Mario La Cava


[Con l’intenzione di aprire una galleria di ritratti dei nostri “maggiori” e di comporre una sorta di Biblioteca meridiana, ripubblichiamo un articolo di Giuseppe Muraca dedicato a Mario La Cava. L’operazione di riedizione delle opere dello scrittore calabrese, cui Muraca fa riferimento, è stata purtroppo interrotta – anche a causa della grave malattia che ha colpito il curatore Renato Nisticò -- e non se ne trova più nemmeno traccia nel catalogo on-line di Donzelli. Oltre che un vero peccato, si tratta di un monito a non dimenticare che anche i piccoli segni di rinascita e di speranza hanno bisogno di essere curati nel tempo, altrimenti vanno perduti. Il recupero di questo breve scritto vuole andare in questa direzione (tg)].


di Giuseppe Muraca

Il localismo e il municipalismo sono stati per lungo tempo i tratti caratteristici della cultura (e quindi anche della letteratura) calabrese. Certo, non sono mancati alcuni isolati tentativi di segno contrario, ma in genere chi ha sentito il bisogno di rompere e di evadere è stato costretto all'emigrazione o all'isolamento, e ancora oggi le poche iniziative serie trovano difficoltà a farsi conoscere e ad affermarsi e quasi sempre si è costretti ad operare nella quasi totale indifferenza. Le cause di queste difficoltà sono sì di ordine strutturale, ma dipendono anche dalla mancanza di un'adeguata politica culturale da parte dei vari governi, centrale e periferici, e alla ristrettezza mentale di gran parte della nostra intelligenzjia che si è quasi sempre accontentata di operare nel quadro dell'imperante sottobosco politico-clientelare.
Tra le esperienze letterarie più significative del novecento calabrese è da annoverare sicuramente quella di Mario La Cava. Nato a Bovalino (RC) nel 1908, ha studiato prima medicina a Roma e poi si è laureato in giurisprudenza a Siena, rientrando quasi subito in Calabria dove ha vissuto quasi ininterrottamente. Non ha mai intrapreso l’attività professionale dedicandosi interamente al mestiere di scrittore ed entrando in contatto con alcune delle personalità più rappresentative della cultura italiana contemporanea (Leo Longanesi, Montale, Vittorini, Bonsanti, per ricordare soltanto alcuni nomi). Il periodo della sua maggior fortuna coincise, secondo me, con gli anni cinquanta: infatti nel ‘53 Vittorini fece pubblicare nella collana dei “Gettoni”, da lui curata per l'editore Einaudi, I caratteri, e nel ‘58 Le memorie del vecchio maresciallo. In seguito, lo scrittore calabrese ha intrapreso la via del romanzo intensificando sempre più il suo impegno morale e civile. Con I fatti di Casignana (Torino, Einaudi, 1974) La Cava ha cercato di affrontare in chiave politica e sociale la “questione contadina”, ma si è trattato di una parentesi, di un evento isolato che non avuto alcun seguito. L’ultimo periodo della sua esistenza (è morto nel suo paese natale nel 1988) è stato contrassegnato da una relativa inattività, ma questo non basta a giustificare il totale silenzio in cui è caduta ultimamente la sua opera.


È proprio nel tentativo di rivalutare e valorizzare questo autore ingiustamente sottovalutato e dimenticato che l’editore Donzelli ha avviato la ristampa della sua opera omnia, curata dal giovane studioso catanzarese, Renato Nisticò (autore tra l’altro di un interessantissimo saggio sulla poesia di Vittorio Sereni, Nostalgia di presenze, Lecce, Piero Manni, 1998). Di La Cava, Donzelli ha pubblicato due volumi: La melagrana matura e i Caratteri. Il primo consiste in una raccolta di trentadue brevi racconti, in gran parte inediti, che sono stati ordinati dallo stesso autore in un fascicolo dattiloscritto, dalla rilegatura rudimentale.
A proposito dell'universo narrativo di La Cava, nella sua ottima Introduzione, Nisticò parla giustamente di un “Sud metafisico e primordiale” scrivendo che l'arte “di La Cava è deliberatamente senza tempo, si iscrive con naturalezza, da subito, in un ambito di essenziale classicità che non prende in nessuna cura il contingente [...]. Fra i racconti presentati in questo libro non ce n’è quasi nessuno che possa essere fermato in una data o in un luogo precisi. La magia della prosa di La Cava è questa. Più s’avverte che il tema dei suoi racconti è ricavato da una scrupolosa e minuziosa osservazione dal vero dell’oggetto, più se ne coglie ed apprezza il valore allegorico e universale ottenuto per istantanea sublimazione”. Nell'universo narrativo descritto da La Cava tutto è immerso in un alone di astoricità e le sue creature senza tempo sono fissate sulla pagina in una condizione di rassegnazione, d’inerzia, di accidia, d’indolenza. Nei suoi racconti non si scorge nessun barlume di consapevolezza sociale e politica, nessun segno di protesta, ma solo la compassione e la pietà per il popolo contadino, per questo soggetto “senza storia” perseguitato sempre dalla malasorte e dalla miseria. Niente insomma di paragonabile alle contemporanee opere narrative di Silone, di Carlo Levi, di Scotellaro e di Jovine. Più che con il realismo negativo di un Verga o di un De Roberto o con l’espressionismo problematico di un Tozzi, per rimanere nei nomi fatti da Nisticò, credo che la sua prosa abbia maggiori consonanze con la ricerca di un Cardarelli, del primo Quasimodo, del primo Alvaro e dei maestri della prosa d'arte degli anni venti e trenta (il tempo della sua formazione). Con questo non intendo sminuire il valore della sua opera, bensì inquadrarla nelle giuste coordinate storico-culturali. Nel suo italiano scarse sono le inflessioni dialettali: è la lingua della piccola borghesia colta meridionale che si richiama, appunto, alla purezza dei modelli classici ancora avvertiti come propri in quelle aree geografiche e culturali dell’estremo mezzogiorno. Però la sua scrittura non ha nulla di artificioso ma tende spontaneamente al lirismo, all’essenzialità, alla secchezza. Il suo raccontare procede più per condensazione che per dilatazione: ecco perché egli riesce a dare i risultati più convincenti e più singolari nella misura breve del racconto e dell’epigramma.

E per trovarne una conferma basta leggere i Caratteri, che è da considerare il capolavoro di La Cava. Quest’opera ha avuto una lunga gestazione e nella sua edizione definitiva si presenta come una silloge di 335 brevissime ma dense illuminazioni, una galleria di singolari ritratti appartenenti più al mondo del borgo che a quello contadino, in senso stretto. La maggior parte dei testi è composta di poche righe o tutt’al più di una sola pagina. Qui il punto di vista è quello del moralista che, da un’osservazione attenta e minuziosa della realtà sociale e antropologica del suo mondo paesano, cerca di fissare una serie di tipi umani per mettere in risalto i vizi e le virtù di quella determinata società, afflitta da piaghe secolari: arretratezza, miseria, tabù. È sicuramente un’opera innovativa, molto omogenea e unitaria, un’opera-mosaico che nasce da una particolare disposizione dello scrittore di Bovalino di descrivere e di rappresentare l’universo della nostra provincia, alla maniera appunto dei moralisti classici. Ed egli quasi si traveste da scienziato sociale, da antropologo per offrirci un affresco in chiaroscuro della società calabrese del suo tempo: artigiani, coloni, borghesucci, intellettuali, giornalistucoli, legulei, ecc., sono passati attraverso la lente di questo attento osservatore, ora distaccato, ora cinico, ora ironico. Da queste pagine emerge infatti una condanna senza appello della “classe media” calabrese, colpita nelle sue finzioni, nella sua ipocrisia e nella sua vanità.



La bibliografia di Mario La Cava su Wikipedia.



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