La (non) libertà di voto nel meridione d’Italia

Carlo Levi, Lucania 61 (part.)


di Tommaso Greco



*Ho ritrovato due pagine dattiloscritte risalenti al 1987/88, quando mi ero iscritto all’Università e avevo iniziato a frequentare le lezioni di Diritto costituzionale. L’analisi — semplice e diretta — che vi è svolta non mi pare invecchiata, né (ahinoi) superata. Sono cambiate alcune condizioni relative al sistema elettorale; ma non è cambiato il meccanismo fondamentale che porta una grandissima parte degli elettori meridionali a non poter esercitare un voto libero. Pubblico questo scritto, dunque, solo come testimonianza di un problema che perdura, e del quale occorrerà prendere coscienza prima o poi, se vorremo che il Sud, quanto meno, si apra alla speranza di un futuro pieno di speranze.




L’art. 48 della nostra Costituzione garantisce la libertà di voto e, in connessione con questa, come suo presupposto necessario, la segretezza del voto stesso.
Purtroppo non sempre il segreto dell’urna è sufficiente per la libertà di voto degli elettori. O quanto meno, non in tutti i luoghi. Prendo spunto dalla realtà del paese in cui vivo. Elezioni amministrative comunali, i votanti sono poco più di un migliaio. Siamo in sistema maggioritario e quindi quando si vota in testa per il partito le preferenze non sono necessarie. Succede però una cosa veramente singolare: attraverso un sistema di preferenze, costruito sui nomi dei dodici candidati, combinati in tutti i modi possibili, e distribuendo queste combinazioni alla popolazione, o almeno a quegli elettori di cui non si è certi di avere il suffragio, i signorotti locali riescono praticamente a controllare se una determinata persona ha votato o no per il loro partito.
Addio, dunque, libertà di voto. Un diritto costituzionale che non è garantito, e non perché lo Stato non lo garantisce, ma perché la gente non ne pretende il rispetto. Ci si chiederà: perché ciò avviene? Cioè: perché la gente permette questo ricatto? Per un motivo molto semplice: perché è costretta ad accettarlo.
Ancora una volta qui c’entra lo Stato. L’imputato principale è la sua politica assistenzialistica. Con l’assistenzialismo è stato messo in mano ai signori di potere un efficacissimo strumento di ricatto nei confronti dell’elettore-assistito. Lo Stato poteva e doveva affrontare il problema del meridione creando possibilità di lavoro per tutti: un lavoro produttivo che desse autonomia ai lavoratori, quell’autonomia economica da cui dipende per troppa parte l’autonomia dell’agire. Doveva creare possibilità di lavoro tramite cui ogni lavoratore meridionale potesse dare il suo contributo alla crescita economica della propria terra e del proprio Paese.
Ha preferito invece percorrere un’altra strada: quella dell’ assistenzialismo, appunto, che ha generato rapporti di dipendenza continua fra il beneficiario e colui che fa da tramite in questo processo di riallocazione delle risorse (e che risulta alla fine il vero beneficiario dell’intero processo). Con un ulteriore gravissimo danno: la perdita di quel prezioso senso del lavoro e del pane guadagnato col sudore, grande patrimonio un tempo della nostra gente e ora scomparso, verrebbe da dire irrimediabilmente, con conseguenze negative e deleterie sulla tensione morale e civile e sul senso dello Stato di questi cittadini; valori che vanno presto recuperati se si vuole costruire un’Italia unica che a tutt’oggi, è inutile illudersi, non esiste affatto.
Ho parlato anche di conseguenze negative sul senso dello Stato perché ora si pretendono come diritti quelli che lo Stato aveva stabilito come interventi straordinari per preparare una crescita ed uno sviluppo solidi e duraturi. Lo Stato è visto quasi esclusivamente come l’erogatore di somme da intascare o come colui che reprime certi comportamenti: una visione estremamente negativa, riduttiva e poco costruttiva.
Un problema connesso a tutto il discorso fatto finora è quello dell’efficienza della pubblica amministrazione: problema che tocca certamente tutto il territorio nazionale ma che assume una connotazione particolare nel Sud d’Italia.
Fino a quando la nostra amministrazione non sarà capace di fornire ciò che gli viene richiesto in tempi utili e ragionevoli si terrà in piedi un altro mezzo per il consolidamento del potere nelle mani di chi ce l’ha già. Siamo, infatti, in una situazione in cui, per ottenere ciò che si vuole dall’amministrazione, non basta rivolgersi alle vie ordinarie (agli sportelli): ci si deve rivolgere ad amici e conoscenti influenti. Ciò che la legge stabilisce come un diritto si trasforma clamorosamente in un favore da chiedere a chi può aiutarci nell’ottenere quello che in realtà ci spetta come cittadini. Si può parlare allora di stato dei diritti?
Purtroppo spesso la gente non conosce quali siano i suoi diritti ed è quindi fondamentale la concezione di un nuovo modo di intendere l’istruzione. Ma forse, parallelamente, è necessario soprattutto che lo Stato, nell’attribuire determinati diritti ai componenti di una collettività, crei e mantenga ferme le condizioni affinché quei diritti possano essere realmente esercitati. Solo allora avremo veramente uno Stato di diritto e dei diritti.

Commenti

Post popolari in questo blog

NON E' DELITTO PARLARE DEL "DELITTO DEL CIMITERO"

Non la furbizia, ma solo una buona politica salverà il “mondo a parte” dell’Italia interna

Mezzogiorno a Caloveto