Il Diario di un viandante



di Tommaso Greco



Diario di un viandante è un regalo che Padre Vincenzo Cosenza ha voluto fare a tutti coloro che lo conoscono, ma mi auguro che esso possa essere letto anche da tanti altri, che potranno incontrarne l’Autore proprio attraverso queste pagine. Non ho dubbi che si tratterà di un incontro proficuo, per molte ragioni. Il Diario è innanzi tutto un libro mite, come il carattere di Padre Vincenzo. Chi ha la fortuna di conoscerlo, Padre Vincenzo, sarà d’accordo con me nell’utilizzare questo aggettivo per definirlo, e sarà d’accordo nell’utilizzare lo stesso aggettivo per descrivere il libro, quando avrà finito di leggerlo. Perché, se un sentimento emerge da queste pagine, è il sentimento della tenerezza, che Padre Vincenzo mostra di avere nei confronti delle persone con cui ha condiviso il cammino, nei confronti delle cose di cui ha dovuto occuparsi, nei confronti dei luoghi — molti — nei quali ha vissuto e dove ha esercitato la sua vocazione religiosa. Mitezza e tenerezza, forse dovrei dire anche dolcezza, non significano arrendevolezza; anzi, in questo caso, sono la cifra di una volontà e di una determinazione senza pari: chi avrà la pazienza di seguire tutta la storia che padre Vincenzo racconta vedrà che una volontà ferma ha guidato l’Autore in tutte le vicende nelle quali si è trovato a vivere. Ma, appunto, mentre siamo abituati a vedere che una tale volontà si esprime spesso con la prepotenza e l’arroganza, qui essa si accompagna a un atteggiamento che è l’esatto contrario di questi sentimenti, perché non assale l’altro ma gli lascia spazio e lo valorizza. Padre Vincenzo è un mite, e sa esserlo anche quando inesorabilmente, e senza che tu te ne accorga, ti batte in una partita di dama o di scacchi: le uniche occasioni in cui gli piace essere dalla parte dei vincenti.
Questo tratto mi permette di ricollegare il Diario a un libro di poesie pubblicato da Padre Vincenzo qualche anno fa, Memorie e luoghi del pensiero. In quei versi, come fa anche in queste pagine, egli faceva rivivere tutto un mondo attraverso il richiamo delle piccole cose: la pioggia, il grido del pastore, i rumori e i suoni della natura. È una sua caratteristica, di dare attenzione ai suoni, e non solo alle parole degli uomini. Ma in quei versi ho sempre apprezzato il grande spazio che veniva assegnato al silenzio. E non è una caso: Padre Vincenzo è uno che parla a voce bassa, come non può non fare  colui che non vuole sopraffare gli altri, ma si pone nella disposizione migliore per mettersi in ascolto. Anche quando dice messa Padre Vincenzo fa vincere il silenzio, il raccoglimento, l’ascolto. L’avete mai sentito urlare durante una predica, come invece fanno tanti sacerdoti, soprattutto nel nostro meridione? Questo lato del carattere e della personalità nasconde un atteggiamento positivo nei confronti della vita, nei confronti degli altri, nei confronti di tutto il Creato e anche del Creatore; un atteggiamento che sarebbe bello poter imitare. 

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Il libro che il lettore ha tra le mani racconta una storia di riscatto, oltre che di vocazione e di fede. Perché contiene, prima di ogni cosa, l’itinerario di un figlio del popolo che dalla semplicità e povertà della vita contadina conquista con caparbietà ciò che sente essere il suo destino: farsi prete, e quindi seguire l’itinerario che serve per raggiungere quell’obiettivo, a cominciare dallo studio intenso portato avanti in un luogo assai distante dal paese e dalla famiglia. Uno studio al quale il protagonista si accosta con voracità e convinzione, ben sapendo che è quello lo strumento del suo riscatto. 
Quel percorso di formazione lo porterà lontano: sarà interessante, per il lettore, seguire le tappe di questo cammino, che parte dalla vita dura della Calabria dell’immediato dopoguerra, e porta il nostro Autore a realizzare ricche esperienze spirituali ed esistenziali in molte parti del mondo. Se da bambino e poi ragazzo Padre Vincenzo si trova a vivere in un luogo ristretto, come può essere un piccolo paesino dell’entroterra, insieme alla sua famiglia, nelle condizioni degli umili che con dignità portano avanti la propria esistenza materiale, a partire dall’adolescenza egli si trova proiettato nel mondo, in luoghi diversissimi e lontani tra loro. Un itinerario ricchissimo di esperienze e di vita, senza che però questo porti il nostro Viandante a dimenticare la gioventù passata nel paese, nel quale aveva vissuto un’infanzia dura, ma felice, piena di momenti spesso faticosi, e soprattutto piena di presenze e affetti che avrebbero accompagnato l’intero itinerario successivo.
Il paese: Caloveto, nella provincia di Cosenza, sulle colline che guardano lo Jonio, ai piedi della Sila. Padre Vincenzo gli dedica pagine piene di una delicata tenerezza, nelle quali i ricordi delle persone e dei luoghi sono intensi e vivi, concreti e carnali, ma hanno allo stesso tempo la capacità di divenire luoghi e persone universali: in essi può riconoscersi chiunque abbia avuto la ventura di vivere una stagione della nostra storia che forse è perduta per sempre. Perché ormai lo sappiamo: questi nostri paesi, non solo al Sud, non solo in Calabria, sono luoghi sempre più abbandonati, sempre più esposti ad un destino che sembra ineluttabile; anche le persone che ci vivono sono proiettate in un mondo che non ha quasi più nulla del mondo di una volta. E quindi, le pagine iniziali del libro suonano come una specie di ricordo di un mondo che abbiamo perduto: un ricordo prezioso, non solo perché serve a tenere viva la memoria, ma soprattutto perché sapere “come eravamo” può aiutarci ad essere migliori oggi,  nel momento in cui diveniamo consapevoli di aver vissuto anche noi un passato fatto di povertà e durezza, di semplicità e autenticità, di fierezza e determinazione, di solidarietà e serietà. 

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Tra Ulisse e Abramo, possiamo dire — i due simboli della storia dell’Occidente, e forse ancor più della sua psicologia — si realizza il viaggio di Padre Vincenzo. Ulisse, da una parte, simbolo dell’uomo che brama il ritorno e che non trova pace se non nel pensiero della sua Itaca (e forse, come in tanti hanno immaginato, nemmeno dopo che vi ha fatto ritorno); Abramo, dall’altra parte, simbolo dell’uomo che si mette in cammino senza conoscere la meta e che si affida totalmente alla Voce che lo ha chiamato dicendogli di partire. Un movimento circolare, che ritorna continuamente su se stesso, nel primo caso; un movimento lineare, che va costantemente in avanti senza che sia possibile volgersi indietro, nell’altro caso. Come può essere possibile tenere insieme questi due modelli così diversi, anzi opposti? Oso dire che Padre Vincenzo ci è riuscito: egli è Ulisse, nel non dimenticare le sue origini e nel volgere il suo pensiero costantemente alla sua Itaca-Caloveto e agli affetti che lì ha praticato e conosciuto; ed è Abramo, nel seguire il cammino della sua vocazione, nel mettersi in viaggio verso i luoghi dove il Signore e la Chiesa lo hanno chiamato, verso mete sempre nuove e sconosciute — Morlupo, Roma, Napoli, Santarcangelo, Ferrara, l’Olanda, l’Argentina, Palermo —, ma che gli hanno sempre offerto la possibilità di mettere alla prova la sua fede, la sua tempra, la sua grande capacità di fare e creare comunità e di mettersene al servizio. Due modi diversi di stare nel mondo, abbiamo detto, che tuttavia Padre Vincenzo ha saputo conciliare grazie soprattutto alla speranza che egli sa praticare e diffondere: solo la speranza può far sì, infatti, che la lacerazione del distacco non sia una ferita troppo grave, e che non diventi un intoppo, ma si trasformi in una risorsa, in una spinta a percorrere il proprio cammino ancora più convintamente, a mettersi al servizio degli altri in maniera più intensa. Il ricordo di ciò che si è dovuto lasciare non è mai motivo di recriminazione, ma diviene ragione per una migliore comprensione degli altri, un ‘reagente’ che permette di cogliere i bisogni più profondi di chi ti attraversa il cammino. 
Una storia di emigrazione, dunque — quella del Padre Vincenzo-Ulisse — che diventa anche storia di salvezza, di cui è protagonista il Padre Vincenzo-Abramo. Le due storie si incrociano continuamente, come avviene quando il Viandante si reca in Sudamerica, compiendo itinerari nei quali la volontà di ritrovare i luoghi nei quali era stato emigrato suo padre si lega alla attivazione di progetti di aiuto per le popolazioni che vivono ancora in alcune delle zone più remote e più povere. Quasi a confermare, nuovamente, che cercare le proprie radici è anche un modo per riannodare i fili di un’esistenza che, anziché chiudersi all’altro, come troppo spesso avviene in chi strumentalmente parla di identità, ti costringe ad aprirti agli altri, nel momento in cui ti porta a riconoscerti nel suo volto. 
Mi sembra questo uno degli insegnamenti più fecondi delle pagine di questo Diario.

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Un’ultima sottolineatura mi sembra doverosa, prima di lasciare la parola all’Autore. Una buona parte del racconto di Padre Vincenzo è dedicata alla Chiesa e alle vicende di cui lui è stato protagonista. Perché l’Autore del libro, Teatino, è innanzi tutto un uomo di Chiesa, che alla chiesa ha dedicato tutta la sua vita. Dio sa quanto avremmo voluto che la sua vocazione missionaria si potesse esercitare anche a Caloveto, dove la spiritualità teatina avrebbe potuto portare tanti frutti! Forse la storia del nostro paese — dico ‘nostro’ perché è calovetese anche chi scrive le pagine di questa Prefazione – sarebbe stata diversa e non avrebbe conosciuto alcune vicende dolorose che invece ci è toccato di vivere. Ma non è questo che voglio sottolineare. Le pagine che l’Autore dedica alla Chiesa ci parlano non solo di vocazione e di fede, ma ci dicono anche di quanto sia sofferta e problematica la vita ecclesiastica, di quanto si debba essere vigili, e di quanto sia difficile, a volte, conciliare i sentimenti della fede e la vocazione missionaria con l’obbedienza che si deve all’istituzione di cui si fa parte. Ed è qui che si può vedere come la mitezza di cui ho parlato all’inizio non sia da confondere con la debolezza o addirittura con la codardia. L’obbedienza alla Chiesa non ha mai fatto venir meno, in Padre Vincenzo, la fermezza delle sue convinzioni e della sua volontà: ad ogni nuovo passo, ad ogni nuova destinazione, egli ha costruito caparbiamente le condizioni più adatte affinché una comunità cristiana potesse riconoscersi e crescere a partire dal suo servizio. Ed è questo un altro dei preziosi insegnamenti che ci viene dal Diario: il Bene che si può fare nel mondo non può che partire da una piena assunzione della propria condizione e dei compiti che vi sono associati. Fare il proprio dovere, guardando al bene degli altri prima che al proprio, è la cosa migliore che si possa fare per aggiustare i mali degli uomini.




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