Nilo da Rossano, ovvero il Pathirionita -- Un racconto di Mimmo Bitonto

Patire di Rossano – 11 ottobre 1840


Io, Nilo da Rossano, frate minimo francescano, sacrilego, miscredente, carico d’anni e di malanni, di  sorella Morte vicino sento dolce l’aura, con gli ultimi tremiti narrerò di mio pugno, perché ne resti memoria, biasimevole sia o degna di lode, di me medesimo.
Ancor fanciullo, mio padre mi cedette per un montone ai frati del convento francescano di Acri. Mia madre, ricordo, pianse, di gioia disse, — Qui mangerai tutti i giorni almeno una volta, figlio mio.
Non mi diedero da indossare il saio. — Ti abbiamo pagato caro — mi salutò il priore — usavamo quell’ariete per la monta, ché di razza buona, dovrai prima sdebitarti.
Quanto sarà valso quel pecorone? Per otto lunghi anni dovetti pagarlo, faticando peggio di un mulo, senza mai uscire, come sguattero, lavapiatti, lavandaia, campanaro, a spazzolare e rifare giacigli nelle celle dei monaci e nei dormitori dei monacelli, ove non mi faceano dormire, il mio guscio, un buco, nelle cucine, con la dispensa chiusa col catenaccio, tra fantasmi spaventevoli e odori che vigile mi tenean per paura e fame, finché la spossatezza non le vincea col sonno.
Non volle il malnato nemmeno che frequentassi la scuola, — Prima dovrai sdebitarti — mi ripeté. I rudimenti dello scrivere e del leggere, nel suo raffazzonato sapere, me le insegnò fratel Emilio, il cuciniere, che come me era stato comprato dal monastero venti e passa anni prima, per una vaccarella smunta mi confessò, e per tre lustri dovette faticare per acquistarsi il saio e la cella.
Un giorno questi mi disse: — Ho la chiave dei libri —. E mi parlò della sala di lettura, interdetta a chiumque salvo al priore, che loco maledetto lo nomava, e ad alcuni monaci copisti, i quali raramente v’entravano (scoprii più per motivi di carne che per trascrivere o studiare testi).
Un altro giorno mi ci portò, quando tutti, eccetto noi due e il vecchio, sempre morente, padre Salvino, erano usciti per l’onoranza funebre di un alto dignitario della Universitas.
Grande la distesa di libri, riempivano due intiere stanze, ne rimasi strabiliato.
Due anni appresso, dopo che gli lessi Fratello Sole, che ei avea trafugato dalla sala, mi disse: — Tu hai il talento — e confidò dove riponesse la chiave. — Tienila da conto — mi sussurrò infine e io capii l’antifona.
Da allora usai a dismisura il loco maledetto, ogne quando potessi, giorno fosse o notte, con fratel Emilio che mi copria. Per fabbricare candele di sego dovetti rifornirmi di grasso, ch’io rubava nelle frequenti macellazioni del convento, col beneplacito del mio santo cuciniere (che iniziò a lasciarmi a vespro un tozzo di pane, che io dividea con un’intiera famiglia di topini che a notte mi faceano provvidenziale compagnia).
E il talento lo possedea davvero, tutto ciò che leggea immagazzinava nella portentosa mia memoria.  Cominciai con lo studio della grammatica e della sintassi, latina greca e italiana, man mano a leggere le grandi opere di letteratura, conoscere il senso delle arti, la sacralità delle scienze profane, la vita insomma oltre il convento, pur restando chiuso nel monastero. Quelle due stanze mi aprirono il mondo!
A otto anni dal mio arrivo in monastero, sei dacché fossi entrato nella sala di lettura, morì il priore. Il nuovo, padre Agostino (del precedente cancellai dalla mente il nome), ch’era tutt’altra pasta, come fece con gli altri tutti, mi chiamò nella sua cella, mi parlò come un papà, mi sfaccendò di un bel po’ di uffizi, lasciandomi solo in la cucina con fratel Emilio e un nuovo sguattero, che tuttavia era un famiglio stipendiato. — Averai più tempo da dedicare alle orazioni, credo tu ne conosca ben poche — disse.
Prima di licenziarmi mi concesse saio e dormitorio, ma non la scuola. — Troppo grande per principiare alla tua età, diverresti zimbello de’ compagni — spiegò con un sorriso affettuoso e io mi trattenni dal replicare. Non volle gli baciassi la mano, ma mi strinse in un abbraccio, come a un figlio.
Presto, però, dai miei discorsi nel pergolato del chiostro, nella cappella, ove io recitava le preghiere compitando a mena dito il latino, tutti si accorsero avessi preparazione superiore a tutti gli altri e in ogne campo.
Avvisarono il priore che mi convocò di nuovo nella sua cella. Dovetti confessare il mio peccato: l’uso della libreria e per tutti quegli anni. Dissi del suo gran valore, gli rivelai che vi fossero da semplici abbecedari a preziosi papiri e tomi in cartapecora, ad antichi manoscritti e codici, della passione con cui me ne presi cura, di come me ne fossi nutrito. Conclusi, per sollevare il caro fatel Emilio, che avessi scoperto per caso dove questi nascondesse la chiave e lui non ne sapesse nulla del mio traffico nella sala. Qui mi tacqui.
Il padre mi scrutò senza parlare per un lasso che mi parve infinito, poi sorrise e rispose non gli sembrasse, in fin de’ conti, cosa tanto grave. Avrebbe riunito il consiglio degli anziani, proposto un mese di pane e acqua come punizione e, in aggiunta, che mettessi ordine nei libri, per tutto il tempo ritenessi necessario, anche anni aggiunse.
Il consiglio non la pensò, ahimè!, allo stesso modo e deliberò la mia espulsione dal monastero. Non essendo neppure novizio, ciò equivaleva anche dall’ordine.
Il priore fu allibito da tanta severità, e, potendo prendere decisioni anche in contrasto, mi fece novizio e decretò il mio trasferimento nel convento di Cosenza, ove il provinciale avrebbe saputo punirmi come io meritava. Nella lettera sigillata che mi diede da consegnare al reverendo frate scrisse, all’insaputa di tutti, anche di me stesso, il mio delitto, ossia qualità e competenze, che avrebbero permesso una risistemazione della biblioteca del monastero, che sapea derelitta e trascurata da anni.
Potete ben immaginare la mia meraviglia quando l’abate, padre Venanzio, letta la missiva di padre Agostino, mi accolse con molta riverenza, mi interrogò su di ogne argomento e riempì di lodi per la giovane età e le conoscenze che gli dimostrava. Mi costituì, seduta stante, vacante il posto, bibliotecario, questa fu la mia punizione!
Non resistetti un attimo. Appena il padre finì di parlare gli chiesi il permesso di prender visione del mio nuovo impiego. Mi mise una mano in fronte con un benevole sorriso, come a dire “va a riposare, dovrò prima presentarti agli altri fratelli, domani potrai dedicarti alla biblioteca”.
A vigiliæ v’eran tutti in cappella, monaci e monacelli, vecchi e giovani, pure i malati furon trasportati, e anche una rappresentanza dei famigli. L’abate, con elogi esagerati, mi presentò alla comunità come il nuovo bibliotecario. Un ohh! di meraviglia e un brusio di commenti si sparse tra i banchi e il coro, io piansi pensando come sarebbe stata felice a saperlo mia madre, che non vedea dal montone.
Terminate le orazioni comuni e il cenacolo mattutino, frate Anselmo, il prefetto, mi accompagnò alla biblioteca. Dopo aver liberato il portone dalle sette mandate, che sentii scorrere nelle viscere con maggiore intensità dalla prima all’ultima, mi consegnò le chiavi benedicendomi e mi lasciò solo.
Avea considerato grande la sala di lettura del convento di Acri, questa, a prima vista alla luce del lume, era immensa e ordinata: dodici stanze a destra e a manca di un lungo corridoio, con due o tre enormi candelabri in  ognuna, finestroni di vetro colorato saldati a piombo, coperti da grandi tendaggi, si apriano nelle pareti a ponente sul chiostro, oblò traslucidi in alto scrutavano il cielo di levante; tavoli in mogano con scranni e banchetti, librerie a scansie ineguali in ogne dove e due scale con ruote in basso.
Entrai in una stanza, da vicino la situazione era affatto diversa: tutti i legni tarlati, dalle mensole ai tavoli alle scale; volumi, quaderni, tomi ammucchiati negli scaffali da terra fino al soffitto e sparsi sul pavimento, topolini vi gironzolavano sopra tranquilli, altri, attirati dal chiarore delle candele, mi veniano incontro, millepiedi luccicanti e blatte gigantesche appariano e spariano in un battibaleno. Tirai un tendaggio, miriadi di minuti, raggianti granelli di polvere mi caddero a dosso, e ve n’era dappertutto, una patina spessa copria ogne cosa.
I libri! Frustri, stinti, a scaglie, come le cortecce da cui traggono il nome, sfilacciati, bucati fin nella midolla, sopra e sotto la coperta, il dorso abbarbicato ad ancor tenaci nervature, rilegati in tela o in pelle o sciolti, in brochure o umile cartaccia, guerrieri pareano, rinnegati, vilipesi, ma ancor in decenza, vinti dall’implacabilità del tempo e dalla spietatezza degli uomini, ma non sconfitti.
Quanti ve n’erano? Cinque, seimila in quella sola stanza, al meno centomila in tutto valutai, considerando altre ancor più vaste. Una bella fatica mi aspettava, sprizzava io felicità da tutti i pori.
 Mi dedicai alla loro cura con lena fin da quel primo momento e negli anni ne rivitalizzai gran parte, acquisendo man mano esperienza tecnica, appresa sui manuali che trovava in loco o ideata di sana pianta dal mio senso pratico. Nel contempo leggea, leggea, leggea, e più lo facea più scemava la mia fede. Del Padre Onnipotente perdetti subito credenza e stima, il santo Spirito brutta icona mi apparve dell’ignoranza e del Cristo… del mio Gesù che tanto amai, presto non riconobbi divinità e grossi dubbi ebbi sull’esatta trascrizione delle sue opere. Ciononostante divenni frate con voti solenni, che sempre onorai, e sacerdote ancor pria, per volere dell’abate, di aver compiuto i vent’anni. 
Quanti anni passai da reprobo in quella santa e venerabile comunità? Tanti, tanti, tanti! Lunghe le ore che non passava sui libri. Pian piano smisi di partecipare alle discussioni, che un tempo tanto mi animavano, poi alle funzioni, adducendo prima scuse, poi neanche queste, ma non smisi di dir messa, con dentro cordoglio senza fine. Tenni nascosta sempre la mia empietà, non rivelai a nessuno i miei dubbi, né le certezze che ne seguirono. A parte un gruppuscolo che mi guatava truce, fui benvoluto dai miei fratelli, quando era ciarliero e quando divenni mutozio e introverso. Tanti pensavano fossi ammattito e mi accettavano come tale, il mio compito lo svolsi però sempre egregiamente.
Rimessa in ordine la biblioteca, col consenso dell’abate, ne aprii le porte a tutti, anco a popolani e famigli, consigliava letture o gliele leggea io stesso. Pochi però erano chi v’entrava, e tra questi molti solo per curiosare e guardar figure sui libri, ché analfabeti la maggior parte tra i frati e ancor più nella gente comune. In breve trasformai alcune stanze in aule e vi insegnava, a monaci prima e monacelli, poi a chiumque volesse frequentar le mie lezioni di grammatica letteratura e scienze. Anche su la religione istruia, monaci monacelli e fanciulli esterni, ipocritamente in quella canonica romana (che accogliere ovvero rinnegar la propria ritengo sia per coscienza personale, non per le idee del maestro), ma informava anche su quelle misconosciute, dal credo di Lutero a quelle ancor più astruse del moseico Yahweh, dell’islamico Allah di Muhammad o dell’indiano Buddha e degli Asi norici, senza tralasciare il paganesimo di Egizi Greci e Romani, cui tanto dobbiam di nostra cultura.
Alla soglia dei trent’anni chiesi udienza a padre Agostino. Pria che principiassi il mio difficile dire, ei  mi disse: — Ti aspettava da tanto, caro fratello, or mi confiderai la tua angustia. Nessuno il saprà, stanne certo, confessione sacra sarà e morirà con me.
Sapea leggere nella mente, il venerabile, della mia ne conoscea da tanto il peso, per rispetto attese fossi io a liberarmene.
Gli dissi ogne cosa, fin nelle minuzie, il buon padre non tolse gli occhi dai miei occhi, costringendomi talora ad abbassarli per vergogna, ma lui dal mento me li rialzava, con tenue un sorriso di comprensione.
— Or mi caverete la tonaca da dosso — dissi finalmente.
Si farà quel che tu vuoi. Vuoi questo?
Oh no! Il saio è la mia vita, mai il rinnegai, né la fede nel Povarello d’Assisi persi e sull’angiolo custode, che sento vero e a me di presso in ogne passo.
Dimmi figliolo, allora cosa…
Gradirei, padre buono, andar come frate ramingo ed eremitare ed elemosinare e struggermi per l’altrui bisogno e …
Sia! — opportunamente m’interruppe, ché non eccedessi in vanagloria. — Purché rammendi, figlio, la casa che ti accolse e gli affetti che qui lasci.
Caro padre, come avrei potuto? Più volte ritornai, fui io a chiudere i vostri dolci occhi, rimasti aperti dentro i miei per sempre.

Vagai da allora per il mondo, insegnando pax et bonum, la summa di Francesco, mi preoccupai di poveri e bisognosi per quanto potei e seppi, elemosinai il vitto, eremitai luoghi ameni e nascosti. Da quasi un lustro sono tornato nella mia Rossano, infermo ruderi abito e antri presso il basiliano convento del Patire. Gente blasfema, la quale Pathirionita mi noma, san Nilo dice rincarni, che chiede miracoli e prodigi, che sciocchezza!,  mi sfama, io ridò ben poco.
Or son pronto, vieni a me Sorella Morte. 



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