizione, e nello stesso tempo dalla capacità di gettare verso di essa uno sguardo distante. Proprio questo sguardo distante garantisce che la tradizione non diventi immobilismo, celebrazione fine a se stessa, parodia ridicola di miti e di riti che, nella loro versione autentica, vivificano lo stare in comunità.
Questo modo di rapportarsi alla tradizione è segno di un atteggiamento più generale, che è tipico del calabrese (non so se del meridionale in genere): l’atteggiamento del distacco, che poi è anche un modo per non prendere — e non prendersi — troppo sul serio. È difficile che il calabrese “si intruppi”, che prenda parte a movimenti collettivi nei quali annullare la sua individualità. C’è una scena molto bella e significativa di un film di Gianni Amelio, Così ridevano — il film con cui il regista calabrese vinse a Venezia nel 1998 — nella quale il protagonista se ne sta appartato mentre lungo le vie di Torino sfilano i militanti con le bandiere rosse. Ecco: questa è la condizione del calabrese. Una condizione “appartata” — e che io definirei ancora meglio “sospesa” —, condizione che è la sua ricchezza e la sua rovina nello stesso tempo.

Mi pare che la musica di Voltarelli, così come quella di Profazio, dia conto di questo stare sospesi e se ne alimenti; che ne faccia in qualche modo la sua “cifra”. Siamo sospesi innanzi tutto tra il partire e il restare, come ci ha spiegato meglio di chiunque altro Vito Teti. E in questo nostro stare sospesi, che è una specie di tormento dal quale non ci libereremo mai, una delle cose migliori che possiamo fare è ascoltare le canzoni di Otello e di Peppe.


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