Nei luoghi di Danilo Dolci (e del meridione sognato)
di Francesco Donnici
Il
viaggio alla scoperta dei luoghi siciliani di Danilo Dolci è una storia di
resilienza, di disobbedienza, di speranza, di sogno.
“E’ importante arrivare non ad una
unità imposta al mondo, ma ad una unità come armonizzazione delle culture
locali. Qualcuno potrebbe domandare -- come domanda -- in una zona dove ci sono
molti analfabeti che tipo di cultura locale si potrebbe sviluppare? Che
contributo può arrivare? Ecco, vi racconto una storia”:
Incontro zu’ Ambrogio, pare stanco.
"Come stai?" gli domando.
"…Bene". "E tua moglie?" (anziana, so come
talora stenta).
"Mia moglie è una regina".
E vedendo i miei occhi non certo dubbiosi ma attenti, racconta.
"Tre sere fa sono uscito a
pescare. Tutta la notte. Molto pesce c’era. Tutto il giorno ho continuato.
Arrivata la sera ho portato al porticciolo il carico e sono subito tornato al
mare, per non perdere l’occasione: ancora la notte, e tutto il giorno dopo.
Aprendo la porta di casa, ormai
erano le due dopo mezzanotte, vedo mia moglie seduta vicino al camino. Piange.
“Perché piangi?” -- le dico -- “è due giorni che lavori senza mangiare”. Ho
capito che non mangiava da due giorni, per aspettarmi.
Lei è una regina, e io l’ho trattata
da regina. Senza dire niente, le ho asciugato una lacrima con le dita ancora
acquasalate, sono uscito, sceso allo scalo ho preso i due pesci più belli tra
quanti avevo trovato nella rete e, tornato, li ho preparati e arrostiti sulla
griglia. Abbiamo fatto una bella festa".
Pensando a quanto mi aveva detto,
dentro di me mi dicevo: se questa non è
cultura, io non so che cos’è cultura; se questa non è poesia, io non so che cos’è poesia” [1]
Più si va verso Sud, più il viaggio in
pulman si fa interminabile, soprattutto una volta approdati nel palermitano per
via della celebre “piaga” ricordata dallo “Zio Avvocato” ad un non poco
perplesso Roberto Benigni.
La destinazione è Trappeto, paesino di poco più di 3.000 abitanti situato sul Golfo
di Castellammare -- a circa 45 Km proprio da Palermo -- le cui spiagge e
vegetazione, costellate di innumerevoli ulivi e fichi d'india, mi fanno subito
sentire a casa.
Ci accamperemo a Borgo di Dio, luogo figlio del progetto
realizzato grazie ad una serie di realtà associative della zona con la partecipazione
del Centro per lo Sviluppo Creativo
“Danilo Dolci”, laddove, decenni prima, quel ragazzo arrivato da lontano e
dal cuore ramingo, con le sue attività animava le coscienze e le conoscenze
della gente.
Al riflesso arancio della
prima alba illuminante la quiete del paesino ancora dormiente, ho forse capito
il significato di quel nome. Ma ancora più calzante, per quella denominazione,
mi è sembrato il senso stesso di un luogo che non è di nessuno, ma al contempo
di tutti: il mistero di sentirsi a casa pur avendo messo per la prima volta
piede su quel fogliame secco, ha rappresentato, per me, il significato
dell’incessante ricerca di ciò che trascende l’umano.
Malgrado la stanchezza partiamo alla
ricerca della strada che porta verso il mare e passando dal paese non mancano
gli sguardi straniti degli abitanti del luogo che, seduti davanti all'uscio di
casa, si chiedono “a chi appartengano
tutti ‘sti forestieri”.
“Siamo venuti per visitare i luoghi ed
ascoltare la storia di Danilo Dolci”, dico ad una Signora. Subito lei mi indica
le illuminazioni sulla facciata della Chiesa del paese e risponde: “se foste
venuti settimana prossima, avreste trovato la festa di Padre Pio e vi sareste
divertiti!”.
Prima che arrivasse Danilo, qui a
Trappeto non c'era niente.
Sento dire più volte, e rifletto sul tema
del nostro viaggio, come prima di noi quello di Danilo Dolci che nel 1952 aveva deciso di partire alla riscoperta
di quei luoghi, di quelle storie e delle sue origini. Un viaggio che aveva una
meta specifica ed identificata, nel cuore di una Sicilia che invero già
esisteva, ma che forse non conosceva se stessa.
“La
conoscenza è la via maestra del cambiamento”,
il senso sta tutto qui: nella necessità di una conoscenza empirica di luoghi
alla perenne ricerca di loro stessi e del loro diritto di esistere. L'approdo
di Danilo Dolci in Sicilia non fu una missione di creazione, ma di scoperta
culturale ed identitaria; di arricchimento di un patrimonio dal valore innato: “se l'occhio non si esercita, non vede; se
la pelle non tocca, non sa; se l’uomo non immagina, si spegne”.
Alla fine della via si dovrebbe
finalmente arrivare alla spiaggia. Il problema è che per strada non ci sono
indicazioni. Ogni abitante, gentilmente, ci fornisce la sua personale versione
di “percorso migliore”, e ci perdiamo.
Peccato aver conosciuto Orazio solo qualche ora prima di
partire. Lui dice di essere un amico di Danilo, di fianco a lui nelle mille
battaglie contro “lo Stato colpevole”,
ovvero quello -- riprendendo le parole di Norberto
Bobbio a commento di una delle prime opere siciliane di Danilo Dolci --
“capace di trattare una questione sociale come fosse una questione criminale”[2].
Dice inoltre di aver curato lui la
toponomastica del paese, ma non si sofferma tanto sulle (mancanti) indicazioni
per la spiaggia, quanto più ci invita a cercare una via dedicata a Garibaldi,
“anche se non la troverete”. “C’è chi, come Danilo, osservava questi luoghi e
si rendeva conto di quanto si potesse fare e di quanto ci fosse bisogno di
donare; e c’è stato chi, come altri, è venuto qui acclamato da eroe ed ha fatto
scempio di questi luoghi depauperandoli della loro ricchezza ed identità”.
Finalmente raggiungiamo la spiaggia.
Qualche chilometro più distante, sempre su quella costa, a San Cataldo, nel 1956
Danilo Dolci, insieme ad un migliaio di persone tra le quali anche lo stesso
Orazio, aveva dato vita ad un digiuno di
protesta contro la pesca di frodo: una protesta collettiva, non violenta,
ma “illegale” secondo le autorità.
“Ancora mi ricordo quando arrivarono i
Carabinieri”, dice Orazio ridendo, “ci chiesero cosa stessimo facendo”. “Stiamo
digiunando, rispose Danilo, e loro ingiunsero che non potevamo farlo senza
autorizzazione”.
Subito dopo parliamo dello sciopero alla rovescia: “se un operaio,
per ottenere i propri diritti, sciopera astenendosi dal lavoro, un disoccupato
può fare lo stesso lavorando”. Centinaia di persone disoccupate, senza alcuna
tutela, si mobilitarono per ricostruire la vecchia strada comunale di “Trazzera
Vecchia” tra Trappeto ed il vicino comune di Partinico. “Il lavoro non è solo un diritto, ma per l’articolo 4 della
Costituzione, un dovere”. Suonano
lontane ed al contempo vicine queste parole, questi gesti di disobbedienza
civile e quello che ne conseguì.
“L’obbedienza
non è sempre una virtù; non è l’unico modo di amare la legge, ma è anche
cercare di cambiarla se non tutela i più deboli”.
Tornano forti alla memoria le parole di Don Lorenzo Milani che sento
pronunciare in questi giorni.
La nostra cieca obbedienza, o addirittura
assuefazione ad un tessuto sociale dai ritmi forsennati, ci porta a dimenticare
le nostre stesse radici che a poco a poco marciscono e scompaiono perché non
permettiamo loro di stare al nostro passo.
La capacità di Danilo Dolci fu quella di
comprendere che quei luoghi -- i nostri luoghi -- per vivere avevano bisogno di
essere animati anche dalla voce della disobbedienza civile; che bisogna porsi
dalla parte dei più deboli perché la legalità non si esaurisca in una “legge
uguale per tutti”, ma vesta l’abito dell’uguaglianza sostanziale per la quale
tutti sono uguali di fronte alla legge, ciascuno coi propri diritti e doveri.
Il Gandhi
della Sicilia, (appellativo riconosciuto qualche tempo prima anche ad Aldo Capitini) chiamato così per aver
attuato una disobbedienza civile rivolta a difendere valori e diritti
essenziali, il 2 febbraio ‘56 viene
arrestato.
Quanto dissonante appare
quell’appellativo mutuato dal maestro della non violenza, leggendo la
requisitoria del Pubblico Ministero che lo rinviò a giudizio descrivendolo come
una “persona dalla spiccata capacità a delinquere”.
Dove sta la ragione, dove, la giustizia?
Giancarlo
Caselli, ci racconta il processo a Danilo Dolci ed a tutte quelle “Antigoni” che si posero
contro la legge degli uomini per affermare un diritto superiore, non fu un
processo: “o
almeno non è quello che i profani si immaginano, quando parlano di un processo
penale. Nel processo penale il pubblico concentra i suoi sguardi sul banco
degli imputati, perché crede di vedere in quell'uomo, anche se innocente, il
reo, l'autore del delitto: l'uomo che ha ripudiato la società, che è una
minaccia per la convivenza sociale.
L'imputato è solo,
inconfondibile, diverso agli occhi del pubblico da tutti gli altri uomini
isolato dentro la sua gabbia e, anche quando la gabbia non c'è, isolato dentro
la sua colpa.Ma questo non è un processo penale: dov'è il reo, il delinquente,
il criminale? Dov'è il delitto, in che consiste il delitto, chi lo ha
commesso?”
Le parole della celebre arringa difensiva di Piero Calamandrei, connotate all’opera
di Danilo Dolci, sono solchi nella nostra coscienza e fonte di vita in una
terra altrimenti arida.
Danilo Dolci ha dato voce alle esigenze del Sud, portando
qualcosa che oggi forse manca perché in parte dimenticato o subissato: la
capacità di autorigenerarsi partendo soprattutto dalle difficoltà; ha portato
in quei territori la voce della resilienza e della protesta che abbattono il
“lamento” caratterizzante spesso le nostre zone e che ci proietta verso un
perpetuo ed ineluttabile oblio.
“Si sta compiendo un
delitto di enorme gravità. Si sta lasciando spegnere una popolazione” diceva in radio dopo il terremoto del Belice del 1968
per sottolineare l’importanza di un supporto, quello dello Stato, spesso
mancato nelle difficoltà.
Osservo lo scorrere del fiume Jato fino ad infrangersi su quella diga arrivata dopo prolungate proteste rivolte a squarciare il
tenue, eppur soffocante velo degli interessi sommersi che ancora oggi
inibiscono la crescita delle nostre zone, come già nel 1973 ricordava l’amico Franco Alasia: “Nell’ambito
del lavoro per la demolizione delle vecchie strutture clientelari-mafiose,
conservatrici e parassitarie, va vista la campagna antimafia del Centro studi e
Iniziative: la precisa ed approfondita inchiesta sui rapporti mafia-politica
nella Sicilia occidentale, se da una parte ha avuto una fondamentale funzione
educativa in quanto ha favorito e sollecitato la presa di coscienza e
l’assunzione di responsabilità nelle gente locale, ha permesso il pubblico
dibattito sul come si costituisce il potere politico in questa zona mettendo a nudo
situazioni malsane e pericolose, e ha determinato il crollo politico di un
Ministro e di due Sottosegretari collusi con la mafia delinquenziale locale.”
Una
delle ultime suggestioni del Centro Studi è il vecchio auditorium. Ormai
fatiscente ha ancora un non so che di vivo. Sarà forse per questo che Cielo, il maggiore tra i figli di
Danilo, ce lo mostra mettendocelo a disposizione, augurandosi una rinascita di
quel luogo che ha ancora tanto da raccontare. Su tutta una parete c’è un
murales che rappresenta la storia politica della sicilia. Un’immagine
facilmente riconoscibile campeggia al centro, ma quella che mi colpisce
particolarmente, è la rappresentazione della morte di Piersanti Mattarella.
Quello
stesso giorno, al mattino, Leoluca
Orlando aveva raccontato di un comizio tenuto da Mattarella a Cinisi
all’indomani della morte di Peppino Impastato. “Salito sul palco, i compagni di
Peppino diedero voce al coro 'Mattarella Assassino!'. Scendendo dal
palco, Piersanti mi guarda e dice: hanno ragione. Ma loro non sanno che io farò
la stessa fine di Peppino perché lui si è messo contro la sua famiglia, io
contro il mio Partito.”
Mi
tocca molto questa storia, ancora una volta una storia di disobbedienza e di
virtù. Ancora una volta gravi conseguenze che non erano altro che il prezzo di
silenzi imposti, per paura o per ignavia, a tutta una terra. La riflessione,
ascoltando queste storie, guardando alle nostre vite, pensando lo stato dei
nostri luoghi o i luoghi dello Stato, è se ci stiamo impegnando davvero, ma la
risposta è negativa.
E
come il rintocco dell’orologio che speri sempre possa fermarsi, ancora una
volta, siamo prossimi alla partenza. Ricchi di un’esperienza che ci rimarrà
dentro per sempre, ma che, passo dopo passo, maturerà in noi affinché possa germogliare
in qualcosa di concreto. “Non è impossibile”, dice Amico, un altro dei figli di Danilo (che continua la sua opera al
Centro Studi) “ma bisogna iniziare a farlo insieme”, attraverso quell’opera
maieutica di coinvolgimento di tutte le parti e gli attori sociali della quale
Danilo Dolci aveva fatto la sua “arma” più potente. Un’arma pericolosa per
quelli che vedono in quelle zone ed in quei borghi la contraddizione del
progresso mirando ad estirparli da una società che tende a fagocitare il più
debole anziché tendergli la mano.
“Ciascuno cresce solo se sognato”, ricorda
Amico, “poiché non possiamo esistere se non apparteniamo ai sogni di nessuno”.
Un po’ come quella terra, come quel meridione sognato da Danilo Dolci decenni
or sono e che in quel sogno, ancora oggi, continua a vivere ed esistere.
[1] estratto dal documentario “Dio delle zecche. Storia di Danilo Dolci in
Sicilia” ispirato all’omonimo libro di Danilo Dolci, edito da Mondadori nel
1976.
[2] da D.DOLCI, Banditi a
Partinico, Sellerio Editore, Palermo, 1956. Dalla prefazione di N.BOBBIO.
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