Fraticìeddhu

Un racconto di Mimmo Bitonto


Castello di Mirto – Inizio primavera 1854


Frate Egidio, per assonanza e struttura lo chiamavamo Fraticìeddhu, appartenea ai minimi di san Francesco di Paola, del convento di Morano, posto alle pendici del Pollino. Miserabili essi stessi, si occupavano degli ultimi, orfani, bambini abbandonati, mentecatti, lebbrosi, tisici, affamati, derelitti. I piccoli li teneano con loro, gli altri purtroppo di passaggio, non potendo ospitarli che qualche giorno. Confidavano nella provvidenza e nell’aiuto degli uomini, e si avvaleano di elemosinanti: tale era frate Egidio. Cercava la carità a tutti, fossero ricchi o poveri stendea la mano, non di rado la ritirava vuota, ma non si perdeva d’animo, tanta gente c’era in giro…
Camminava a piedi con addosso tutto il suo bottino: un’ampia gerla da montanaro sulle spalle per derrate promiscue; boccioni per vino aceto e olio; sacche e sacchetti, per farina noci ceci secchi lenticchie castagne, a tracolla. A volte qualcuno lo facea salire per qualche miglio sul carro, i più lo evitavano, si mormorava fosse tubercolotico. Non lo era affatto, soffria di perniciosi attacchi di tosse ed epistassi, ma lui lasciava lo si credesse: tanti per toglierselo dai piedi, insistente lo era eccome, gli davano qualcosa.
Sei palmi scarsi (poco meno d’un metro e mezzo) di incrollabile fede nella provvidenza, di forza e coraggio, di ingenua furbizia, di imperturbabile e santa ignoranza anche del sacro. Il suo saio era talmente logoro che si contavano più buchi che parti intiere.
Il 12 di febbraio la costa fu smossa dal tremuoto, sentito anche nei paesi interni della Presila Greca. Da noi al Castello di Mirto avea provocato danni più gravi che altrove, al primo scotulacchio i signori si erano eroicamente eclissati a Napoli, lasciando al massaro il compito di vendere ogni riserva stipata nei magazzeni, comprese le vettovaglie che avrebbero potuto sostentarci. Si trovava il fratino ne' pressi della fattoria, sapendoci dentro le mura, abbandonati dai padroni, credendoci alla fame ed esposti ai rigori dell’inverno, i bambini senza un tetto né un giaciglio, volle portare conforto.
Arrivò con la sua andatura caracollante alla porta di San Nilo, immaginando lo strazio che avrebbe trovato. Lo adocchiai e gli corsi incontro. Trivulo, il mio caro Ercolino, che si era assunto il compito di proteggermi, tentò vanamente di fermarmi, <<Cefà, un fare ciotie!>> mi urlò e mi tenne dietro. Fra lo stupore generale lo abbracciai forte e da lui ricevetti una carezza. Malvolentieri Trivulo seguì il mio esempio e gli baciò il cordiglio; altri gli si avvicinarono, i più mantennero le distanze. Il frate, tenendomi la mano, si guardò intorno in cerca del prete (precettore dei figli dei padroni). Avesse osato fermarlo, mi confessò, quella la volta buona: lo avrebbe preso a sberle! Non lo scorse. “Più c’è bisogno, più lui è assente” – dovette pensare, che lo sentii rimuginare. Il pretaccio era, in realtà, anche lui scappato coi nobili, glielo dissi e lui <<Cialtrone di un vigliacco!>> commentò.
Era io un ragazzino neppure quindicenne, ma con una enorme biblioteca a disposizione e un gran talento innato: immagazzinava tutto quel che leggea e in fretta nella mia portentosa memoria. La sfruttava (all’insaputa del prete, che, avesse intuito la cosa, avrebbe bruciato tutti i libri) per dar sollievo alla povera gente del Castello. Poco v’era riuscito, in verità, fino ad allora. Consultai in quei giorni terribili, tomi e tomi di ingegneria, manifattura, carpenteria; convinsi i miei consorti non vi fosse altro modi di scampare all’inedia, sovra tutti i bambini, che non avrebbero resistito al freddo per molto,  e trasformai la fattoria in un grande stabilimento.
Vide il buon frate gente che andava e venia con pietre e calce e assi e grossi tronchi; lo sterro delle case abbattute dal sismo ammonticchiato al centro dell’aia; due casette e la stalla grande terminate, ed erano davvero belle; fondamenta di altre predisposte. Leve corde e carrucole, una macchina rollante come un passamano che accorciava tempi e fatica. Mai, affermò congratulandosi, ravvisò tali meraviglie in alcuna fabbrica, e sì che ne frequentava di luoghi ben più attrezzati e ricchi del nostro: ne fui orgoglioso! E le femmine, che meraviglia! esclamò. Discerse in quelle donnine, scarne per la fatica e la fame, il coraggio ancestrale che gli uomini non posseggono, né s’impara, disse, cui tanto deve la sopravvivenza dell’umanità. Oltre a fare il loro, le vide spronare dubbiosi e sfiancati, con dolcezza, e, non bastasse, maltrattandoli, portando il ristoro di un bicchiere di vinaccio o d’acqua, sostituendosi a volte a essi per dare esempio. La gente era sfatta, ma non poté non notare soddisfazione nei loro volti: grande l’opera che si stava compiendo!
Tutto questo scoprì in un attimo da sotto la volta di San Nilo. Posò il carico, si alzò le maniche, <<Non è tempo di farfugliare, sfaticato fraticello>> si disse, mi chiese quale il suo compito, non seppi rispondere e allora cominciò a trasportar pietre.
Tutti quelli che incontrò gli rivolsero sorrisi imbarazzati e saluti, tenendosi tuttavia alla larga. Passando vicino alla finestra del turriazzo di mezzogiorno, fece cenno colla mano al massaro, che, appoggiando i gomiti sul davanzale, con sufficienza guardava il fermento generale. Questi non rispose al saluto. Tentennò il capo, lo vidi fare una smorfia di disgusto, ma non stupì più di tanto.

Al calar della sera pregai il frate, che sapea non poter dir messa, non essendo sacerdote, di impartire una benedizione: gli uomini e le donne sentiano necessità, forse anch’io, di un protettore potente in quel momento. E dopo quattro settimane la mia empietà manifesta, al posto di quella nascosta del prete, chiamò il popolo del Castello in cappella, con un tantino di timore crollasse. Vi entrai prima io con lui, rimasi però sul fondo, supplicando Trivulo, sempre a me di presso e mal disposto per via della trista sua nomea di tisico, di scortarlo fino all’altare, per dar sicurezza agli altri che doveano stargli vicino. Non mi segnai, benché ne avessi voglia, malnato me e la mia mala irreligiosa etica, che mai abbondonai!
Suonai la campanella. I contadini, posati gli attrezzi, alla spicciolata e con dubbio, riempirono la chiesetta.
<<Nómine Patre et Figghio et Spirìtu Santu. Amèn…>>  principiò il fratino, mentre qualche calcinaccio cadea sulla testa dei mirtaioli e un crepitio sinistro ci mise agitazione. <<Grazzia Dominu nostru Iesu Christu, et caritàs Dei, et communicazio Santu Spiritu sit onnibus vobbiscu. Fraticìeddhri, figghisi mia, 'u Patreternu è dappertutto, nun sulo in chìesa. Ve dicu ca Gisù, quannu può la scansase. Ora, cominciannisi da l’urtima fila e cu ordine, escite fora, su! Io ve benedicisi cu Patre Figghiu e Spiritu Santu>>.
Non una parola in più spese il buon monaco, li seguì con lo sguardo mentre composti guadagnavano il cortile. Cercò nei loro volti stracchi la speranza, ve la trovò tra le rughe della fronte e la magrezza endemica, e fede scorse, ignorante peggio della sua, ma viva. Alla fine restammo soli, lui ai piedi dell’altare, io in fondo accanto all’acquasantiera. Pensò a gente di tal fatta Dio avesse riservato un posto d’onore in paradiso, e me lo disse, vicino a san Francesco e al suo beato. <<Quale?>> gli chiesi. <<Duopu tinna dicisi>> mi rispose. Alcun peccato sarebbe stato loro imputato, perché il suo è un Padreterno giusto e adattabile, non numera, fossero nocelle, meriti e peccati, pesa anzi tutto patimenti, digiuni, vessazioni. Persino all’inferno, per lui una sorta di paradiso minore, nessun fuoco divora né tormenta, <<Ci si pote divertire e sonnecchiare quando si vole>>, mi confidò come fosse un segreto da non spifferare in giro, solo un po'  più distante, e neppure tanto, dalla gioia piena della visione del, per esso, amore perfetto: Cristo!
Intanto sempre più pietre e calcina cadevano dal tetto. Vedendo si attardasse in un’ultima preghiera, gli andai incontro, lo raggiunsi e trassi energicamente, quasi a rimproverarlo della sua incoscienza. Appena toccato gli stipiti del portone, l’intiero solaio e uno dei muri laterali si abbatterono fragorosamente sui banchi! <<Pure chissa va rifatta, me raccummannisi, eh!>> commentò calmo l’ulteriore sinistro. <<Va rifatta, sì>> gli fece eco, strattonandolo ulteriormente per toglierlo dal pericolo.

Al termine della giornata gli cedetti il giaciglio e gli acquattai vicino, ancor più quando tossia, e, mal visto dal mio Ercolino, il quale da poca distanza mi tenea d’occhio, lo asciugai del sangue che perdea dal naso.
Trivulo, sfatto dalla fatica e dalla tensione, prese subito sonno e cominciò a russare. A tu per tu col frate, gli confidai agissi senza il consenso del massaro –che, per sue oscure mire, lasciava fare- tantomeno ne chiesi al conte; che avessi coinvolto tutte quelle persone credendo di poter portare a termine la riedificazione della fattoria e delle case, e che non ne fossi più affatto convinto. Ciò che di sicuro avea dimostrato era arroganza e somma incoscienza. <<A' fatts bùane>> hai fatto quel che andava fatto, mi incoraggiò, la Provvidenza avrebbe aiutato me e gli altri, e sarebbe intervenuta anche in seguito. Nessuno, disse, avrebbe potuto biasimarci.
Volea crederci, la ricostruzione e il resto (curammo anche i campi, inariditi dal terremoto, e li ammendammo con calce per predisporli alla semina) non potevano essere ignorati, ma di certo la contessa e lo stronzo del marito non si sarebbero abbassati a ringraziarmi; il prete poi, che di me avrebbe fatto volentieri polpette per mangiarsele crude, neppure glielo avesse chiesto direttamente il suo santo Basilio.
“Ah, la Provvidenza!” pensai, e mi venne in mente la donnina che discoprii, cercando pietre da trasformare in calce, sepolta nel greto del torrente Fiumarella. “Il mio destino ce l’ha in mano qualcun altro, non la Provvidenza”, amareggiai. <<La Provvidenza c’è! ribadì il frate, quasi avesse ascoltato i miei disperati pensieri e guarda lontano, quando credi sia assente>>.
<<Ascolta…>>  disse poi, e raccontò…
<<Entrai nel convento di Castiglione Cosentino a quattro anni, allorquando mia madre morì di consunzione. Mio padre, poveruomo, mi consegnò a’ frati quando, co’ miei due fratellini, partì per le Americhe. Non ne seppi più nulla. Di lui ho memoria avesse una gran barba e parlasse piano, sottovoce. Penso il ricordo debba ricondursi al letto di morte de la mamma. I miei fratelli, i miei cari fratellini, li porto in cuore e son senza volto anche nei sogni.
I monaci non furon teneri con me, eccetto frate Egidio, del cui rinnovo il nome. Non dissi una parola forse per dieci anni, ne feci capire a' frati che li intendea. Il muto mi chiamavano, copano, scemo, perucchio, scansafatiche, mi davano addosso col cordone spazientiti. Doveano spiegarsi a gesti ed eran goffi, io sapea bene cosa volessero da subito, li guardava, seguia i movimenti e il loro affanno, a volte li sbeffeggiava a mo' di scimmia, sol quando m’andava dimostrava d’aver capito, le sferzate col cordiglio le avrei comunque prese. Con Egidio sì che me la intendea, sordomuto vero e di me maggiore di forse un lustro e mezzo. Dormìamo insieme in un bugigattolo di cella, non nel dormitorio (che pensassero avremmo potuto infettare de la nostra malattia gli altri monacelli durante il sonno?). Avevam sviluppato, ei più che altro, un bel linguaggio. M’insegnò il gesto per nomar il cane, il piatto, il monaco cattivo e quello buono, e via di questo passo l’intiero mondo e ciò che vi sta dentro. Eravamo i soli tra i ragazzi a non andar a scuola, ci facean lavorare come muli, ne le cucine, ne le stalle, non ci voleano neanche a le orazioni, e a lui facea male perché avea fede, intendea il Cristo come nessun altro, te lo giuro Masino!, e non capia il motivo per cui non potea pregar con gli altri. Sostenea l’abate, io lo sentii, avesse voluto Dio orassimo insieme a loro, negato non ci avrebbe la parola. Non glielo riferii. Un giorno, intorno ai miei sei anni, gli confessai che sapea parlare, e che sentia tutto, anco il più picciolo respiro. Restò basito per un po', si guardò attorno spaurito ci fosse dietro qualcuno che ascoltasse… poi ne rise mimando: mascalzone!
Egidio divenne frate quand’io avea compiuto dieci anni, nonostante l’avversione de l’abate. Questi era certo il mio compagno, coscienza non avesse del fermo proposito, castità povertà e obbedienza. L’avesse avuta lui come l’avea Egidio! Voti semplici, senza cerimonia, questo gli concesse, e non ci fossi stato io a starli accanto, non gli mollai un attimo l’orlo del saio, solingo l’avrebbe pronunciati (si fa per dire) solennemente. Tenne alto il capo finché l’abate lesse il capitolo, quando ritenne avesse finito l’abbassò e pianse…
Nell’808 passarono i Francesi, brave persone, fossero rimasti! Ci espropiaron de le terre, si presero le vacche, le pecore, le capre, i cavalli, persino galline e conigli. Fecero bene, serviano soltanto a ingrassarci, mentre i poveri, fuori dal monastero, patian la fame. Da Conventuali diventammo Mendicanti, a la fine quel che desiava il Poverello ci fu concesso da la sorte, che avea questa nome cognome e titolo: Gioacchino Napoleone, Re di Napoli. Molti frati andaron via, più tutti i novizi. Restammo in cinque. Il vecchio fra Galdino, che non potea muoversi per gli acciacchi, diventò abate, ma ebbe a cuore la di lui salute più che la confraternita. Frate Egidio dimostrò la sua fede, tutta la bontà di cui era colmo: fu il primo elemosinante del convento. Raccogliea roba da' ricconi, olio vino pane noci e tanto altro, e con essa tutti i deleritti che incontava per strada, li portava seco, li sfamava e l’accudia finché potea: maggiore provai per lui il già smisurato affetto e l’immensa stima. Io gli andava sempre dietro, per proteggerlo (in codesto aspetto ei era un buono a nulla) e fargli da interprete. Dopo qualche tempo cominciò a radunar bambini ripudiati, storpi e ammalati, rifiuti de la società, tutti quel che amava il Cristo amava lui. La Provvidenza ci fornia un bell’aiuto: ben presto fummo pieni di gente bisognosa e d’adeguata carità. Pargoli e infermi aveano asilo perpetuo, gli altri saltuario, il dormitorio e le mense eran comunque sempre pieni.
Morto l’abate, il Provinciale vendette l’abazia a un dovizioso cristiano, che avea bisogno di un bell’alloggio per la figlia da maritare, e fummo mandati al monastero di Morano ch’era mal messo. Ben presto l’opera di Egidio lo trasformò in rifugio per i figli che Gesù ama…
Capitò, tempo dopo, ch’io fossi malato, m’infuocava la febbre quartana, da qualche tempo m’affligea. Roteò la mano e se la portò al petto, vado solo” volea significare, unì le mani le accostò al volto poi accostò l’indice al naso, tu riguardati, oggi vado a mendicare da me”. Non era io d’accordo, protestai, o si andava insieme o non si andava, le contrade eran piene di malfattori che poco rispetto tenean del saio. <<Tu sei senza difesa, anco de la cattiveria de’ bambini devi aver timore!>> gli formulai preoccupato. Non la vinsi, masticò vacante, mostrommi la bocca vota e la dispensa aperta piena di poco. Fece il viso triste,C’è poco da mangiare e tanti afflitti, bisogna ch’io vada”. Mi carezzò e indicò del sole il tragitto: “Non preoccuparti, a sera son di ritorno”. La questua corta, quella che durava da l’aurora al tramonto, intendea fare, non certo per paura, che si portava sempre addosso per aver conosciuto la malvagità de' confratelli, che sconfiggea tuttavia con volontà di ferro per amor del prossimo; ma per non lasciarmi solo infermo più di un giorno. Restai in pena finché non lo rividi. Rientrò dopo vespro trionfante e allegro: la prima volta ch’era andato senza compagno avea raccolto tanto ben di Dio, che se anch’io ci fossi a spiegar le sue intenzioni non avremmo potuto. Tutti quei che incontrò lo trattarono da francescano, non da mentecatto com’ei temea. L’indomani avrebbe fatto il giro de le masserie de la montagna, del Pollino roccioso dai pascoli minuti e acque cascanti a valle da ogni crepa, dove l’abete bianco, il pino loricato, il capriolo, lo scoiattolo, la lontra, il cervo, il lupo e il grifone, trovan ricetto, ed ei l’amava tutte queste creature, fors’anco più de gli omini. Dormì poco quella notte, tant’era eccitato da la ventura che avrebbe intrapreso al mattino insieme a frate Sole. A la veglia gli feci tante raccomandazioni, a ognuna abbassava e tirava su la testa; inforcò la gerla, prese il sacco, mi benedisse e partì gioioso.
Non ritornò a sera, Dio misericordioso! Mal pensai, ma poi mi dissi di quante notti passammo fuori anche con il giro corto, perché stanchi e ancor lontani dal convento. Un buon samaritano sempre trovammo a soccorrerci o un antro pronto ad accoglierci.
Il giorno successivo neanche lo rividi, cercai de le ragioni, non ne trovai alcuna che mi convincesse.
A la seconda ora de la notte scansai i fratelli che mi sbarravano il passo e uscii ne le tenebre con in core un brutto presagio. M’inerpicai per il viottolo de' monti, a tutti quelli che incontrai chiesi di fratel Egidio. Ognuno mi rispose fosse passato, che l’avea scorto, che tenea la gerla e il sacco pieno zeppo mi disse l’ultimo, camminava a fatica verso le timpe di Pietrasasso, dopo le quali v’era la masseria di Berto. Lì mi recai, non l’avean visto! Ritornai indietro ne le timpe… Prima la gerla vuota, poi il sacco, alfine trovai lui, dentro di un crepaccio! Malridotto, ma ancora vivo, mi toccò il viso, m’infuse la forza -avea io quindici anni appena- di toglierlo dal baratro e di portarlo in spalla fino al convento. Arrivai a buio pesto. Al portone urlai: <<Aparite!>>. Fratello Pietro, quando vide da la feritoia fossi io, restò basito, poco si curò del moribondo che recava in spalla: <<Com’è che parli?>> chiese. Restai confuso un baleno, poi risposi: <<Un miracolo! Fratello Egidio mi toccò la bocca quando lo rinvenni e… ritrovai la voce!>> in quella situazione sembrommi l’unica spiegazione plausibile. Si segnò frate guardiano e innalzò un Deus Sanctissime!, ci avea creduto. Restai al suo capezzale notte e dì, rantolava poco per quanto soffria. Avea le coste rotte, guasto il viso, gonfiori tumefatti ovunque. Rendesse bene la virtù, il Mondo sarebbe pieno zeppo di buoni cristiani e il mio beato non avrebbe avuto nulla da temere in Terra, oltre che in Cielo.
Ei non lo disse, ma fu assalito, forse da briganti, forse da colui che beneficava: la caduta nel crepaccio non fu sì violenta da procurargli tanti orrori. La gerla vuota un altro segno, fu assalito! Ventidue lunghi giorni durò il martirio, alla terza vigilia de la notte del ventitreesimo, resuscitò! Io stava in dormiveglia, lo vidi sollevar il busto, movve le dita a indicare gli occhi, Guardami!”. Presi il lume e lo tenni alto. Ei chiuse il pugno e stette, Afferra…” , l’aprì di botto colpendomi sul viso, sberla…”, poi prese il mento e mi ruotò la faccia, gira il volto!” Lo adorai come si adora Cristo e piansi. “A chi ti percuote su una guancia, porgi anche l’altra”, questo mi disse e sorrise, mi baciò il dorso de la mano manca, Addio!”, roco invocò santo Francesco e rese a Gesù il suo dolce spirito.
Divenni frate minimo, decisi di assumere il nome del mio santo compagno, di rinnovarne esistenza e impegno per i miseri. A lui non sarei stato degno, né lo sono ora, di allacciare i sandali, per questo non li porto e vago scalzo.
Dal giorno in cui portai in spalla il mio beato, codesto sangue mi cola dal naso e santa una tosse mai mi abbandona. Tanti ritengono sia tubercolotico, tu lo sai, poco me ne cale, per scacciarmi mi danno roba, specie i doviziosi che tengono a la propria salute più che a l’anima, l’unico modo che hanno è darmene a iosa affinché desista a chiedere e ad avvicinarmi a essi.
Pax et Bonum, piccolo, ora dormi, figlio mio>>.

Quella notte non mi crebbe il sonno, credo neanche a lui.

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