I RITI DELLA SETTIMANA SANTA A CALOVETO (CS)


di Mario De Vincentis

Premessa
Caloveto è (ormai) un piccolissimo paesino di mille anime arroccato su di un costone roccioso che domina la valle del Trionto fino a gettar lo sguardo sul mar Jonio. Mare da cui nel 750 d.C. arrivarono, da Costantinopoli , i monaci calibiti che scappavano dalla persecuzione iconoclasta ordinata da Leone III Isaurico. Attorno al nucleo monasteriale (che seppur  “latinizzato” nel 1257,continuerà ad officiare con rito greco fino al 1584) nasce la prima comunità da cui si svilupperà il resto del paese.
Purtroppo, di quella bizantinità di cui l’intero territorio ha goduto per secoli, a Caloveto resta ben poco, quasi niente, se non il solo culto rivolto al Santo Patrono Giovanni Calibyta. Forse ciò è anche dovuto alla poca sensibilità culturale da parte di chi ha avuto nelle mani ( tra il XVIII e XIX sec.) la vita religiosa e civile del paese (che pure era stato centro di formazione spirituale e culturale per molti fra cui S. Bartolomeo di Rossano).
Anche per gli aspetti che ci riguardano, ossia i “Riti della Settimana Santa”, non si possono segnalare certo riti che richiamano la secolarità e spettacolarità delle  “affruntate” tipiche di alcune zone calabresi; oppure la sofferenza “votiva” e nascosta dei vattienti di Nocera ; o la persona che rappresenta il Cristo rigorosamente incappucciata, della stessa Rossano.
Vi è comunque quella che oserei definire una sorta di “base” nei riti, che, come avrò modo di dire più avanti, resiste minimo da un secolo, e che viene, di anno in anno, di parroco in parroco soprattutto, arricchita, cambiata, diversamente interpretata. A modesto parere di chi scrive, questa sorta di ‘alternatività’ nella rappresentazione dei riti, è dovuta alla mancanza di Confraternite che in diverse parti dell’intero sud hanno il compito di custodire e organizzare i momenti liturgici dell’anno. Se ne registrano due alla data del 1795: quella del SS. Sacramento e quella del Rosario. Della prima esiste addirittura uno Statuto (con datazione relativamente recente,1925), oltre ad alcune testimonianze da cui si deduce che assistesse il sacerdote proprio nei riti della settimana santa.
Oggi però tali confraternite non esistono più e non saprei dirne il motivo.
I giorni da sempre più sentiti e a cui si presta più attenzione sono : la Domenica delle Palme, il Giovedì Santo, il Venerdì Santo.
Negli ultimi 30 anni sembra di assistere ad una “stabilizzazione” dei riti (che meglio saranno descritti più avanti) grazie anche alla volontà e — perché no? — inventiva di alcune persone che, seppur apportando innovazioni, fanno sì che ogni volta in mezzo a quei vicoli impregnati di storia secolare, tutto diventi tradizione.

DOMENICA DELLE PALME / A’ benerizzione e’re Parme.

Oggi, il sacerdote, intonando un canto, esce in processione con i ministranti dalla Chiesa di S. Giovanni Calibyta, per dirigersi a’ru Carbariu (il nome è dato dalla presenza di Tre Croci). I ministranti più grandi accompagnano la processione con le palme. Nel luogo suddetto c’è la comunità riunita che aspetta la processione. Arrivato sul posto, il sacerdote, da una loggia, legge il passo del Vangelo e subito dopo benedice i ramoscelli d’ulivo. (Non è difficile in questi ultimi anni vedere attaccati ai ramoscelli anche le uova di Pasqua!). Dopodiché, il sacerdote e i ministranti riprendono la processione per ritornare in chiesa, seguiti dalla comunità. Qui la celebrazione prosegue secondo i dettami del Messale.
‘Na vota! Invece…. Alcune persone anziane mi hanno raccontato di come si svolgesse ‘na vota, cioè in passato, la Domenica delle Palme. È una descrizione che, vista l’età di chi ha fatto il racconto, si può riferire al periodo degli anni 40-50. La benedizione a’ru Carbariu sembra esserci sempre stata (e con il ‘sempre’ voglio riferirmi ad un periodo che va almeno dal ’20 in poi). Si aspettava il sacerdote non con dei ramoscelli, ma con dei veri e propri fasci di rami di ulivo. Dopo la benedizione e la messa si doveva passare prima da casa e lasciare un ramo del fascio qui. Poi tali fasci venivano portati  fore (in campagna) e una parte veniva fatta ‘assaggiare’ alle vacche e alle pecore, ma non alle capre; un ramo abbastanza lungo veniva posto sulla sommità dell’ulivo più alto, quasi a volerlo nominare  “albero protettore”. Alla fine veniva messo un ramoscello per ogni lavuratu, cioè piantato in ogni terreno dove si aveva coltivato. Ai ramoscelli dei bambini invece, venivano appese  e’ scalille e i ‘nginetti , dolci tipici del periodo pasquale.

GIOVEDI SANTO / U’  Jovi Ssantu.
Oggi per il Giovedì Santo è preparato l’altare della Reposizione (v. foto). Qui, verranno sistemati  i’ lavurelli (grano) seminati all’inizio del periodo quaresimale. Quella che per Santa Madre Chiesa è  “In Coena Domini”, per noi poveri peccatori calovetesi è preferibile dire “iamu a’ra ‘ghjesa ca’ lavanu i’ peri!”. Si vuol fare indubbiamente riferimento al momento in cui il sacerdote, così come fece Gesù nel cenacolo con gli apostoli, lava i piedi a 12 persone. È un rito che si compie in tutte le chiese del mondo, prescritto anche dal Messale. A Caloveto i 12 non vengono scelti secondo particolari canoni, ma, si fa comunque attenzione che non vi siano componenti della stessa famiglia, o meglio e’ra stessarazza’ e non siano  e’ru stessu vicinanzu. Si cerca inoltre di creare un equilibrio tra giovani e anziani. Escono in processione col sacerdote dalla sagrestia e siedono con lui sull’altare per l’intera celebrazione. Alla fine di questa “la Chiesa entra nel grande silenzio”, il Santissimo Sacramento viene accompagnato all’altare della Reposizione in una processione scandita dai colpi  e’re tòccare. Dopo di ciò il sacerdote consegna ad ogni ‘apostolo’  e’ cullure (v. foto) , delle ciambelle di pane, che, tornato a casa, provvederà a dividere e mandare ai vicini (ecco perché l’accortezza suddetta riguardo al vicinato) e ai parenti.

‘Na vota!, si cominciava a digiunare dal mercoledì  “pecchì ‘ncominciavanu a persecutare u’ Signuru”. Dalle persone più anziane il Giovedì Santo è anche detto u’ Jurnale. Veniva preparato anche un altare della Reposizione, dove come oggi, venivano portati  i’ lavurelli affinché fossero da “protezione” per il resto dei campi. Secondo le parole dell’anziana che mi ha raccontato : “ U’ Jovi Santu u’ signore parrinu (il prete, così come veniva chiamato allora)  facie ‘ra prerica e’ru purpitu subbr’a’ vita e’ru Signuru, e’ra facie in sette stanze”. Il prete in pratica teneva l’omelia dal pulpito (poi tolto dal Concilio) incentrata sulla vita di Nostro Signore, e la faceva articolandola in sette ‘stanze’, appunto, sette parti. Pare che non ci fosse la lavanda dei piedi (“…e chilli tempi si capiscie de’ lavanda!?”). Sembra comunque, a sentir un’altra testimonianza, che già dagli anni ’60 si facesse.
In realtà questa circostanza è dovuta molto probabilmente al rinnovo della Liturgia con promulgazione del nuovo Messale Romano (1969) in seguito al Concilio Vaticano II e non perché prima non si capisse l’importanza del rito simbolico della lavanda.
Zia Evelina, l’anziana che mi ha fatto il racconto, ha voluto anche sottolineare come, durante la predica ci si emozionasse fino a piangere  “…e no mo’, chi mentri cu’ previtu parre, ciciulianu e u’nnu sentanu!!”
[”non come adesso, che quando il prete parla, chiacchierano e non lo ascoltano”].

VENERDI SANTO / U’ Vennari Ssantu
Il Venerdì Santo, un tempo come oggi, viene particolarmente sentito e “organizzato”. È il tempo del dolore , u’Vennari Santu, del pianto, e, per chi conosce la realtà in cui vive, non è difficile leggere sui volti di chi intona il canto, di chi porta a spalla la statua, di chi sgrana la corona del rosario in mano, il ripercorrere, ripensare al proprio, di dolore, alla sofferenza che magari lo ha accompagnato e lo sta ancora accompagnando.
Oggi: ormai da quasi 20 anni, grazie (come accennavo) alla volontà di alcune persone e, perché no, alla tenacia di qualche parroco, per le vie del paese viene proposta  la “Passione di Nostro Signore”. Come si tende a precisare ogni anno, non è una recita, non è uno spettacolo, ma semplicemente un riproporre la Via Crucis con figuranti, affinché si rifletta sul senso del sacrificio di Cristo Gesù. La drammatizzazione avviene al mattino presto, tra le 5.00 e le 5.30.
Un’ora prima dell’inizio, ma questo avviene da sempre, per il paese gira a’ tòccara (v. foto), per svegliare la comunità e avvisare che la cerimonia sta per incominciare. A’ tòccara è una scatola di legno all’interno della quale girano alcune pale, sempre di legno, che per essere più grandi dello spazio in cui sono contenute, girando fanno un grande fracasso.


La sacra rappresentazione avviene sul testo evangelico dell’anno prescritto dal Messale, e racconta la passione del Signore dalla preghiera nell’Orto degli Ulivi in poi. La crocifissione avviene a’ru Carbariu; mentre il Cristo morto e deposto verrà portato nel sepolcro/chiesa. Da quando c’è la rappresentazione si è voluto che negli apostoli del Giovedì ci fosse anche colui che al mattino personificherà il Cristo.
Nel pomeriggio invece, avviene quella che è conosciuta come “Processione dei misteri”. Di fronte alla chiesa madre, vi è una piccola cappella, un tempo gentilizia, ora intitolata alla Madonna del Carmine, ma da tutti conosciuta come
“Chiesa di donna Aurora”: Aurora Mazziotti, che la fece costruire agli inizi del 1800. Qui le statue vengono preparate per la processione, e qui saranno poste dopo di essa, per essere ‘visitate’ dai fedeli.
Ecco come avviene il tutto:
Le statue che attualmente vengono portate in processione sono quattro: il Crocifisso  e il Cristo morto in bara , che sono di un periodo molto recente (fine anni ’70); e ‘re ‘rue Maronne , la SS.ma Addolorata e Maria Maddalena, queste ultime molto antiche, con abiti che pare siano del 1800. Ora, le statue vengono fatte uscire  dalla chiesa del Carmine in un ordine ben preciso e portate secondo “categorie” di persone; il Crocifisso davanti, portato dai giovani, a seguire il Cristo morto in bara, portato dagli uomini adulti (diciamo dai quarantenni in su); poi l’Addolorata, La Madre, portata come è logico pensare, dalle madri e la Maddalena, portata  e’re giuvanelle schette o chi s’ane e’ spusare
[le giovani nubili o sulla via del matrimonio].I bambini (sempre divisi tra maschi e femmine) portano le lampade.
Il sacerdote con i ministranti vestiti solo della ‘talarina’ rossa, stanno tra il crocifisso e la bara. La processione si snoda per tutto il paese toccando le arterie principali tra cui  U’ Peralu (che è il centro storico) e ‘ru Jentilu. Durante il tragitto è da notare come ogni statua sia quasi ‘indipendente’, nei canti e nelle preghiere. Interessante soprattutto osservare e ascoltare le statue del Cristo in bara e dell’Addolorata che sembrano quasi far a gara per chi canta meglio e prende la nota più alta facendo assomigliare il canto quasi ad un lamento. A sera, si arriva a’ru Carbariu, ancora una volta centro nevralgico, dopo la chiesa, dei Riti Pasquali. Qui le statue si dispongono sotto la loggia, da cui il parroco (o come avviene da molti anni, un missionario, o un predicatore venuto da fuori)  fa ‘ra prerica e’ru Vennari Ssantu.
Si riprende poi il cammino verso la chiesa del Carmine dove le statue verranno ri-poste per essere ‘visitate’ dai fedeli per tutta la serata e la giornata poi del sabato. Intanto fuori, mentre si aspetta che scorrano i fedeli all’interno della chiesetta, c’è un gruppo di persone, stavolta “misto”, che continua ad intonare canti sulla Passione.

‘Na vota! In linea generale la giornata del Venerdì santo era scandita da due momenti così come oggi. Al mattino presto (stessa ora di oggi) vi era la processione per le vie del paese, anche allora annunciata dai colpi delle toccare che però, non erano come quelle che appaiono nelle di oggi qui allegate. A sentir la descrizione , “…e toccare chi sonavamu nuvi eranu probbiu ‘ranne, eranu certi casciabancuni ‘ranni chi portavamu subbra e’rote!”. Una volta sveglia, la gente, si ritrovava davanti alla chiesa. Da qui, con in spalla una croce, usciva un ragazzo, che poi è diventato uomo: infatti a sentir il racconto di Zia Evelina “…e’ quannu ere tita iu, l’ha sempre portata illu a’ crucia, finna chi po’ è mortu!”. Anche in questo caso si faceva il giro del paese.
Per la processione dei misteri, invece, c’era tutta una sorta di preparazione. Innanzitutto le statue non erano quattro come oggi, bensì ci si limitava all’Addolorata e alla Maddalena. A ‘vestirle’ci pensavano le giovani che, fin dal mattino si recavano in chiesa vestite di nero e con il “cuore addolorato di Maria” cucito sul petto.
Dopo averle preparate , continuavano a pregare in chiesa  u’ Signuru mortu e ci si comportava come se fosse un vero funerale, con le mamme delle giovani che addirittura portavano il caffè “…cumu si fa a’ri lutti!”, che bevevano in un’altra stanza, e poi ritornavano a pregare, aspettando che si uscisse con la processione. Questa usciva appunto dalla chiesa madre , e davanti  a’ re ‘rue Maronne, andava di nuovo con la croce la stessa persona del mattino. Si faceva sempre il giro del paese (che ovviamente, non corrispondeva certo al tragitto che si percorre oggi).
E si tornava sempre comunque, al Calvario già citato più volte. Qui, dopo la predica, il sacerdote (e chi racconta ci tiene a sottolineare che anche in questo caso le lacrime rigavano il volto dei presenti! La bravura del predicatore si misurava, e la gente l’ha sempre misurata, dalla capacità di muovere alla commozione, o appunto al pianto) si lanciava in un appassionato  “Vieni Maria, vieni e abbraccia tuo Figlio…”, e allora la statua dell’Addolorata si spostava dalla parte opposta a cui si trovava per ricevere nelle braccia un Cristo ‘staccato’ da una croce per l’evenienza. Questa pratica dell’incontro veniva fatta ancora negli anni ‘70 e ’80, con uno slancio emotivo non minore a quello anzi detto, grazie anche al “saper fare emozionare” di una carismatica persona come Padre Vincenzo Cosenza, teatino ed originario di Caloveto.
Con zia Evelina, ci si è soffermati anche sul Sabato Santo e sulla Domenica di Pasqua, che, oggi non hanno particolari riti.
Il sabato santo, pare ci fosse la messa del mattino, non annunciata dal suono delle campane, bensì dai colpi delle toccare“…pecchì u’Signuru u’nn’ere ancora risortu!”. Le toccare passavano alle 11 circa in modo tale che si arrivasse in chiesa per mezzogiorno, quando “..sparave ‘ra Gloria” e iniziava così la messa. Al momento della consacrazione, ci si toccava la fronte con un fazzoletto imbevuto, per  ‘segnarsi’ con l’acqua nuova della Pasqua. Tornati a casa  “…si facie pe’ tradizione ‘na frittata”  di salsiccia, carne salata e formaggio, per porre fine al digiuno quaresimale. La Domenica, veniva celebrata poi la messa di Pasqua, e in processione veniva portata la statua del Cristo Risorto (pare che la statua avesse la bandierina sventolata dal Cristo, in senso di vittoria sulla morte, di colore rosso, e che il parroco abbia deciso di cambiarla in seguito a supposizioni di un Nostro Signore….comunista!)
“….e chissa ere ‘ra Pasca nostra!!..u’ti penzare c’aviamu e’ lasagne  o l’ova cumu ojie!!”.

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