Una serata per le vie del Pedale

Sicché, una sera, abbiamo preso e siamo scesi al Pedale. Non come lo si era fatto tante volte “per andare a vedere com’era prima il paese”, oppure, come si sarebbe tentati di fare, per usarlo come una scenografia pittoresca per una serata da cartellone; bensì per sentire realmente, dopo tanto tempo, cosa avevano da dirci ancora le sue pietre, e per attraversare i suoi vicoli stretti sapendo che da lì arriva una voce che ci appartiene.
Eravamo quattro amici al bar, potremmo dire, visto il modo un po’ rapido in cui abbiamo organizzato questa passeggiata “paesologica”, ma in realtà si è trattato di una serata che covava da tempo. Covava, non nelle nostre nostalgie, ma nei nostri pensieri rivolti al futuro, nella caparbia convinzione che a quei muri, a quelle case, a quelle ‘vinelle’ bisognasse ritornare per capire chi siamo, partendo proprio da ciò che sembra solo decadente e perduto.
Ripensandoci, siamo scesi al Pedale non per quello che c’è, ma per quello che non c’è. Citando Franco Arminio, il fondatore della disciplina “paesologica” alla quale aderiamo convintamente e dal cui esempio siamo voluti partire, «le mancanze» di luoghi come questi non sono altro che le «stampelle» a cui sorreggerci per inventare un futuro che non sia già scritto nella dinamica del presente, un presente che uccide la fantasia e uccide anche coloro che vogliono impiegarla per inventare un mondo diverso.
Al Pedale le mancanze da ritrovare sono tante. Non c’è il rumore delle macchine, perché per fortuna le vinelle sono troppo strette per farle passare; non c’è la fretta quotidiana che scandisce le nostre giornate perché le salite sono ripide e non si può camminare veloce;  non ci sono le luci dei negozi a tenere vive le strade e le case. Al Pedale si va per camminare e respirare. Non più abitate dagli umani, le case respirano di vita propria, sebbene si tratti del respiro di chi è stato abbandonato. I gafî sono ancora lì ad aspettarci e quella sera sono stati ospitali con chi ha voluto sedersi nei suoi spazi aperti e accoglienti.
Al Pedale siamo scesi senza cibo, che troppe volte è l’unica ragione del nostro ritrovarsi e stare insieme; siamo scesi soltanto per ammirare e raccontare.  Siamo scesi per camminare e per il piacere di farlo insieme, tutti quanti. Lo straordinario di quella serata è stato che ognuno a suo modo ha raccontato: hanno raccontato coloro che non sono abituati a prendere la parola e che però sapevano ridare voce ai luoghi che un tempo abitavano. Hanno parlato gli anziani, hanno parlato le donne, hanno parlato le mamme e le nonne, le vere custodi di una memoria che non muore. Hanno parlato anche alcuni – Tonino e Caterina – che ci hanno spiegato il perché e il come di quelle pietre e di quelle case. Ha parlato Umberto, che ricorda bene i nomi e sa dire più di tutti le parole antiche. Giovanni ci ha aiutato a raccoglierci intorno ad immagini che sanno di una vita forse un poco più felice, perché un poco più innocente. Salvatore è tornato per un attimo a fare il banditore e ci ha dato una specie di anteprima di tutto ciò che in futuro può trovare accoglienza tra queste case strette l’una all’altra e negli spazi improvvisi intorno a cui esse si raccolgono.

Dal Pedale si vedevano le luci lungo la costa, quella sera; si vedevano persino le luci della Puglia, come avviene quando il vento pulisce l’aria e regala profondità inaspettate. Quasi a ricordarci che, al di là di tutto ciò che ci affanniamo di fare e accumulare, uno sguardo limpido e lungo è tutto ciò che ci serve per ritrovare, nelle cose semplici, la bellezza e la vita.



"Spostare"
Umberto Mazza

Qualche sera fa in compagnia di amici e compaesani abbiamo rievocato un mondo antico, un luogo che avrebbe ancora tanto da raccontare. Ci sono delle storie che accomunano tutti e ti rendono protagonista;ci sono pietre, come ama dire l’amico Tommaso Greco, che gelosamente custodiscono distillati di ricordi, belli o brutti poco importa; ci sono case fatte di pietra che hanno fondamenta solide e antiche, ma non certamente vecchie: “vecchiu è chine more” dice un saggio proverbio calovetese.
Mentre passeggiavo per il Pedale pensavo “ari vicinanzi”, un contesto antropologico di straordinaria complessità, un labirinto urbano ed umano in cui si è ramificato un millenario sistema di vita.
La vita del vicinato era si una cruda realtà di miseria, ma al cui interno esistevano valori comunitari, come la solidarietà ed il controllo sociale sui membri del gruppo.
"U vicinanzu" era una sorta di famiglia allargata e vissuta all’esterno (“mmezza a via”), c’era l'esigenza di far sapere dove si andava, cosa si faceva o, eventualmente, di mentire, di fingere: il vicinato era un "teatro" ed i vicini un pubblico, spesso intransigente, “quannu si scerravanu” (litigavano) era come assistere ad una commedia, a volte con risvolti drammatici.
Nei movimenti, nella gestualità, soprattutto delle donne che erano abituate a comunicare in pubblico, c'era una sorta di teatralità, di mimica quasi innaturale. Il vicinato era comunque un regno al femminile: la vita era scandita dall'esclusiva presenza delle donne, costrette a rimanere in casa quando non erano obbligate al lavoro dei campi.
Nella dinamica delle relazioni all'interno del vicinato vigeva una sorta di matriarcato e l'uomo era in genere solidale con la sua donna, che gestiva liti, amicizie, fidanzamenti e matrimoni.
Le ragazze da marito, “schette”, per salvaguardare la propria onorabilità non comparivano mai in pubblico da sole, le madri erano infatti molto rigide nell'educare le figlie al rispetto delle norme sociali della comunità e le difendevano strenuamente dalla malignità e dall'invidia delle vicine. Le donne giocavano d'astuzia per poter incontrare l'amato o soltanto vederlo da lontano: il vicinato era pieno di spie e di delatori, pieno di gelosie ed invidie.
La madre di una ragazza nubile, invidiosa del fidanzamento di una vicina, poteva "denunciare" gli incontri segreti dei fidanzati o diffondere malignità sulla "zzita": sua figlia avrebbe così potuto prendere il posto della "zzita", smettendo d'essere "schetta" .
Al di la di queste divagazioni nostalgiche, mi piacerebbe invece tornare a valorizzare il vicinato come modello di solidarietà e socializzazione. “Jiire a spostare" è sicuramente il miglior antidepressivo che si conosca, scrollarsi di dosso i cattivi pensieri e fare un po’ di chiacchiere al vicinato fa bene alla salute, rinchiudersi in casa ingigantisce le nostre ansie. 

Creare “u paisu e ru spostu” potrebbe essere un attrazione non solo turistica, ma anche e soprattutto un percorso terapeutico.































Commenti

  1. Dopo aver visitato Caloveto da pochi giorni, ritrovarlo qui nelle sue stradine e nelle sue pietre cariche di storia e poesia, fa davvero bene al cuore. Articolo molto molto bello. Complimenti.

    RispondiElimina

Posta un commento

Post popolari in questo blog

NON E' DELITTO PARLARE DEL "DELITTO DEL CIMITERO"

Non la furbizia, ma solo una buona politica salverà il “mondo a parte” dell’Italia interna

Paesi che muoiono….di troppi “lavori”