Don Mimmo ai "Gliastriti". Ovvero: chiesa e comunità in un paese della Calabria jonica


 di Tommaso Greco

Da ieri circola su Facebook la foto che vedete in cima a questo articolo. Ritrae don Mimmo Strafaci che dice messa, nel giorno della Domenica delle Palme, in un luogo chiamato Gliastriti (la pronuncia purtroppo non è riproducibile). Il senso della foto è stato còlto perfettamente dall’amico Umberto Mazza, che l’ha postata sulla pagina del Laboratorio:

“L' immagine di Don Mimmo che dice la messa agli unici uditori che si possono permettere di circolare liberamente in questo periodo, richiama alla mente San Francesco, ma potrebbe andare bene anche Sant'Antonio Abate: Cropalati [di cui Sant’Antonio è protettore] è 'nguacciu [di fronte].
I Gliastriti sono un luogo ameno, caro alla mia fanciullezza. Ricordo ancora il fruscio lento del vallone di Mèrula; gli oleandri fioriti; il profumo di zagara “e ru jardinu e Vampa”; le querce maestose a Culomini ed infine il padrone incontrastato di quel luogo: Triontu!

Non so se Umberto ricorda che don Mimmo è stato ordinato sacerdote proprio il 4 ottobre, ed è quindi nel giorno di San Francesco che celebra il suo ‘compleanno’. Ne approfitto dunque per spendere due parole per dire a chi non lo conosce chi è don Mimmo Strafaci e cosa ha rappresentato per noi calovetesi. Può essere un modo per fare qualche riflessione più generale sui paesi e sul ruolo che la Chiesa vi svolge: il che potrà spingere qualcuno, ne sono ben consapevole, a prendere questo ‘omaggio’ come un rimpianto della Chiesa del passato (almeno in Calabria), o addirittura come una ‘critica’ rivolta ad altri sacerdoti. Per quanto mi riguarda, mi limito a riportare un’esperienza. Altri ne traggano le conclusioni che credono.
Don Mimmo Strafaci è stato ordinato sacerdote il 4 ottobre 1975 ed è giunto a Caloveto come parroco il 6 maggio del 1976. Molti della mia generazione e di quelle immediatamente successive sono letteralmente cresciute con lui. Perché don Mimmo è uno di quei preti che non ti lasciano in pace o indifferente: non credo ci fosse un solo ragazzo, a quei tempi, che non gli ronzasse intorno. Il modo per coinvolgerci era, per così dire, ‘plurale’: non c’era solo il catechismo; anzi, il catechismo era quasi un diversivo rispetto alle attività nelle quali ci coinvolgeva quotidianamente. Ci faceva giocare e lavorare, ci faceva pregare e ci portava nei luoghi della spiritualità, ci insegnava a suonare le campane e a fare i chierichetti, ci portava in giro in mille posti diversi, si andava spesso a mangiare in compagnia. Quante volte mia madre gli gridava, per le scale, che stavo più con lui che in famiglia (e aggiungeva di stare attento quando guidava, perché sapeva che era — ed è — un po’ spericolato).
Una cosa che don Mimmo ci ripeteva spesso, e ripete tutt’ora — perché nonostante la pensione rimane il don Mimmo di sempre — è che lui «fa il prete per hobby»: un modo per sottolineare che non è un ‘impiegato’ come altri, e che fa il suo dovere con passione totale. Questo “fare il prete per hobby” gli consente perciò di fare tutto ciò che il prete-impiegato non fa: ad esempio, vestire i panni del muratore e mettersi, come prima cosa appena arrivato in una parrocchia, a sistemare la chiesa, per rifare gli intonaci, i pavimenti, il tetto, il campanile; oppure di fare il contadino, facendo fruttare le terre lasciate incolte per decenni e decenni (quando fece fare l’altare nuovo mettendoci la macina di un mulino, fece quindi un gesto dal significato profondo). Attività nelle quali noi ragazzi venivamo sempre coinvolti, prendendoci anche i nostri bravi rimproveri perché con don Mimmo bisogna essere precisi e fare le cose “come vanno fatte” — e lui sa sempre come vanno fatte… (tutte queste attività, naturalmente, oggi non sarebbero più possibili, perché come minimo don Mimmo si prenderebbe una denuncia dall’ispettorato del lavoro).
Ma ovviamente non c’era solo il lavoro. Con don Mimmo abbiamo giocato a calcio il sabato pomeriggio, dopo le riunioni dell’AC (e c’era da guardarsi bene le ginocchia perché i suoi interventi erano, come dire, un po’ “rudi”…);  abbiamo imparato a giocare a ping-pong nella saletta dell’Annunziata, che era il vero ritrovo per tutti i giovani del paese; abbiamo ascoltato musica classica e letto qualche libro, che lui metteva a disposizione di tutti; andavamo al mare — molte delle nostre famiglie non avevano la macchina, quindi al mare ci si andava con don Mimmo o non ci si andava —  e la prima cosa che facevamo era pulire la spiaggia per centinaia di metri; solo a quel punto maturavamo il diritto di goderci la sabbia e l’acqua dello Jonio, che fossimo a Mirto, a Calopezzati, o al Faro; abbiamo conosciuto la Sila, dove molti di noi hanno fatto le loro uniche esperienze di “colonia” o di ritiro spirituale. E andavamo anche lontano dal paese, a Bari o a Napoli, dove lui ci portava a turno per farci conoscere il mondo. Con lui abbiamo frequentato i posti ‘importanti’ della Diocesi: a cominciare dalla cattedrale di Rossano e dalla Comunità di Santa Maria delle Grazie, luogo la cui rilevanza è ancora sconosciuta a molti miei conterranei, ma che in quegli anni, grazie a Gianni Novello, aveva fatto del nostro territorio una delle capitali mondiali della cultura ecumenica e pacifista (quando arrivai a Pisa e dicevo che ero di Caloveto, vicino a Rossano, tutti dicevano: “Ah, dove c’è la comunità di Santa Maria delle Grazie!”).
Il segreto di don Mimmo, quello che lo portava ad essere sempre circondato da noi giovani, è molto semplice: e si chiama presenza. Egli è stato un parroco presente, che stava in piazza e si fermava a parlare con la gente; che andava a trovare coloro che necessitavano di una visita (perché malati, perché bisognosi, perché lontani, perché vicini); che sapeva ridere e scherzare; che sapeva mettersi al livello dei suoi parrocchiani, nel senso migliore di questa espressione. Non è uno che ti guarda dall’alto in basso, don Mimmo; e questo si vede e si capisce dalle sue omelie, che sono sempre semplici e profonde allo stesso tempo. Difficile non riuscire a seguire i suoi ragionamenti, che con esempi tratti dal lavoro e dalla vita quotidiana ti introducono ai misteri più profondi della fede e ai concetti più elevati della teologia. Fateci caso: i preti che vi guardano dall’alto sono anche quelli che si perdono in ragionamenti che non hanno né capo né coda, e che non sanno nemmeno loro dove devono condurre. Forse per questo certe omelie sono anche spesso sopra le righe nei toni e nelle parole; cosa che invece non appartiene ai modi di don Mimmo, che piuttosto fa una battuta e rende quel momento più leggero, anziché insopportabilmente pesante.
C’è un’altra cosa che don Mimmo ci ha insegnato, con l’esempio più che con le parole: ed è la fierezza, la dignità, il non piegarsi alle prepotenze. Una qualità che ovviamente lo ha portato più volte a scontrarsi anche con i suoi ‘superiori’, oltre che con molti suoi ‘colleghi’, ma che gli ha permesso ad esempio di affrontare nel modo giusto la sua missione in una parrocchia difficile come quella di Sant’Angelo, a Rossano (dove andò, lasciando Caloveto), nella quale vivono molte persone ‘difficili’ e dalla fedina penale non sempre pulita.
Anche le ragioni che hanno portato a incrinare il rapporto tra don Mimmo e la comunità calovetese ci dicono molto del suo carattere, e sono legate entrambe alla festa del nostro patrono San Giovanni Calybita: nel 1980, propose che le offerte raccolte per fare la festa (che si tiene il 15 gennaio) fossero destinate ai terremotati dell’Irpinia, e poi decise (ma su disposizione del Vescovo) di tenere la festa una sola volta l’anno, anziché due, come si faceva da tempo (si festeggiava anche il 15 maggio, in concomitanza con la fiera che si teneva a Trionto). Entrambe le cose non sono piaciute ai calovetesi, e non perché essi siano poco generosi, ma perché anche a loro — come forse a tutte le comunità paesane — puoi toccare tutto (o quasi) ma non le tradizioni. Ad ogni modo, se don Mimmo andò via da Caloveto il 31 dicembre del 1990, dopo 14 anni e dopo aver seminato così tanto, fu solo perché fu investito dalle divisioni politiche, che sono la piaga della nostra comunità.
Per noi è stata certamente la fine di un’epoca, che ha probabilmente coinciso con la fine di un modo di essere Chiesa: al di là delle responsabilità e del carattere particolare di alcuni parroci (e in certi casi, queste pesano molto), nel frattempo sono cambiate —  mi pare — le forme della presenza della Chiesa nelle piccole comunità. I sacerdoti, forse più strettamente legati al vescovo, appaiono talvolta come ‘impiegati’ che tengono in piedi un ‘servizio’ piuttosto che come fulcro spirituale (e non solo) di una comunità che avrebbe tanto bisogno di presenza e attenzione. Probabilmente le cause sono molteplici, ma è indubbio che le chiese sono sempre più vuote, le salette nelle quali giocavamo sono chiuse, i giovani sono dispersi.
Ecco perché la figura di don Mimmo ci è cara: perché ci ricorda non solo una persona alla quale vogliamo bene, e che rivediamo con piacere ogni volta che ce ne è data l’occasione, ma ci dà la misura di un mondo nel quale siamo cresciuti e i cui valori vorremmo mantenere in vita, se solo fosse possibile. Averlo rivisto in questa foto, nella quale predica agli animali e alle piante, non ci ha solo fatto rivedere il nostro amico nelle vesti e nel contesto che gli sono più propri (la vocazione sacerdotale e il lavoro in campagna), ma ci ha portato alla memoria un mondo per il quale forse vale ancora la pena di sperare e magari di combattere per il bene dei nostri paesi.


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