Contro l’oblio che colpisce i semplici. In memoria di Aurelia e Peppinu

di Tommaso Greco



Il 31 ottobre del 1992, a Caloveto, fu una giornata che nessuno di quelli che c’erano potrà mai più dimenticare. Arrivarono carabinieri da tutta la Calabria: armati, con le macchine, le jeep e persino gli elicotteri, arrivarono uomini in divisa, compresi quelli dei reparti speciali, dai più bassi in grado fino ai comandi più alti della Regione. Scene mai viste, se non nei film che si guardavano in televisione. Caloveto è (ancora oggi) un paese dove succedono solo cose ‘normali’, mentre quella volta, addirittura, finimmo sulle pagine dei giornali nazionali. Era successo un fatto inaudito, di cui — insieme alle tombe di chi ci rimase ammazzato — resta ancora la fredda testimonianza dei numerosi colpi di proiettile stampati su una porta di ferro di un’isolata casa di campagna.
Era successo questo: due calovetesi — Dante Licciardi, di 49 anni, conosciuto da tutti come Peppinu, e sua madre, Aurelia Comite, di anni 81 — erano stati uccisi dagli uomini del Comando dei Carabinieri di Mirto Crosia, intervenuti per sedare una lite familiare, dopo che — stando alla ricostruzione ufficiale, accolta anche nella sentenza del Tribunale di Rossano, ma ritenuta ‘debole’ da molti di coloro che hanno un po’ approfondito la conoscenza dei fatti  — nella colluttazione con Peppinu era rimasto ucciso il Brigadiere Antonio Rubino, di 31 anni, originario di Marsala in Sicilia, comandante della stazione dei carabinieri che aveva risposto alla richiesta d’intervento.
Pochi giorni fa — a venticinque anni da quel fatto sanguinoso — una commemorazione ufficiale ha ricordato, nel comune di Crosia, il sacrificio di Rubino, cui era stata concessa già nel 1992 una Medaglia d’Oro al Valor Civile, con la seguente motivazione: «Incurante della propria incolumità, non esitava ad affrontare un folle armato di ascia, ingaggiando una violenta colluttazione da cui desisteva soltanto quando, colpito a morte, si accasciava esanime al suolo. Nobile esempio di elette virtù civiche ed altissimo senso del dovere, spinti sino all’estremo sacrificio. Caloveto (Cosenza), 31 ottobre 1992».
Alla commemorazione hanno partecipato, oltre al Sindaco di Crosia, anche numerosi cittadini, nonché una rappresentanza (un assessore, di identità non precisata dalle cronache) del comune di Caloveto.
Giusto, naturalmente, ricordare il sacrificio di un uomo dello Stato, che ha perso la sua giovanissima vita nello svolgimento dei propri compiti e nell’adempimento dei propri doveri. Meno giusto, forse — quando ormai la vicenda si è chiusa definitivamente, anche nei suoi esiti giudiziari, ma continuano a persistere dubbi e domande su come realmente i fatti si siano svolti quel giorno — continuare a perpetuare la memoria di Peppinu come di «un folle armato di ascia», accomunando per giunta questa terribile identificazione postuma con la damnatio memoriae che ha colpito la povera e incolpevole Aurelia.
Per chi può ricordarlo — anche se sembrano le solite parole di circostanza, di quelle che si ripetono stancamente —, Peppinu era davvero uno che in paese non dava fastidio a nessuno. Andava prestissimo in campagna, in sella alla sua motocicletta (non saprei dire ora se si trattasse di una vespa o di una lambretta), e tornava all’imbrunire per chiudersi in casa, insieme a sua madre, senza mai uscire per le vie del paese. Passavo spessissimo davanti a casa sua, attaccata a quella di un mio carissimo amico cui spesso facevo visita, e non ricordo di averlo mai incontrato sull’uscio. C’era stato nel suo passato un episodio violento, che lo aveva portato ad un ricovero e lo aveva ‘condannato’ per sempre: da quel momento in poi, Dante Licciardi, detto Peppino, era diventato per tutti Peppinu ‘u pazzu, guadagnandosi un  marchio che evidentemente non riuscì più a togliersi di dosso, una condanna che continua a sopravvivere oltre la sua morte. Di sua madre, Aurelia, non posso dire nulla, se non questo: era una donna anziana — come può essere una donna calabrese che ha lavorato duramente sin da bambina nei campi e sotto l’acqua — e la vedevo in paese di tanto in tanto. Salutandola avevi l’impressione di una persona che aveva trovato il modo giusto per affrontare le durezze della vita e soprattutto per convivere con un figlio ‘difficile’: era una persona mite, anche fisicamente per via del corpo minuto, e non aveva nulla che facesse sospettare forza, se non forza d’animo. Il fatto che anche lei sia rimasta uccisa in quel tragico scontro rimane una cosa — ancor prima che ingiusta — soprattutto incomprensibile: non solo perché le spiegazioni che sono state date risultano, ancora oggi, poco convincenti; ma perché davvero è una cosa che non si riesce ad accettare e a capire fino in fondo.
Ad ogni modo, questi venticinque anni sono passati anche per loro: Peppinu e Aurelia se ne stanno silenziosi e in disparte — persino la loro tomba è appartata, nel piccolo cimitero di Caloveto — e mi piace ricordare (anche a chi partecipa alle manifestazioni ufficiali) che anche loro morirono, non si sa ancora quanto (im)meritatamente, in quel tragico giorno di fine ottobre.
Il destino dei ‘semplici’ è questo, purtroppo: di rimanere senza voce, tanto più se nel frattempo essi sono morti, e ancora di più se sono morti ‘dalla parte sbagliata’. Ma a volte, mettersi a cercare la loro voce perduta, può ricordare ai vivi che la via della giustizia, che essi non hanno conosciuto in una vita che fu di stenti e precipizi, può passare anche da un piccolo esercizio di memoria. Un esercizio che può servire a rendere migliori le comunità nelle quali viviamo, nella misura in cui ci abitua a vedere, non solo le cose che hanno la forza di mostrarsi, ma anche le cose (e le persone) che invece questa forza non ce l’hanno e che, proprio per questo, finiscono per nascondersi, rassegnandosi al loro destino. Invece, è proprio negli angoli bui dove i semplici si rintanano che possiamo trovare uno spiraglio di luce che ci aiuti a capire meglio i difetti che dobbiamo correggere.

Se non altro per questo motivo, a distanza di 25 anni, insieme al nome dell’eroe Antonio Rubino, era giusto ricordare anche i nomi di Dante Licciardi, detto Peppinu, e di sua madre Aurelia Salatino. È quello che ho cercato di fare in queste righe, ricordando che anch’essi sono state vittime, schiacciati da una di quelle tragedie in cui tutti rimaniamo impigliati, anche chi si illude di fare soltanto da spettatore. Gettare uno sguardo di pietà su tutti coloro che ne sono stati protagonisti è forse l’unico modo giusto per fare i conti con ciò che è successo.

Commenti

  1. "[...] anch’essi sono state vittime, schiacciati da una di quelle tragedie in cui tutti rimaniamo impigliati, anche chi si illude di fare soltanto da spettatore."

    Rileggere oggi questo pezzo, caro Tommaso, è dirti che il tuo sguardo è profetico ed è ammirare il fatto che tu hai sempre saputo da che parte stare.

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