Domenico e la sua ombra - Un racconto di Mimmo Bitonto
Questo
racconto, benché intessuto su un fatto reale, quindi verosimile, non è storia
vera, la fantasia ha ruolo rilevante. Nomi, soprannomi e patronimici sono usati
per paradigma, sovra tutto fonetico, ovvero a dare colore, inquadrarlo nei
luoghi. Il riferimento a persone esistenti o esistite è pressoché casuale.
Longobucco, maggio 1952
Pur
coricato, un omaccione Domenico dei Verri. A un osservatore
inconsapevole il di lui duro sembiante avrebbe dato della sua indole
un’idea errata. La prestanza ricordava i secoli di dominazione svevo-normanna
della nostra Terra, la faccia butterata dal vaiolo contratto in gioventù,
gli conferiva aspetto sinistro, da antico guerriero, ancor più truce nello
stato in cui versava in quel momento, quasi a sostenere, in modo bizzarro, non
usurpasse il più comune suo nomignolo di 'u picuniatu, il picconato: un teutonico
federiciano che, per proteggere il suo onore, ovvero straziare le carni dei
nemici, alla spada preferisse il piccone. In realtà, molto meno romantico il
motivo di quell’attributo, il piccone in effetti lo usava, ma come attrezzo nel
suo mestiere di consavia (altro suo epiteto questo), ossia di stradino
comunale.
Il
letto, dismisurato per ammanco, che mai cambiò per abulia, non riusciva a
contenerlo e
dovea
normalmente ripiegare le ginocchia o poggiare i piedi nel varco del tavolato
che lui stesso, con arte, creò nella sponda. In quel mentre, incapace di
prender sonno, non trovando requie, una postura prendea e l’altra in
continuazione.
A
notte fonda, spossato, avea alzato 'u sbruvìaru (la cortina che
nascondea ai figli, che dormiano nella stessa stanza, il talamo) e, seduto sul
ciglio, si prese con ambedue le mani la testa come a sorreggerla.
Una mal’aura gli aleggiava attorno, una presenza
incorporea, di cui però potea sentire l’alito, freddo, che gli procurava un
gelo innaturale nelle ossa, un rimescolio nelle budella. Facile dare la colpa
agli acciacchi dei suoi cinquantanove anni e mettere il cuore in pace; ma gli
era chiaro che non di normali malanni si trattasse, il malessere ce l’avea in
testa e somatizzava nei punti più nascosti, meno raggiungibili al tatto. Le
cause, in somma, erano da ricercare in un fardello che si portava addosso, una
sorta di responsabilità sopita per anni e diventata allora cogente,
insopportabile, e la sua indecisione a porvi rimedio.
Scese
nella stalla, cucinotto da quando gli era morto il vecchio asino (fatto,
questo, che gli fece decidere, finalmente, di sbarazzarsi del querceto di Pinutùartu,
pino storto, atavico podere di famiglia, e con esso mandare in malora verri e
scrofe).
L’animale
immaginò appena entrato, lo vide addirittura al trogolo ruminare come un
caprone e per l’emozione, se non per lo spavento, gli venne un groppone in
gola. Testardo come un mulo, ricordò le legnate, i morsi all’orecchio, le
sferzate, gli urli per farlo camminare. Lo detestò da subito quel somaro, Bruttabbestia
l’avea chiamato, e sì che nell’impervia macchia di Pinutùartu gli
era d’aiuto -fors’anche per questo lo disprezzava tanto- nel radunare i porci,
a dirittura nell’ammansirli senza dar di piglio al bastone.
Glielo
diede in dono Manghescià Ubia, alto dignitario etiope confinato negli
anni trenta a Longobucco, per aver agito da paraninfo portando la mmasciata (l’ambasciata)
a una giovine della sua ruga (cosa ancor più indegna ché il marito stava in
armi e proprio in Abissinia) da la quale il tale ebbe poi un figlio.
Si
aspettava di più da quel servizio. Insieme al ronzino, il ras gli
diede la miseria di un manto di lana grezza quale basto e finimenti di cuoio,
che ei usò presto come curria (cintura
per le braghe) e, alla bisogna, sferza contro l’odiato animale, legando al
collo dell’asino un volgare laccio di sparto, che lasciò purulenti, povera
bestia, i segni della tortura.
Era
la prima volta che ne sentisse pietà e gli mancasse il suo raglio, da vivo lo
strigliava fino a insaponarlo del suo sangue, e più ragliava, più lui infieria
sullo sventurato corpo.
Capì
subito il perché di quella visione: la scambiò col ricordo, che
l’angustiava da sempre, quel giorno ancor maggiormente, del fratello morto, Gino.
Questi la causa dell’insonnia, del travaglio di quella notte. Benché di poco
più grande, gli avea fatto da padre e come padre a esso non lesinò carezze e,
per educarlo s’intende, lavate di capo, dimenticando però, almeno fino a quel
momento, le cinghiate, gli urli, i calci in culo.
Muginava,
maledicendolo, cose terribili del fratellino, il quale, decidendo di morire schìatto
(celibe), quindi senza discendenza (poteva essere altrimenti, trattandosi
di un ragazzo?), gli lasciò quella incombenza: rinnovarne il nome, fatto che
per ben due volte si era trasformato in tragedia. Pensava ai suoi maggiori, su
cui cadea l’onta tuttavia, che si erano costruiti con fatica e sudore un sopra
nome non da poco, Verri (porci da monta in effetti), allevando bradi
nella macchia silana neri calabresi, maiali oltremodo pregiati dalle
squisite carni, che da tanto, anche per la sua scelleratezza di preferire il
tranquillo tran tran di impiegato comunale all’onorato mestiere di porcaro,
erano quasi estinti a Longobucco.
Debilitato
dai pensieri, dall’inopinato freddo, accese il fuoco, nonostante prossima fosse
l’estate, e, seduto sullo scranno davanti al camino, guardava il grosso ceppo
bruciare.
Nove
i figli dai suoi lombi, avuti da due donne. Con Rusàlia, Rosalia, la
prima moglie, quattro. Defunta costei impalmò, ben prima dell’anno di stretto
lutto, tanto per non smentire la reputazione dei Verri, Sabbeddha, Isabella,
e con essa gli altri.
A costoro
pensava e ai nipoti, mestamente vagliando in ognuno la dissomiglianza col
defunto, mentre, ulteriore punizione che reggea a malapena da ben sette lustri,
un lontano cugino, da parte di madre, nato l’anno successivo alla morte di Gigino,
egli stesso un Luigi, sembrava avergli tagliata la testa.
Stette
a guardare il fuoco chissà per quanto, sentì un rimestio confuso, cui non fece
caso, non s’avvide, tant’era assorto, si fosse la moglie alzata e stesse
pestando nel mortaio grani d’orzo e fave secche per la ciofeca.
— Rumì,
unnà rurmutu, ah? — Domè, non hai dormito, gli disse a un tratto. Le parole
lo raggiunsero nelle viscere, che tenea in mescolo al cervello. Si voltò
mascherando un sorriso, la sua ombra lo seguì fino a ricoprire la sua donna. — No,
un m’è crisciutu ’u sùannu —, non mi è cresciuto il sonno, rispose con
bella espressione gergale e subito si rigirò, perché il fantasma del fratello,
la sua ombra, non tormentasse la sposa. Cupo tornò a guardare le monachelle.
L’incipiente
alba facea già sentire la sua eco. Ruviegli (risvegli), così li chiamava
Ruminicu, pettirossi e usignuoli, cinguettavano festosi; cumpare
Vrusciddhu, che nel gafio (arco tra le case) occupava la stalla
accanto, come tutte le sante mattine, facea stridere la cote sulla sua cuntorta,
sorta di falcetta che ei stesso s’era fabbricato, di certo stava per andare,
come dicea, a far man bassa di erba mangereccia per i campi liberi; il mulo di Citarune
al solito nitragliava, tra le lamentele similmente rumorose del
padrone, ché il basto gli mettea in groppa. In lontananza sbraiti alti,
spiritati, Battistella 'a sreuza, la pazza, era di giro e vociava contro
qualcuno o qualcosa, per essa indifferente.
Isabella
avrebbe almeno aperto il battente
superiore della portella, sporto il capo e salutato il compare, ascoltato con
piacere il suo vocione e la rituale celia sul marito: "Cummara Sabbeddhì,
cùamu state e cùamu si la vìenta ru vichincu? È sutterratu ancora ntri
cuvìarti? para cu nu sìentu stamatina. Rumì, sbigghiate, ca 'u sule 'mboca e 'a
viertula sbacanta!"
(Comare
Isabellina, come state e come se la passa il vichingo, è ancora sotto le
coperte? Mi pare di non sentirlo stamattina. Domè, svegliati, che oggi il sole
infuoca e la bisaccia canta vuota!).
Non
fosse quello un giorno che le si prefigurava infausto, l’avrebbe fatto. Focò
invece il carbone sotto il fornellino, vi mise sopra la ciucculatera
napoletana (che ricordava i
bei tempi della nonna e lei v’era affezionata), riempita con la mistura
di orzo e fave, e sedette sulla seggiola bassa ad aspettare. Al borbottio del
bollore ripulì il sinale dei residui della macina, capovolse con un
canovaccio la macchinetta e attese. Dopo qualche sbadiglio, l’aroma forte e
amaro del caffè dei poveri si sparse nella camera.
Donna
minuta Isabella, tanto che, benché avesse passato l’età sinodale, ancora
veniva chiamata Sabellina. I delicati lineamenti del volto e della
figura, un carattere apparentemente remissivo, nascondevano l’indole
battagliera che l’aspetto del consorte sbandierava invano. Una settimana di
discussioni, e botte da lei prese, non erano bastate a far recedere il marito
dal proposito. Non potea star zitta l’ultimo giorno. Porgendogli la tazzulella
bollente, gli si rivolse con dolcezza: — Rumì , un nu po’ fare — Domè, non
lo puoi fare.
Non
arrivando risposta — Un l’ad 'e fare! — non lo devi fare, aggiunse
nervosa, tornendogli con frizione le spalle, — è un malaugurio, ne morrà!
— Cita,
fimmina, zitta!, è mio dovere.
— Rumì,
santu Ruminicu, pensa a tuo figlio, quale il dovere più grande di un padre?
— Basta!
Ho deciso.
— Rumì
no!
Il
tono alzandosi di grado in grado a ogni parola, facea prevedere a entrambi un
brutto finale.
— Sabbè,
tu… tu non puoi capire —, provò a smorzare Domenico, ma sortì l’effetto opposto.
—
Ah, io non capisco, e cosa… cosa dovrei capire? Mio figlio… il voto!
—
Ho deciso, finiscila!
—
No, Rumì, no! Si' nu sciaguratu…
—
Finiscila ti dico!
—
Tu… tu va finisci aru 'mbiernu!
Zittì,
ma solo per poco. — Facimu accussì, ci vado io in municipio, così non avrai
responsabilità.
Un
solenne manrovescio terminò la discussione. — Le puttane vanno a dichiarare
i figli! — le urlò Domenico, guardando velenosamente la mano che avrebbe
voluto recidere per non doverla più usare contro di lei, cosa che sarebbe
successa di nuovo e di nuovo.
Compare
Vrusciddhu sentì, da una settimana che ascoltava quelle sfuriate. Bussò
alla portella, la donna lo tranquillizzò da dentro: — Statte tranquillo,
unn’è succìessu nìente.
Non
v’era altra misura con Isabellina, ed ella ne avea coscienza, non come
con Rosalia, alla quale bastava uno sguardo, neppure tanto torvo, perché
stesse al posto suo.
Fuori,
nella ruga, si comportava come tutte le altre donne del vicinato, rispettosa
della volontà dell’uomo, pronta a sostenerlo contro chiunque, ma in casa… Non
avrebbe smesso di tormentarlo per il benedetto nome da dare al figlio,
continuato e continuato fino a fargli perdere i lumi della ragione. Quel giorno
la quistiona sarebbe stata finalmente
risolta, poi gli toccava guardare il suo muso puntuto chissà per quanto, ma
alla fine avrebbe capito. Eh, avrebbe capito?
Sortì
di casa col pensiero di non pensarci più. Il crepuscolo dell’alba gli si
presentava scuro come il suo umore, una brutta nuvola copria il suo dintorno,
mentre l’aurora baluginava negli altri vicoli. "Che bella
giornata!"rimuginò.
Percorrendo
le stradine che ei stesso tenea in ordine, non potea fare a meno che pensarci.
Svanì nel Terzuolo come in una nebbia, l’ascesa della Motta gli
apparve interminabile.
Nella
Piazzetta del Popolo l’eco ritmata dei colpi che masru Ruggianu,
ciabattino, infliggea alle povere suole di para, si sperdea nella ruga.
Contro il suo solito Domenico non infilò la botteguccia per due chiacchiere, né
rispose al ahu cumpà che l’amico gli rivolse da dentro, non l’avea
proprio sentito. Peggio gli accadde sulla viuzza De Capua, ove, a
dirittura Frotta, un altro compare (ossia un sangiovanni nel
gergo longobucchese), andandogli incontro protese la mano, ch’ei guardò come si
guardi un oggetto sconosciuto e passò oltre.
Nella
piazza del Campanaro, Battista urlò rivolta al torrione:— Gesummaria,
girivotati! — (gesummaria, girati!). Il grido spiritato gli mise paura, di
più, lo terrorizzò, come se fosse indirizzato a lui, a quello che stava per
fare: girivotati potea anche significare ripensaci!
Le
gambe non gli ressero e dovette appuntare sui gradoni della chiesa, mentre le
campane suonavano mattutino.
Tutto
ebbe inizio con la morte di Luigi, Ginuzzu, di spagnola, nel '18 o nel '19, per
l’appunto circa sette lustri addietro. Un ragazzotto bello quanto sventato,
rosso di peli e carnagione, aitante, dritto e robusto come un pino di Macrociro
lo ricordava, non la grigia larva umana che la febbre perniciosa avea ridotto.
Dopo di questi anche una sorella adolescente, Gemmuzza, morì di spagnola.
Femmina, non costituì un problema.
Primogenito,
si fece un dovere, tal l’usanza, dopo aver onorato i genitori, di nomare Luigi
uno dei suoi figli. Col primo gli andò male, il Gigino morì nelle braccia della
madre, Rosalia, un rigurgito lo affogò, niente poté, povera, la donna. Con la
seconda, Ginuzza, sempre della prima moglie, una femminuccia splendente come
l’aurora, chiamata Luigina per caso, non per dovere, la maledizione agì ancor
peggio: uno 'nsurto, (un insulto non meglio precisato, un infarto forse o un
ictus) la fece vegetare per più di un anno e a la fine, una liberazione, la
porto via.
Con
gli altri figli di primo letto si disse: "Nomerò prima i suoceri, forse
questo lo sgarbo che i santi non mi hanno perdonato, anche loro sono morti e
avean diritto".
Beh,
fatto sta Rosalia si fermasse a quattro, e prima le si seccasse il seno, poi,
per un fatale errore del farmacista, tutto il resto.
Con
la seconda moglie stesso il proposito: "Terrò la parola dopo aver nomato i
suoceri". Ma non lo fece, gli uscì di testa, si disse, e si perdonò. Il
terzo e il quarto figlio di Isabella, che avrebbero potuto essere Luigi, li
chiamò Vicìanzu e Franciscu, onorando un altro suo fratello e uno di ella.
Se
ne ricordò otto giorni da questi fatti, alla nascita del quinto: un bambolotto
bianco e rosso, cinque chili, tutto salute. "A questo quatrarìaddhu non
può accadere niente" si convinse, le fasce passategli dai fratelli non
riusciano a coprirlo del tutto. Disse della sua decisione alla moglie.
Non
potea aspettarsi da lei comprensione: una settimana intiera di litigi che
inevitabilmente finiano con il manrovescio!
Quello
ultimo giorno utile secondo la legge. Sì, gliene importava assai della legge,
dovea andare in Comune a dichiararlo, la sua urgenza era dargli il nome e
finirla con questa storia.
Riprese
forza e coraggio, Battista la pazza, che chiedea al Campanaro girasse
su se stesso, lo avea convinto, la creatura si sarebbe nomata come volea
Sabeddha, era anche un voto che ella fece alla Madonna: fosse nata
femmina Maria, maschio Mario.
Ripassò
dalla Piazzetta e, allegro, con fischio da capraro salutò Peppe Ruggiano,
costui gli rispose con un risentito vafallanculu va, ma ci appese un
sorriso. Fece breve la lunga discesa della Motta, il Terzuolo ora
gli apparve illuminato con l’aureola di san Domenico da Guzmán. A casa aprì
l’anta superiore della portella, chiamò la moglie con lo stesso fischio con cui
riappacificò con Ruggiano e le disse: — Giusto per la Madonna lo
innomerò Mario, ma il prossimo sarà Luigi.
Eh
già, come se, per tacere d’ei stesso, Sabellina fosse una giovinetta, avea
passato da tempo la quarantina e lui volea figliasse ancora!
Non
aspettò risposta, sapea di averla resa felice. Rinfrancato dalla decisione
presa, corse fischiettando al Municipio.
Nello
slargo del Comune trovò, rituale, l’assembramento trimestrale del rimboscamento,
metà del paese, per un verso o per l’altro ne facea parte.
Compagnia
di nullafacenti quei forestali (non per vocazione, ché i montanari sono usi ai
travagli più duri, quanto su delega del Demanio Forestale e del fresco ente
governativo O.V.S. -Opera Valorizzazione Sila-), alle dipendenze dei Comuni
montani. Avrebbero dovuto salvaguardare i boschi, tracciare sentieri, piantare
nuovi alberi… In genere i rimboschitori passavano le giornate a oziare
stravaccati, poggiati a un pino, quasi a sostenerlo, a bere il vino dalla
fiaschetta che teneano al fresco in un torrente, a legnare di straforo,
raccogliere funghi e fragoline (cose permesse ai silani finché ci furono i
Borboni), tutt’al più aiutavano i mandriani a distruggerle le foreste, col
debbio, per creare nuovi pascoli, o le accendevano essi stessi per poi doverle
rimboscarle.
Bandiere
e logore bandane rosse da una parte, bianche e candidi fazzoletti col triregno
papale e le chiavi di san Pietro dall’altro, gli uomini si scrutavano bieco.
V’era da fare la chiama al lavoro degli stagionali. I protestanti non sapeano
ci fosse, quasi sempre, l’accordo fra Jacinto, il sindaco comunista, e
don Angelo, il parroco di santa Maria Assunta, per spartirseli, ai due
servia la sommossa per poter dire al Prefetto quanto grave fosse la situazione
sociale che si vivea causa la bassa quota di assunzioni assegnata a Longobucco.
La
cagnara non era ancora incominciata, il sindaco non sarebbe apparso prima delle
otto, un’ora buona ancora di musi truci tra gente che poi sarebbe andata a
braccetto per cantine: sciannichìeddhi e pirucca, bicchieri di vino e
sbornia. Altro rito, quotidiano questo, che principiava con il sole.
Un
vecchio stornello, d’età borbonica, da cantare a squarciagola con la chitarra
battente stonata, narra di tre mannisi, ossia boscaioli, al servizio del
daziere dell’Universitas di Longobucco (diventato Comune dai francesi in poi),
i quali, prima di recarsi nelle macchie di pini e larici, si portassero alla
cantina con un pugno di olive in una leccata di sardellina pepata, mezzo
salsicciotto e una fetta dura di jermano (pane nero di farro o segale), e
riuscissero, da un tocco all’altro di Campanaro, cioè in un quarto d’ora, a
ingollare ciascuno un fiasco di 2 litra (circa cinque degli attuali litri) di
vino adulterato con polvere di bisolfito, che si dicea facesse bene alle
viscere.
Questa
una strofa: Tri olive cu sardeddha, na mienza ’mbosta, // na feddha de jermanu niru tosta, // a la
cantina jamu e di la purva // nu jascu ne calamu ca ne spurga
Domenico
potea entrare in Comune, avea la chiave del magazzeno ove tenea i suoi misteri
(gli attrezzi da stradino,
la pala, il piccone, la carriola), una portellina dava direttamente nel locale
dell’anagrafe. Di certo vi avrebbe trovato Peppinu ’u messu , l’addetto,
che da tanto vi dormia dentro, si vociava la moglie l’avesse sfrattato dal
letto (pare fosse solo un venticello calunnioso).
Ma
l’umore era cambiato. Ora, rinfrancato per la decisione di nomarlo Mario, con la visione della faccia
felice della moglie alla notizia, avea voglia di far quattro chiacchiere e
sullo slargo ve n’erano di amici, quasi tutti sangiovanni. Con nove
figli si facea presto ad averne una cinquantina e se si contasse anche quelli
di famiglia, validi fino alla settima generazione, oltre mezzo Longobucco gli
era compare.
Evitò
folto un gruppo che comprendea ardenti giovinastri rossi che apparentavano ai Loscieri,
ai Nibbaloni, ai Cuddìatti, ai Picipici, che contra
poneano troppo da vicino focosi coetanei bianchi dei Cuscialati, Marashchi e
Gariddhi, meglio stare a la larga. Accantò invece Cicciu
Lucària, Pizzitùartu, 'u Catarraru, 'Ntonu 'e Scirubetta e
Mallarinu, tutti, come lui, di progenie fieramente malandrina. Gli parve
fossero spettatori di qualcosa di stuzzicante che sarebbe da lì a poco
avvenuta. Vide guardassero, a un di presso, compare Vrusciddhu, sì,
proprio il suo caro vicino, a tre passi da esso un suo acerrimo nemico, uno dei
Fiùaschi, che avea pressappoco, tarda, la sua età. Fosse lì e non a
legnare di straforo lo preoccupò, la cuntorta e la gaccia ben
affilate che portava in ispalla, poteano essere usate altrimenti che a tagliar
rami e spighe di jermano.
Che
aspettasse la confusione per risolvere tutte le questioni in una volta? Questo
credeano, o speravano, quei figli di briganti. Lo avvicinò e trasse in disparte
e, per scongiurare quel che ritenea anch’esso plausibile, gli disse del suo
proposito di nomare Mario l’ultimogenito e che non avrebbe più assistito a liti
tra lui e Sabellina.
Il
compare non gli diede retta, lo scorse appena, gli occhi non togliendo da dosso
a Toronnu Fiùascu. Taluni ascoltando -sapeano anche loro dei battibecchi
con la moglie per il Luigi- gli si accostarono. Pian piano anche altri
s’unirono, dell’uno e dell’altro schieramento, e ne venne fuori una discussione
che, inopinatamente, fece passar in secondo piano la protesta sotto la finestra
del sindaco e imbrigliò il compare, che non poté più muoversi.
Cominciò
una disputa su cosa Ruminicu dovesse fare, quale il suo dovere primario.
Si riformarono le formazioni, confuse ora fra bianchi e rossi, su chi sostenea
andasse onorato una buona volta il fratello defunto e chi, al contrario,
ritenea barbara la cosa e incivile.
E
accadde pure il miracolo. Ravvicinò pure il Fiùascu e, dopo un attimo di
perplessità, in cui la tensione potea tagliarsi col coltello e tutti zittirono,
al Vrusciddhu si rivolgesse. Gli disse avesse ragione, questo e niente
altro. Dopo un po' i due, a braccetto, presero la via della cantina eru
fùassu, e con non poca meraviglia, Domenico li vide seduti, uno a
canto a l’altro, amici ritrovati, a trosciare sciannichìaddhi.
La
discussione ricominciò quasi subito, e, non trovando nella avvenuta
riappacificazione nulla di interessante, subito si rinfervorò sul Luigi: grande
la capacità dei longobucchesi di ovviare in un amen. Il nostro però decise
avesse altro da fare e, senza essere notato, aprì il portoncino del magazzeno,
vi si introdusse e lo chiuse. La querelle sul nome, continuò senza chi l’avea
iniziata.
Nel
frattempo, arrivato il sindaco, questi credette la baraonda fosse incominciata.
Passando però in mezzo alle persone, notò nessuno facesse caso a lui, non vi
fosse animosità e si parlasse d’altro che di rivoluzione. Medesime
preoccupazioni ebbe don Angelo, quando fu informato dal giovane vice parroco,
don Ciccio che la cosa giù a basso stesse degenerando, nel senso non si
pensasse più alla zuffa, anzi si vedeano strani connubi trasversali. Bisognava
correre ai ripari!
Jacinto
incaricò Usu, l’uomo più fidato, di riunire i suoi, cosa che fece pure
don Angelo con i bianchi, chiamando a rapporto Peppinu ’e Gariddh. Ma
ormai poche erano le speranze che si tornasse a guardare in cagnesco, i due
gruppi inopinatamente aveano fraternizzato e la santa, fruttuosa scazzottata
sembrava andata a farsi benedire. Ci pensò don Ciccio a riportare la situazione
sui giusti binari. Spiò a un Citarune che Ruminicu 'u picuniatu fosse
un depravato, di più, uno scellerato, un senzadio, invece di portare il neonato
in chiesa, ove lo stesso Cristo avrebbe deciso per il meglio, avesse invece
scelto per dare un nome alla creatura il Municipio, luogo quanto mai
peccaminoso e perverso, pieno di comunisti e socialisti, che di bambini
avrebbero volentieri fatto pietanza. Il venticello veloce passò di orecchio in
orecchio, poi di bocca in bocca, bastò uno spintone, che lo stesso prete diede
non visto a uno dei suoi, un Sinibardo, che la zuffa, che dico, la
buriana principiasse e con violenza inaudita. Don Angelo la vide da lontano e
si fregò le mani, il sindaco Jacinto ritrovò il sorriso.
Nel
frattempo, Ruminicu avea raggiunto la scrivania dell’anagrafe, Peppinu
'u messo preso il librone andò sulla pagina da riempire: pochi minuti (eh,
pochi minuti) e il bambino avrebbe avuto il suo, da tanti sospirato, nome.
— Addhura?—
allora?, chiese l’addetto, intingendo, con mano manca, ché la dritta l’avea
moscia, il pennino nel calamaio.
Domenico
alzò la schiena, si tolse finalmente la coppola, incrociò le mani al ventre e,
con voce stentorea pronunciò: — Mario!
— Ah,
Mario.
— Sì.
—
Securu?
—
Certu, comu bonsegnure!
—
Addhura, Mario
—
Mario
—
Mario e basta?
—
Mario basta e avanza.
Peppino
si piegò sulla pagina del registro, si grattò ispidi i peli del viso, poi la
nuca, posò il pennino, si soffiò il naso, conservò il muccature, il
fazzoletto, nella manica della camicia, si concentrò, riprese il pennino e
cominciò:— Nome del padre… —. Ruminicu fraintese e si fece il segno
della Croce. Peppino alzò il capo — Cchi cazzu fai? — disse, lo guardò
con sufficienza e s’apprestò a scrivere… — Do…me… —. Insomma solo per
Domenico ci mise buoni cinque minuti e passò al cognome — Sa…
Dopo
un’ora e un quarto, e si era prossimi al nome della madre, entrò il sindaco. — Ehi,
Rumì, bonuvenutu! — disse con trasporto, e lo abbracciò come un fratello.
Alla fine della battaglia giù da basso, che poteva dirsi un successo che le
migliori intenzioni non avrebbero potuto prevedere, si erano contate sei o
sette teste rotte, persino una ferita da taglio larga un palmo che avea
lasciato lunga una scia di sangue fino alla cantina. Jacinto dava il
merito di tutto all’uomo che ora avea di fronte. Domenico si sciolse, non se
l’aspettava una tale accoglienza, l’afflato del sindaco lo commosse e un
lacrimone gli rigò il volto.
— Fammi
vedere, dove sei arrivato? — chiese al dipendente. — Su, ora faccio io
—. E in quattro e quattro otto, riempì il registro e al nome del bambino
disse Luigi e scrisse — Lui..
—
No —, con timore lo interruppe
Domenico, — Mario, don Jaci', Mario. Mia moglie… insomma, ha fatto un voto
alla Madonna di chiamarlo come Lei.
—
Ma no, che c’entra Mario con Maria! Poi, tu già ce l’hai una Maria, e fa confusione.
Luigi, sì, Luigi va bene —, e
completò Luigi.
Ruminicu
non seppe replicare, il nome del
bambino era, oramai stabilito, Luigi!
Il
sindaco lo riabbracciò, gli disse, guardando il contrariato Peppinu ’u messu
che avea capito l’antifona, lui potesse rientrare a casa, quel giorno si
desse alla pazza gioia e all’allegria, delle strade si sarebbe occupato qualcun
altro.
Prese
la via del ritorno il pover uomo, mille pensieri gli vennero in testa, e non
uno felice, altro che allegria. Senza accorgersene avea passato il Campanaro,
la Piazzetta, la scesa della Motta e s’era inoltrato nel
gregge di case che, accostate come pecore infreddolite, costituia la sua ruga.
Un buon odore gli colpì le narici, dolci fritti di sicuro, ma doveano aver
messo sul fuoco anche un castrato, carne che si usa per il sugo delle
tagliatelle. “V’è chi fa festa”,
pensò amaramente, ei a poco avrebbe dovuto affrontare la gioia affranta della
moglie.
Man
mano avanzasse verso il suo gafio, un brusio femminile si unia ai
profumi. Sotto il suo arco trovò ragazzette che imbandiano lunga una tavola,
ornata di tuvagghie aru tilaru, le più belle e disparate, di certo
provenienti da ogni casa del vicinato, con pasta cumpetta, scalille,
crustuli ammielati, giurgiulena, zippuli turdilli e curpineddhhe,
crispeddhe e fritti 'e pasta fatta. Nella stalla del suo compianto
asino, comari, giovani e anziane aveano tutte a che fare, col fuoco, le
chiacchiere e a scilare tagghiarini: era a casa sua che si preparava il
festeggiamento!
Avvertite
dal grido delle giovani: — È ricùatu, zu Riminicu è ricùatu! —, lo
circondarono le donne già fuori la porta e lo abbracciarono, mentre Isabella lo
attendea dentro.
Un
altro colpo quello, come avrebbe fatto a dirle…?
Si
fece coraggio e la chiamò, — Andiamo su — le disse. Lei, ma no!,
rispose, che desse a tutte la bella notizia…E la diede, una sola parola, ma
significativa, pronunciata a mezza voce, tutti però capirono: — Luigi.
Successe
quel che pensate, la festa si trasformò in funerale in un amen, una sola batté
le mani, non avea capito la tragedia. Svuotò il luogo in un batter di ciglio, Sabeddha
non volle le stesse accanto alcuno, niente l’avrebbe consolata.
Brutti
i giorni a seguire in casa di Domenico, Isabella si mise in testa la doppia tuvagghiula
nera delle cattive (vedove in longobucchese) e il cammisùattu viola
che spuntava dalla gonna in segno di cordoglio e li tenne per tre settimane. A
la fine ebbe la meglio il quieto vivere, chi comanda è il marito, a lei toccava
adattarsi. Perdonò la donna l’onta subita, pensando eccessiva anche la sua
preoccupazione per la salute del figlio.
Purtroppo
il diavolo ci mette sempre la coda, e dopo qualche mese il piccolo Luigi prese
un’infezione. Roba da poco, disse il medico don Luiggi (benché si
chiamasse Orazio, così si firmava,
con il don e la doppia g e senza il patronimico), tenerlo
al caldo sarebbe bastato a seccargli il morbo. Invece seccò il bambino, mentre
la malattia prosperò fino a ridurlo una larva, come la spagnola fece con
lo zio defunto.
Cominciasse
a farsene una ragione della sua imminente dipartita, le diceano tutti, per
entrambi una liberazione, ma lei non mollava, tenea stretto al seno il piccolo,
con la tormenta o il solleone, ventiquattro ore al giorno. Ma nessun
miglioramento gli portò il suo calore, niente poté contro quel maledetto morbo.
Una
diarrea sanguinolenta non lo abbandonò per dieci lunghi mesi, né una febbre
intermittente che talvolta gli causava convulsioni mucose, il pianto continuo
gli procurò l’ernia inguinale.
Le
comari della ruga, sicuri fosse arrivata la fine, per sollevare la povera donna
e l’uomo dalla triste incombenza, tessero al telaio 'u liànzulìattu, un
sudarietto candido ornato da putti a pizzuluni e fecero fabbricare la casciuttella,
una picciola bara bianca da masru Vicìanzu ’e Marashcu. A qualcuna
sfuggì la parolina, la mamma la sentì.
Si
era agli inizi del ’53, gelida la giornata di febbraio, la nostra donna non
fece sorgere il sole sulla sua pena. Col figlio, che pesava come un passero, la
pelle tenea grinzita fosse tenuto in ammollo in acqua tutto il tempo, gli occhi
spiritati enormi in una testolina scarnata, prese il postale per Rossano, sola,
quasi una fuga: le aveano detto di un medico prodigioso, certo La Menza,
che i morti togliea vivi da dentro la cassa. Durante il tragitto il piccolo non
emise un gemito, né si mosse, pensò fosse infine defunto. Ebbe paura più che
sconforto, cosa sarebbe successo a lei e a quel corpicino ne fossero venuti a
conoscenza gli altri passeggeri? Pensò al liànzulìattu delle comari.
Affinché non se ne accorgesse alcuno, soprattutto il vetturino, che avea il
berretto, e lei del berretto tenea timore, lo coprì del tutto, in modo
pensassero stesse dormendo.
Poco
prima raggiungessero Rossano, un guaito seguito da un pipitio sommesso -in un
primo momento credendo fossero le sue viscere sconvolte- le diede
consapevolezza fosse ancora in vita. Il postale alla Stazione si fermò, il
bigliettaio fece scendere tutti. Sabella gli chiese dove fosse lo studio
del dottor La Menza. Questi le indicò le case a tre quattro miglia di distanza,
ma ben in alto.
Come
arrivarci? Povera donna, non chiese consiglio, per pudore e vergogna, forse
avrebbe dovuto spiegare e lei non sapeva cosa dire. Sconfortata si avviò, più
d’uno si fermò col carro invitandola a salire, ma ella rifiutò.
Infreddolita,
raggiunse il paese al tocco. Si sedette senza più forze sui gradoni di una
chiesa, quella della santa Achiropita, un passante le buttò nel sinale qualche
lira, con uno sforzo immane gli brancò il braccio, — La Menza — gli sussurrò,
ché anche il fiato le mancava. Il buon uomo chiese: — ’U meric? —, il
medico? La donna abbassò il mento, poi il buon uomo l’aiutò a sollevarsi,
ascoltò il poco che la sventurata riuscì a dirgli, e l’accompagnò fin dentro lo
studio del luminare, parlò con la domestica che aprì loro la porta e attese con
lei che il dottore finisse di mangiare.
La
visita non fu accurata, tutt’altro, dopo un solo sguardo al bambino il medico
sentenziò: — Tena ru verm! —, ha il verme, disse, pochi giorni ancora e
l’avrebbe ucciso. Gli fece un’iniezione nel pancino e comandò alla serva di
triturare patate, belle grosse, con la tutta la buccia, passarle nello staccio
togliendone le impurità, pestarle nel mortaio, quindi, stringendole in un
canovaccio pulito, raccoglierne il succo in un bicchiere. Per intiero lo fece
bere al bambino, goccia a goccia, mentre la donna raccontava triste la sua
storia che era iniziata col dargli il nome Luigi.
Non
volle soldi il dottore, avrebbe accettato un grazie solo quando il
bambino cominciasse a sanire. Le diede un sacchetto di patate, le raccomandò di
tenerlo sul pitale senza le fasce dopo avergli fatto bere il succo, scrutare
sempre la pupù vi fossero vermi e fargli sapere quando diventasse dura. Detto
ciò la licenziò.
Prima
che uscisse dal portone, la domestica la fermò. Era di strippigna magara,
le nostre streghe, le diede un abitino da mettere al collo al bambino e
raccomandò di chiamarlo Mario, o in
qualsivoglia altro modo, ma non Luigi,
quantomeno in casa: le era apparso lo spirito del defunto zio durante la visita
medica: stava dentro il bambino, era lui il morbo! Le disse non gradisse che
suo fratello, che ritenea, chissà per qual motivo, responsabile della sua
morte, perpetuasse il suo nome. Avea bisogno di suffragi stando in purgatorio,
l’avesse invocato tutti i giorni per il resto della sua vita e pregato per lui,
forse avrebbe lasciato che suo figlio vivesse.
Ritornò
al paese ch’era l’alba, trovò una moltitudine in casa, anche i carabinieri
erano stati allertati. Passò in mezzo alla folla senza dare risposte, solo,
dianzi chiudesse dietro sé la porta della sua camera da letto, esclamò:— Figghiuma,
ara turra, s’annumìna Mario! —, mio figlio, in casa mia, si chiama Mario, e
la sbatté con tutta la forza che l’era rimasta.
Ore
intense di solitarie preghiere passò da allora Isabella, mentre gocciolava in
bocca al bimbo la spremuta del medico o lo dondolava, abbracciando esso e il
pitale. Scandagliava gli escrementi, divenuti man mano più solidi, con le dita,
cercando qualcosa che, era sicura, avrebbe riconosciuto come il male di suo
figlio. Ma i giorni passavano e nulla apparia, né le condizioni del piccolo
sembravano migliorare. Deperiva essa stessa a vista d’occhio, volle però che
nessuno la sostituisse. Tutti nella ruga pensavano sarebbero morti insieme,
mamma e figlio, prima della ormai prossima quaresima. Riferiano però, parlando
del bambino, di Mariuzzu, nelle maldicenze e nei discorsi seri, sol
qualcuno di Luigiuzzu, ma ben lontano dalla casa di Ruminicu.
Una
notte, spossata dal travaglio, in un dormiveglia lucido, Isabella vide entrare
nel cucinotto, dalla porta chiusa, un giovine, bello e alto come un pino della
Sila. Le si accostò, disse:— Un tenìre precusìa, minna vaju e appriessu me
pùartu i tui guai, mo addhuòrmati e statte bùana, me raccumannu — (non aver più timore, vado via e mi porto dietro i tuoi
guai, ora addormentati e riguardati, mi raccomando) e sortì allo stesso modo in cui era entrato. La donna
cadde in un sonno profondo, sognò, lei disse, il paradiso, e si svegliò col
canto degli usignoli all’alba. Il bimbo dormia sereno, guardò nel pitale e non
dovette neppure rimestare: dentro v’era un gomitolo filamentoso rosa che presto
all’aria divenne nero e una sorta di fumo salì e si disperse nella stanza.
Oggi
Mario ha sessanta e passa anni, gode di ottima salute, c’è ancora chi si ostini
a chiamarlo Luigi.
(© Mimmo Bitonto, maggio 2014)
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