‘A truscia’ e l’origine dei doveri

Silvestro Lega, La visita (1868)

di Tommaso Greco


Quando morì mio nonno Tommaso, esattamente trent’anni fa, trovai in un cassetto un foglio scritto a mano nel quale erano segnati i nomi delle persone che erano andate a trovarlo allorché, tempo prima, era stato in ospedale ed era poi tornato a casa. Insieme ai nomi era segnato ciò che gli avevano portato: caffè, zucchero, succhi di frutta, biscotti, e altre cose di questa natura. Chi è cresciuto al sud fino a tutti gli anni ‘80 sa benissimo di cosa sto parlando. Di una pratica sociale, cioè, che in determinate situazioni impone determinati obblighi, la cui esecuzione è alla base del legame sociale. Obblighi piccoli e grandi, che regolano i comportamenti quotidiani nelle varie occasioni: quando ci sono nuove nascite, quando ci si sposa, quando muore qualcuno. Ognuno sa cosa deve fare, perché quelli sono gli obblighi tipici ai quali bisogna attenersi in quella determinata situazione.
Il promemoria di mio nonno era stato ovviamente stilato ai fini della ‘restituzione’. Non a caso, nel linguaggio popolare, si parla in questo caso di “obbrigazzione”. Si sa infatti di aver contratto un ‘debito’, un obbligo, e che non mancheranno le occasioni per poter (e dover) ‘restituire’ l’attenzione ricevuta. Il foglietto serviva e tenere memoria.
Questo meccanismo ha avuto una spiegazione autorevolissima e famosissima nello studio di uno dei padri dell’antropologia moderna: parlo naturalmente di Marcel Mauss e del suo Saggio sul dono (1924). In questo studio — la cui importanza è tale da aver dato vita ad un intero movimento ‘antiutilitarista’ nelle scienze sociali — viene spiegato in maniera convincente ed affascinante come il meccanismo delle relazioni nelle società tradizionali si basi sul riconoscimento di un triplice obbligo: l’obbligo di donare, l’obbligo di ricevere, l’obbligo di contraccambiare. Ed è esattamente questo il meccanismo che fa capolino dal foglietto di mio nonno, perfetta espressione del detto popolare: «si vo’ ca l’amicizia si mantene, na truscicella va e n’atra vene» (nel dialetto del mio paese quando si dona qualcosa si dice che si è portata una “truscia”). Questo ‘rittatu’ popolare viene spesso mal interpretato: ne viene cioè dirottato il significato in una direzione ‘utilitaristica’, che è esattamente contraria al suo senso originario, che è appunto strettamente ‘relazionale’ e nient’affatto ‘economico’. Ciò che esso sottolinea è il fatto della reciprocità: il legame sociale si mantiene proprio grazie allo scambio continuo di doni e controdoni.
Le considerazioni e gli esempi che si potrebbero fare a tal proposito sono davvero moltissimi, ma non è questa la sede per farli. Basti qui dire che si tratta di pratiche sociali che hanno origini e motivazioni varie, e che hanno l’indubbio scopo (ed effetto) di ‘semplificare’ le scelte dei soggetti, i quali non devono ‘decidere’ come comportarsi perché il modo in cui ci si deve comportare è appunto quello conosciuto e praticato.
La riduzione della libertà individuale che ne deriva è indubbia, ma non è così che è stato vissuto questo modello fino solo a qualche decennio fa. Le persone si comportavano “come si è sempre fatto”, secondo uno schema che Max Weber, il grande sociologo tedesco, ha chiamato dell’agire tradizionale. Questo agire, tuttavia, non era avvertito, da chi lo metteva in pratica, come contrario allo spirito della libertà. Con la sua azione, il singolo aveva l’obiettivo di sentirsi pienamente parte della comunità piuttosto che quello di inseguire una presunta libertà individuale. Il solo pensiero di realizzarsi ‘liberamente’, a prescindere o addirittura contro la propria comunità di appartenenza, era impensabile per gli individui della società tradizionale, allo stesso modo in cui lo era per i cittadini delle poleis della Grecia antica.
Tutto questo ovviamente è (quasi del tutto) finito con l’avvento della “modernità”. Anche nei nostri paesi è arrivato il senso della “libertà individuale”: e perciò alcune cose “del passato” sono state viste come più o meno “fastidiose” o forzate. Di certe pratiche si è avvertito sempre più il lato costrittivo e non quello integrativo; il fatto cioè che si fosse obbligati a fare certe cose «perché se no la gente parla», piuttosto che per sentirsi pienamente parte della comunità stessa. Per fare un esempio: il dare ai neonati il nome dei propri nonni è stato sempre più vissuto — anche quando continuava ad essere praticato — come un obbligo, «perché se no i nonni si offendono», che non come un dono fatto al bambino o alla bambina, per dargli un posto nella continuità delle generazioni. La scelta del nome del proprio figlio o della propria figlia è diventato un terreno sul quale giocare la propria libertà di genitori. Lo stesso discorso si potrebbe fare per quella pratica rilevantissima per la vita individuale e comunitaria che è (era) il portare il lutto. Anche in questo caso, vestirsi di nero è stato avvertito sempre più come una costrizione, «per non far parlare male gli altri», che non un modo per esternare e condividere il proprio dolore (e anche per dargli confini e limiti temporali precisi). Così, man mano che lo spirito di libertà si è diffuso, si è preferito — considerandolo socialmente e moralmente “più avanzato” — rinchiudersi nella propria coscienza. E dunque, nella propria solitudine individuale. Il lutto, difatti, è pressoché scomparso dai nostri paesi.
Ad ogni modo, per quanto si siano modificate le relazioni sociali nel passaggio dalla società tradizionale alle attuali società moderne, è certo che là dove ci sono relazioni sociali non possono non esserci obblighi di varia natura. Non esiste, e non può esistere, un sistema più o meno organizzato che possa farne a meno. Il fatto stesso di essere parte di una relazione sociale, o anche interindividuale, comporta obblighi più o meno stringenti, derivanti da diversi ordini normativi (legali, morali, religiosi, sociali). Basta essere amico di qualcuno — e tutti noi abbiamo degli amici — per capire che, anche nel rapporto di amicizia che per eccellenza è un rapporto tra uomini liberi, ci sono obbligazioni continue.
Non è inusuale tra l’altro notare come, pur nelle società ipertecnologizzate nelle quali ormai siamo abituati a vivere, a volte ritornino pratiche che si ritenevano perdute, come ad esempio proprio quella del dono, che sta conoscendo un grande successo, non solo nelle pubblicazioni scientifiche, ma anche e soprattutto nelle pratiche quotidiane. Non credo sia azzardato prevedere che il tempo difficile che stiamo vivendo avrà tra i suoi esiti la ‘riabilitazione’ della parola dovere e delle pratiche sociali ad essa corrispondenti.


Proprio per questo motivo, quando Paolo Martinelli, Presidente delle Acli provinciali di Pisa, mi ha chiesto di proporre una parola per riflettere sul tempo che stiamo vivendo, non ho avuto il minimo dubbio nel proporre la parola “Dovere”, convinto delle molte implicazioni che essa può avere.
È una riflessione che per me parte da lontano: dalla mia esperienza prima che dai miei studi, come con questa pagina ho voluto testimoniare.
La mia riflessione sui "Doveri" è visibile a questo indirizzo:
Doveri

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