In difesa dei muretti


Da tempo pensavo a questo blog, che ho sempre associato al nome di Peter Camenzind.
Peter Camenzind è il protagonista del primo romanzo pubblicato dallo scrittore tedesco Hermann Hesse: è un giovane che ha voglia di scoprire il mondo e che, dopo varie peregrinazioni, torna al suo paese. Si tratta, per lui – e per noi che ne leggiamo la storia – di un ritorno alla natura, alle Origini, allo sguardo meravigliato sul mondo.

Vorrei che questo spazio virtuale, che oggi inizia le sue attività, fosse per tutti (innanzi tutto per i calovetesi) un’occasione di riflessioni e discussioni; vorrei che fosse uno spazio in cui si parla di storie e soprattutto di spazi, di strade, di piazze; vorrei che divenisse un luogo per parlare dei luoghi e delle persone che vi sostano o li percorrono o ci vivono. Delle loro storie, del loro passato e del loro futuro.

I luoghi ci parlano e ci educano. Segnano la nostra vita più di quanto pensiamo o vediamo. Troppo spesso abbiamo dimenticato la loro importanza e li abbiamo trascurati; ci siamo abituati alla loro bruttezza, dopo averla prodotta con la nostra incuria. Ne abbiamo fatto tutt’al più un elemento funzionale, uno spazio da attraversare per raggiungere i nostri obiettivi egoistici e privati.

Abbiamo dimenticato che i luoghi sono innanzi tutto lo spazio dell’incontro, della condivisione, della vita in comune. Per questa ragione, dedico il primo post del “Laboratorio Camenzind” a uno dei luoghi che abbiamo trascurato, e che finiremo per distruggere se non riusciremo a rivalutarlo. Parlo dei muretti davanti alle case. Quelli dove si sono seduti i nostri nonni e i nostri genitori, quelli sui quali abbiamo giocato da bambini e dove ancora ci sediamo nelle calde sere d’estate.

Di muretti, a Caloveto ce n’è dappertutto e non c’è alcun dubbio sul fatto che sono segno di una civiltà (che si vuole) perduta. Una civiltà che però, in questa sua persistenza, grida al mondo la sua superiorità. 
La civiltà di cui i muretti sono segno è quella nella quale un passante trova il tempo di fermarsi per scambiare due parole, è quella nella quale ci si può sedere con qualcuno senza aver prima programmato un incontro. È perciò la civiltà della relazione spontanea, non prevista, ma anche della relazione obbligata, perché non si può passare per strada senza rivolgere almeno un saluto a colui o a colei che vicino al muretto si incontra. 
Certamente nei muretti si esprime la civiltà della lentezza, la civiltà delle soste e delle ripartenze, nella quale il ritmo e il senso del cammino non sono dati dalla mèta cui si tende bensì dal cammino medesimo e dal percorso che si è deciso di compiere.

La grande ricchezza rappresentata da questi muretti va preservata contro ogni “ideologia della modernizzazione”, che un domani potrebbe volerli rimuovere per facilitare la circolazione, in nome di un malinteso progresso. Abbattere i muretti per lasciare che i marciapiedi srotolino la loro piattezza significherebbe arrendersi definitivamente al dominio delle macchine, dal momento che il marciapiedi non è altro che questo: un adattamento dei passi degli uomini a quelli dei veicoli a motore. Un marciapiedi che sostituisce (e distrugge) i muretti rappresenta la resa finale al dominio con cui le macchine quotidianamente uccidono le città e le sue relazioni. 

I muretti ci dicono che una civiltà, in cui sono le macchine a doversi fermare quando la strada si fa stretta, è migliore di una in cui sono gli uomini a dover far spazio alle macchine. Il paese è degli uomini, delle donne e dei bambini che lo abitano. Sono i loro passi e i loro gesti a doverlo plasmare. Quando si progetta di cambiare uno spazio occorre pensare a chi lo abita con pudore e delicatezza, non a chi vuole attraversarlo senza riguardi.


Tommaso Greco




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