Per aiutare Flavio Stasi, ognuno riscopra i propri doveri
La vittoria di Flavio Stasi nel ballottaggio dello scorso 9 giugno è un evento storico che va ben al di là del fatto che si è trattato delle prime elezioni del Comune unico di Corigliano-Rossano. E' un fatto storico perché ci dice che la Calabria -- persino la Calabria -- è pronta per darsi finalmente una classe dirigente nuova, che sia all'altezza delle difficoltà che essa deve affrontare. Una classe dirigente che si è formata nelle lotte sul territorio, coinvolgendo i cittadini in un percorso di crescita e consapevolezza; che non ha le mani legate dalle clientele e che -- ed è forse la cosa più importante -- non acquisisce il consenso attraverso quegli strumenti (promesse, minacce grandi e piccole, ricatti di vario genere) che, da sempre, tengono bloccate le energie delle nostre comunità invece di liberarle. E' una novità enorme, una occasione che non possiamo permetterci di non cogliere.
Per quanto un gruppo dirigente possa fare miracoli, se porta lo spirito giusto nell'amministrazione e nella gestione del territorio, sarebbe sbagliato pensare che Flavio Stasi e la sua squadra debbano fare tutto da soli. Anzi, il loro lavoro sarà davvero efficace e fruttuoso se i cittadini saranno in grado di incarnare il nuovo spirito, facendo per intero la loro parte. Tanto più in questa occasione, quando la vittoria di Stasi è in realtà la vittoria dei molti di cui lui ha saputo essere il leader.
L'articolo che ripubblico qui sotto -- uscito sul Quotidiano della Calabria l'11 ottobre del 2011 -- insiste su questa ferma convinzione: non c'è possibilità di crescita e di riscatto, per la Calabria in particolare, se non riscopriamo i nostri doveri. E' questa l'unica via per arrivare finalmente a godere di quei diritti la cui mancanza lamentiamo ogni giorno.
(tg)
Perché
parlare di doveri in una terra in cui, più che altrove, si avverte una tragica
mancanza di diritti? Non diciamo continuamente che soprattutto in Calabria non
c’è alcuna garanzia di alcuni diritti fondamentali come quelli al lavoro e alla
salute? Personalmente, credo che la ragione principale di questa mancanza stia
soprattutto nel fatto che ci si è dimenticati dei doveri.
È abbastanza facile
dimostrare con un esempio come sia il generale disprezzo per i doveri a fare in
modo che certi diritti esistano per i calabresi solo sulla carta. Se la
Calabria è la regione con il maggior tasso di “emigrazione sanitaria” (si va
nelle altre regioni per essere curati, spessissimo da medici calabresi che
lavorano al Nord) è certamente perché molti dentro gli ospedali non fanno il loro
dovere (o non lo fanno in modo adeguato). Ma sarebbe miope pensare solo in
termini così ristretti. I doveri violati da qualcuno dentro un ospedale sono
frutto di una lunga serie di altri doveri che sono stati violanti
precedentemente. Se qualcosa non funziona è perché spesso sono le condizioni in
cui dovrebbe funzionare ad essere deficitarie. Quanto è lunga la catena di
(piccoli e grandi) doveri violati che conduce poi a risultati inaccettabili?
Quel che bisogna capire è che se vogliamo che certi diritti siano garantiti
dobbiamo assumere un atteggiamento diverso nei confronti di tutta la realtà
nella quale viviamo e operiamo. La violazione di un diritto specifico ha spesso
la sua origine lontana nella dimenticanza (e violazione) di un dovere, che
magari non ha a che fare specificamente con quel diritto ma contribuisce a mantenere
in vita un sistema in cui la violazione in questione diviene facile e
‘naturale’.
Il bisogno di
vedersi garantiti i diritti è già un buon motivo per riprendere il discorso sui
doveri; non è però sufficiente a promuovere quella ‘rieducazione’ ai doveri che
appare così necessaria. Tale ‘rieducazione’ può essere prodotta soltanto dalla
piena consapevolezza di cosa sia in gioco nella proposta di una ripresa dei
doveri.
Quando
parliamo di diritti e doveri per prima cosa ci viene in mente l’osservazione
che non ci sono diritti senza doveri: ai miei diritti corrispondono i doveri di
altri, ai diritti di altri corrispondono i miei doveri. A questa considerazione
giuridica bisogna però affiancarne un’altra: ai miei diritti non corrispondono
solo i doveri degli altri, ma anche il mio dovere di essere degno titolare di
quel diritto. Se ho diritto di prendere la parola ho innanzi tutto il dovere di
dire cose sensate. Se ho diritto alla libertà d’insegnamento, ho il dovere di
esercitare questo diritto nel migliore dei modi.
Tutto ciò va sempre
ricordato, soprattutto in una società che ha preso l’abitudine di considerare
tutte le relazioni esclusivamente sotto la lente dei diritti. Ma ciò che va assolutamente
recuperato è il valore antropologico dei doveri, perché è su questo
piano che i doveri possono darci qualcosa che i diritti non garantiscono.
A differenza
di quanto viene ripetuto (anche da “buoni Maestri” come Norberto Bobbio e,
recentemente, Gherardo Colombo), non è affatto vero che i doveri sono
esclusivamente strumento di una società ‘verticale’ e gerarchica. Lo sforzo
principale al quale siamo chiamati è di ruotare il nostro sguardo in modo da
renderci conto che i doveri con i quali abbiamo a che fare quotidianamente sono
doveri ‘orizzontali’, doveri che nascono dalle relazioni nelle quali la nostra
vita si compie e si realizza. È questo il segno inconfondibile dei doveri,
quello che dobbiamo cercare di recuperare. I doveri realizzano un movimento di apertura
all’altro e sono perciò un modo insostituibile per stabilire e mantenere in
vita le nostre relazioni.
Sono i diritti
più che i doveri a correre lungo la linea verticale della coercizione
giuridica, ed è proprio per questo che a volte sono tanto necessari. Quando
pretendo il rispetto di un diritto mi appello alla mediazione di chi può
intervenire a mio favore (il giudice, il poliziotto, il superiore, ecc.).
Anziché favorire un collegamento, piuttosto lo interrompo, invocando l’azione
rassicuratrice e riparatrice dello Stato (o del soggetto che deve garantire il
mio diritto). Quando invece avverto di dover compiere un gesto, quando “leggo”
nella situazione in cui mi trovo che sono chiamato a compiere un dovere, allora
realizzo un movimento che non è di ritrazione ma di proiezione verso
chi mi sta di fronte.
Due
considerazioni vorrei trarre da questa ritrovata orizzontalità dei doveri.
La
prima: l’apertura che i doveri realizzano implica un prendersi cura delle
persone e delle cose.
“Prendersi
cura” vuol dire andare al di là dei nostri stretti doveri giuridici, con tutto
l’impegno (in più) che questo comporta. L’oggetto più dimenticato delle nostre
cure (e dei nostri doveri) è senza dubbio costituito dai luoghi nei quali
viviamo. Troppo spesso ci siamo dimenticati dell’insegnamento che viene dalle
cose e dagli spazi. Ci è mancata la capacità di custodire quel bene prezioso
che Vito Teti ha chiamato il “senso dei luoghi”. Le nostre città sono più il
regno della bruttezza che della bellezza. Custodire la bellezza è importante
perché essa non è un fatto puramente estetico. Come ha spiegato lo
psicoterapeuta Luigi Zoja, la bellezza ha molto a che fare con la giustizia:
perché si offre a tutti allo stesso modo, e soprattutto perché abitua gli animi
a rifuggire dalla sciatteria e dall’incuria, che sono incunabolo
dell’illegalità. Un luogo curato e accogliente è qualcosa che ci parla e ci lega
agli altri; impedisce di sentire gli altri come ostili. La bellezza ci fa
sentire sicuri.
La seconda
considerazione non è meno importante. Se generalmente compiere un dovere è tendere
la mano all’altro, ci sono situazioni in cui vuol dire piuttosto sfidare
l’altro: il che avviene (dovrebbe avvenire) quando l’altro è il prepotente,
il privilegiato che non ha titolo, colui che non compie il proprio dovere. Non
credo sia difficile immaginare molte situazioni reali in cui saremmo chiamati a
comportarci così.
Sentiremo la
necessità -- e ritroveremo anche il coraggio -– di sfidare la prepotenza se ritroveremo
un ideale che abbiamo abbandonato e di cui occorre riappropriarsi. Parlo dell’onore.
Abbiamo permesso che questa parola venisse usurpata da uomini del disonore, i
cui codici sono fatti rispettare con la morte e la violenza, nonché da tanti
soggetti che non meriterebbero affatto di vedersi trattati con rispetto.
L’onore e il
rispetto sono una moneta preziosa che tutti abbiamo in mano e che non è possibile
tenere nascosta. Per la logica delle relazioni sociali, dev’essere per forza
scambiata con gli altri. Bisogna allora fare attenzione alle persone con le
quali scambiamo le nostre monete: se offriremo stima e riconoscimento a coloro
che agiscono per il bene comune, rafforzeremo il bene comune stesso e la nostra
moneta ne uscirà col valore aumentato; se invece cederemo questa moneta a chi
ne farà uso distorto, agendo esclusivamente nel suo interesse, la nostra moneta
non varrà più nulla e ciò che ci tornerà indietro sarà il disprezzo e la
violazione di ogni nostro diritto.
Ritrovare
l’onore è forse oggi il nostro dovere principale. Se riusciremo a non sprecare
la moneta preziosa che abbiamo in mano forse riusciremo a instaurare quel
circolo virtuoso da cui può cominciare la rinascita della Calabria.
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