Non la furbizia, ma solo una buona politica salverà il “mondo a parte” dell’Italia interna

Tommaso Greco


1. Bisogna essere grati al regista Riccardo Milani per aver realizzato un film come Un mondo a parte. Un film sui paesi a rischio di abbandono, su quell’Italia minore — che sarebbe in realtà maggioritaria, almeno sul piano dell’estensione territoriale — di cui nessuno si occupa davvero, se non a parole. Basterebbe vedere le risorse destinate e spese per una sola metropoli, e confrontarle con quelle analoghe destinate e spese per tutti i paesini dell’Italia interna messi insieme, per averne conferma. Basterebbe, per dirne un’altra, andare a vedere quanto è stato speso per garantire i collegamenti tra le principali città italiane che si trovano lungo la linea TAV, e poi fare un confronto con quanto è stato speso per i collegamenti di tutto il resto d’Italia, per vedere concretamente quanto — in perfetta coerenza con il “principio TAV” — ciò che non si trovi lungo la linea del ‘progresso’ (che è anche via del privilegio) venga lasciato morire senza tanti scrupoli. 
D’altra parte, che in Italia ci sia una grande questione dei territori, che rende profondamente disuguali i cittadini a seconda di dove nascono e vivono, è risaputo. 

2. Di questo quadro generale, il film di Milani sottolinea un aspetto particolare, relativo alle difficoltà in cui si trovano i paesi dell’Italia interna a rispettare gli standard minimi necessari a mantenere aperta una scuola per i pochi bambini che lì si trovino a vivere. Per quanto si siano da tempo stabilite regole più eque, e si sia abbandonata quella politica di “secessione dai cittadini” che imponeva regole identiche per le metropoli e per i luoghi più sperduti, e per quanto oggi sia possibile ai luoghi di montagna tenere aperte classi con numeri decisamente inferiori rispetto a quelli generalmente previsti, è indubbio che mille difficoltà permangano: si tratta proprio di quelle difficoltà che rimandano al quadro generale, in base al quale “da posti come questi, la gente non vede l’ora di andarsene”. 
Perché, è vero che se una scuola di montagna non riesce a raggiungere il numero minimo di bambini, tanto peggio per la scuola di montagna, e cioè tanto peggio per quei bambini e per le loro famiglie. Ma è soprattutto vero che, se si guarda ad ogni aspetto — e innanzitutto alle infrastrutture, ai trasporti e alla sanità — il “tanto peggio” è per chi ha deciso di vivere in luoghi remoti, dove è sempre più difficile rimanere, proprio perché lo stato lo rende più difficile con le sue scelte, con i suoi dis-investimenti, con la sua memoria corta e soprattutto con la sua scarsa lungimiranza. A chi importa se il territorio viene abbandonato all’incuria? Non si può mica essere lungimiranti come un Luigi Einaudi qualsiasi, che nel 1951 ammoniva sul fatto che «la distruzione della terra italiana alta è la causa ultima dei flagelli i quali colpiscono le terre basse» (Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano 1983, p. 865). 

3. Il film va dunque in controtendenza, rivendicando e proclamando la necessità, la giustezza e anche la bellezza della scelta di restare. E lo fa innalzando come una bandiera il testo che più di ogni altro ha ridato dignità al ‘restare’, anzi, alla politica della restanza, mettendo in gioco una parola che è già entrata giustamente sia nel vocabolario diffuso sia in quello ufficiale, e che soprattutto entra nella nostra fiacca politica dei territori per ricordarci i nostri compiti e le nostre responsabilità. Il testo è La restanza di Vito Teti, e non poteva esserci omaggio più bello e più giusto per un libro ‘piccolo’ ma grande, che è già diventato un classico a nemmeno due anni dalla sua pubblicazione da parte di Einaudi, e che non può non essere un punto di riferimento per chiunque di qui in avanti si occupi di politica dei territori. 
Non mancano certo le citazioni di libri all’interno dei film, ma certamente raro è che si citi un libro in questo modo, cioè come un manifesto in cui si condensano analisi e soprattutto speranze, anzi come un Progetto che attende di essere reso opera concreta attraverso le scelte dei singoli e dei molti. 
Giusta e azzeccata è pertanto la citazione entusiastica che ne fa Antonio Albanese, attore straordinario che qui incarna una figura che è l’esatto contrario di uno dei suoi personaggi più celebri, dedito com’era quest’ultimo piuttosto alla distruzione che alla preservazione dei paesi. 

4. Un film a cui essere grati, dunque, questo di Milani, anche per la scelta di aver fatto accompagnare i due ottimi attori protagonisti da attori non professionisti scelti tra la gente dei luoghi — luoghi meravigliosi, in Abruzzo — in cui il lungometraggio è stato girato. Ma a cui essere grati anche, e forse soprattutto, per aver fatto emergere, in maniera ‘leggera’ e cruda allo stesso tempo, una realtà purtroppo assai triste. Realtà che non riguarda soltanto il problema, ma riguarda anche, purtroppamente (direbbe Cetto la Qualunque), il modo in cui il problema viene risolto. 
Mi riferisco alle modalità in cui i protagonisti raggiungono l’obiettivo che si propongono, e cioè di salvare la scuola dalla chiusura a cui sembra destinata. Il film ci dice infatti che, in un’Italia che non sa mai essere all’altezza della sua bellezza e della sua ricchezza, e che non sa assumersi le responsabilità che dovrebbe, anche un obiettivo nobile e legittimo non si può raggiungere che con il sotterfugio. Persino l’impresa di salvare la scuola sembra debba passare dall’ennesima applicazione del principio secondo cui “il fine giustifica i mezzi” (e lo conferma il colpo di genio finale del bambino-hacker, di cui qui non possiamo raccontare per evitare di togliere il gusto della scoperta a chi non abbia ancora visto il film). 
Nella realtà che il film ci mette davanti, i personaggi più importanti del paese — coloro che maggiormente dovrebbero essere interessati a salvare la scuola (e con essa l’intero villaggio) —, si convincono a collaborare solo perché viene loro posto davanti un interesse diretto e personale. Allo stesso modo, un impiegato comunale si rifiuta di ubbidire a un sindaco che gli rivolge un ordine ingiusto, ma solo perché corrotto da coloro che operano “a fin di bene”; e persino l’operazione umanitaria che permette di raggiungere l’obiettivo viene presentata come una violazione (o un aggiramento) della legge. Tutto ciò non è solo “triste”: è decisamente sconfortante. Perché è come se il film ci dicesse che non c’è alcuna possibilità, nel nostro Paese, di pensare ed operare al di fuori dello schema che vede l’italiano farsi più furbo dello stato; che non c’è alcuna possibilità di liberarci dall’idea che ogni impegno per il pubblico debba essere motivato da un interesse personale; che non c’è alcuna possibilità di agire al di fuori della cornice disegnata dal familismo amorale. 

5. Se “così vanno le cose in Italia”, ed è di una realtà come questa che il film di Milani vuole anche crudamente e lucidamente dar conto, occorre però fare un passo avanti rispetto alla narrazione cinematografica, il cui finale rischia di far pensare che “tutto sommato va bene così” e che “tutto è bene, quel che finisce bene”. Occorre cioè sottolineare, non solo che la realtà contiene per fortuna esempi diversi, ma anche che, se vogliamo affrontare sul serio i problemi dell’Italia interna, di un’Italia che si spopola sempre più e che è diventata attraente solo per quei turisti del “foliage” che in un passaggio cruciale del film vengono giustamente dileggiati, allora bisogna liberarsi una volta per tutte della mentalità rappresentata nel film: una mentalità, appunto, secondo cui ci si preoccupa del bene comune solo per interesse personale; secondo cui non si compie il proprio dovere se non si è eroi (come i maestri) o non si è costretti a farlo (come tutti gli altri); secondo cui, soprattutto, per tutelare i propri diritti si deve entrare nella modalità tipica di chi è più furbo degli altri. Perché se è vero che nella realtà spesso si pensa al bene comune a partire dal proprio bene personale (col rischio di perdere di vista il primo e di pensare solo al secondo), occorre ribadire che la salvezza dei paesi dell’Italia interna passa dalla capacità di comprendere che il bene personale può derivare soltanto dalla cura del bene comune e collettivo, e che questo lo si tutela credendoci e valorizzandolo nelle scelte quotidiane, anche in quelle più scomode. Quale speranza possiamo avere se per contrastare un sindaco corrotto abbiamo bisogno di corrompere a nostra volta l’impiegato a cui quel sindaco aveva ordinato di venir meno al suo dovere? Abbiamo bisogno piuttosto che quell’impiegato possa denunciare il sindaco corrotto e che possa trovare istituzioni capaci di tutelarlo, cosa che non sempre avviene nei nostri territori, dove la politica clientelare si mostra talora sfacciatamente persino alla luce del sole, convinta com’è di farla franca in ogni caso. 

6. Quel che bisogna dire a voce alta, dunque, è che è questa politica il vero problema dei nostri paesi: paesi che, salvo lodevoli eccezioni, sono affidati a una politica fondata sui favori 'ad personam' e sugli interessi personali, incapace di fare sistema con il territorio e soprattutto incapace di proiettare nel futuro le comunità che le sono affidate. 
Grati a Riccardo Milani per aver sottoposto all’attenzione di tutti un tema così importante, dobbiamo quindi rimboccarci le maniche per far sì che il “mondo a parte” del titolo non si trasformi in una realtà parallela, come era quella dei lager sovietici a cui si riferiva il medesimo titolo del libro di Gustaw Herling. Occorre andare oltre la narrazione del film con la piena consapevolezza che sono molte le cose da fare affinché possa affermarsi quella che Vito Teti, con espressione straordinariamente efficace, chiama «una restanza ricca di futuro». Sono molte le cose da fare, certo, se davvero crediamo — di nuovo, con le parole dell’antropologo calabrese —, che «riabitare i paesi interni, riabitare la montagna, guardare al centro dalla prospettiva inedita e umanissima della periferia […] possa essere una delle vie di salvezza per l’intero sistema-Paese».

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