Juanninu
Bassa Foresta - anni 20
La torre Sarracino, o Turriazzo, s’alzava, al tempo, sulla montagnola Torva (ora collina per degradamento
progressivo) su una base quadrata di dodici tese
(ventidue metri) per
cinquantaquattro cubiti e tre dita (calcolato alla romana, e da allora sempre, nell’atto
costitutivo di torre di avvisamento de' pirati barbareschi del millecinquecento
e non si sa quant’altro). Circa ventotto metri in somma, e dominava la valle del Traenzio
e il mare. Non la più grande presente
in zona, v’erano torri di difesa, rocche
imponenti, baluardi anche contro i briganti,
i cosiddetti fortalizzi, che
potevano contenere un’intiera guarnigione di soldati. Rappresentava, tuttavia,
il simbolo del potere, cambiava proprietà ogni qual volta cambiassero i
rapporti di forza all’interno del latifondo (patrizio e in seguito anche degli
agrari borghesi) che gestiva, nei secoli, il sociale, il lavoro, la fatica, in
uno, la vita di contadini e villani
(chiamarli sudditi o servi renderebbe meglio l’idea). Il sarracinante, ossia il proprietario pro
tempore, lo rialzava sempre con una fila di mattoni o pietre, per cui la
struttura era tutt’altro che omogenea e cresciuta, negli anni, a dismisura: sulla
primitiva torre (un parallelepipedo tronco, avente in origine l’altezza di otto
tese, quindici metri circa, come si
poteva leggere sul documento redatto dal Consiglio
Collaterale che sovraintendeva a manieri
castelli maschi et turre de la
Calabria Citeriore nel milleseicento
e rotti, allora solo di scarse due per l’infossamento nel terreno, dovuto al
peso, degli intieri contrafforti) tre solai era stati gettati. A fare bene i
conti, un altro padrone, forse due, e ci sarebbe stata l’altezza per chiudere
la terrazza con un’ulteriore soffitta, cosa che avrebbe reso al ben capitato
molto onore.
Montava in quel periodo
l’inizio dell’epopea fascista. Quasi
ogni proprietario si dotava della squadraccia,
la più numerosa era agli ordini del sarracinante,
don Teobardis, il quale, scalzato il sindaco, divenne il primo podestà del
luogo. Le sue mire erano, però, tanto più ambiziose: Roma e il Gran Consiglio.
Aveva posta la sua fila sul Turriazzo poche
settimane prima della fatidica marcia delle camicie
nere, per tanto sosteneva di aver preceduto la Rivoluzione.
Giovannino
Lo chiamavano Juanninu, Giovannino, benché avesse oramai quasi sedici
anni. Di buona famiglia, come si diceva, non aveva bisogno di lavorare, e vi
fosse da fare ne l’emporio di suo padre, Mashrobert,
non v’era dubbio. Per dirne di pochi, enormi i sacchi da caricare su carri o scaricare
e spostare all’interno del negozio, di sementa, di ceci e fagioli secchi, e
quelli di farina e la biada, pesanti rotoli di fil di ferro e pali per le
recinzioni dei poderi. Lui lasciava l’onere ai vecchi genitori e alla sorellina,
mentre curava al meglio la sua passione: la caccia. Non faceva differenza se
alle beccacce, ai pesci spada o alle servette.
L’ovale perfetto del
viso, gli zigomi leggeri e il nasino impertinente, il mento che curvava
dolcemente, venivano impreziositi dai folgoranti occhi azzurri.
Due anni di liceo a Rusciano, la parlantina sciolta e
allegra e roboante, nessuna remora nelle amicizie col basso ceto, facevano di
lui un ricercato da ogni compagnia, per le mamme un ottimo partito per le loro
figliole, benché da questo orecchio ascoltasse poco.
Aveva seguito fin da
piccolo il padre, valente forgiaro e
carpentiere e muratore, e da lui appreso quei mestieri. Quando il genitore si
ritirò dal lavoro manuale, aprendo l’emporio, e il fratello scelto di occuparsi
col vecchio mezzadro - oramai pressoché inabile - del piccolo podere montano di
Cerasello, lui lasciò la scuola per
proseguirlo. Durò ben poco. Il benessere, una lauta paghetta che mai avrebbe
potuto guadagnare col lavoro, gli era assicurato dalla madre, ronna Mararosa, alla quale dava
tutt’altro che fastidio, benché appartenessero ancora al popolino, iniziasse,
in una sorta di rivalsa, a darsi all’ozio e ai piaceri, come i rampolli dei
doviziosi agrari. Da costoro Juanninu
venne, in qualche modo, accolto, meglio dire tollerato, perché, su
raccomandazione della mamma, prodigo e disponibile.
Il figlio del sarracinante, di lui maggiore di sette
anni, lo portò alla riunione dei fascisti
della prima ora, in soldoni quasi tutti i maggiorenti del luogo, per la irreggimentazione
politica delle anarcoidi squadracce in
milizia. Egli vi aderì, certo non per
convinzione - ben poco gli importava di tali affari - quanto perché vi erano
tutti i figli dei nobili e dei benestanti, e un onore per lui, e ronna Mararosa, esserci. Quando però si
dettero i gradi, a esso non toccò neppure un baffetto di caporale, mentre tutti gli altri giovani abbienti,
anche quelli che non presenziarono all’istituzione
del corpo locale, furono nominati capo e vicecapo manipoli.
Ne fu offeso e le
abbandonò. Per questo ricevette prima la visita pacifica del figlio del sarracinante, che tentò vanamente,
offrendogli un fez con un ricciolo bicolore che lo distingueva
dagli altri militi, di farlo rientrare nei ranghi; poi quella, che divenne
quindicinale, del suo manipolo (ossia
della squadraccia, che continuava a
sopravvivere) munito d’imbuto e
bottiglione di ricino.
Ebbero conseguenze anche i
genitori. Mashrobert perse pressoché
tutti i clienti danarosi, che scelsero altri empori ove rifornirsi, gli
rimasero i piccoli proprietari e i coloni. A Mararosa furono tolti il donna
e le frequentazioni altolocate.
Giovannino aprì nuovamente
la sua bottega di fabbroferraio e i primi tempi dimostrò capacità superiori a
qualsiasi altro in quel mestiere. Riempì presto l’officina di attrezzi da
aggiustare, pale picconi falci aratri e carri; cavalli asini e muli facevano la
fila per essere ferrati, tanto che Mashroberto,
pur colpito da un lieve ictus che gli procurò la parziale paresi del
braccio sinistro, dovette a un certo
punto, dargli una mano. Altresì presto, come accadde al padre, anche per lui
gli avvertimenti e i consigli che il figlio del podestà
sparse in giro diminuirono gli avventori, man mano la bottega si svuotò e
dovette richiuderla.
Trovò lavoro saltuario come
terzo, e ultimo, della ciurma della vecchia tartana
di Raisà (rais Archimede), noto
anarchico, cui i militi del sarracinante avevano svelte di crudo le
unghie dei piedi, la cancrena aveva costretto ad amputarli. Da costui apprese le
prime cognizioni socialiste. In seguito il parroco della chiesa Matrice, don Arduino, buon amico del rais, si occupò della sua istruzione
politica. Una volta certo del giovine, questi lo avvicinò allo sparuto gruppo
di antifascisti che si riuniva nella cripta di una cappella sconsacrata.
Fine anni venti
Gli anni passarono
lentamente, fame e miseria facevano da corollario alla prosopopea fascista, la
gente pareva accettarle non già con sopportazione, ma con entusiasmo, persino i
più miserabili osannavano il Duce,
uomo del destino che avrebbe riportata l’Italia ai fasti dell’Impero Romano e la Bassa Foresta a novella
Bisanzio. Juanninu ne osteggiava apertamente il potere, denunciava misfatti
e corruttele, per la sua testardia restava ai margini della società, pur
essendo la sua maestria artigiana superiore a qualsiasi altro del circondario,
e sovente veniva regolato, carezzato ai lombi col manganello e invitato a brindisi con pinte di olio di
ricino. Non ritornava più a casa, per non mettere in pericolo i suoi, dormiva
in barca. Alternava alla pesca giornate mal pagate da muratore e da carpentiere,
e trovava soddisfazione solo alle riunioni notturne nella cripta coi compagni
socialisti, e cura di affetti con l’unica compagna,
Lùcia.
Un giorno uno di costoro, il
veterinario, che aveva informazioni di seconda mano (spesso farlocche) sul
podestà, portò una nuova, che giurò vera. Un suo amico, che lavorava in municipio
- si pensava fosse lo stesso segretario, ma egli non ne fece mai il nome -
aveva ascoltato il sarracinante che
si lamentava con un suo parigrado di Rusciano.
Gli disse che la sua carriera nel regime si era fermata a federale (a esser larghi, a piccolo gerarca di provincia, diciamo noi) per pura sfortuna. Il destino
bastardo, mentre aveva favorito degli emeriti ciucci, a lui riservò l’intemporaneità
(“luogo – cercò di spiegare il
veterinario cosa gli avesse spiegato l’amico intendesse il podestà – dove non le ragioni hanno posto, né le qualità, ma il culo”) di qualche giorno
appena della sua nomina a sarracinante
con la marcia su Roma (prima
sosteneva addirittura avesse preceduto il Duce
nella rivoluzione fascista); e la mancanza di poche braccia per chiudere l’ultimo solaio del Turriazzo, che lo avrebbe reso famoso anche oltre i miseri confini
della Bassa Foresta. Avrebbe ora
avuto idea di unire alla fila di mattoni, che aveva messo in testa al Turriazzo per prenderne il possesso dodici
anni addietro, altre fila e fila e fila... “Me
ne frego della regola di una ad ogni nuovo padrone”... fino a trasformarlo
in magnifico torrione, alto a toccare il cielo, che rilucesse quale mirabilia del regime in tutta la
Calabria. Un’opera d’arte, un colosso da dedicare al Duce, in tal modo acquistarsene la stima e il posto nel Gran Consiglio.
Il fatto non era poi così
eclatante da sortire meraviglia, di fanfaronate del genere il fascismo era un
pozzo senza fondo. Ciononostante, Juanninu
ne restò esterrefatto. Con
circospezione si informò anche lui ed ebbe una qualche conferma.
Il giorno stesso dell’annuncio
del progetto, convocò, straordinaria e di mattino, la riunione alla cripta. Pur
aiutato da Lùcia, ce ne volle a
raggiungere e convincere i sette compagni,
preoccupando non poco ognuno di essi, ma ci riuscì. Disse, senza giri di
parole, che tutti, lì dentro, anche lei, fossero
dei matti visionari, non certo con chiacchiere e volantini si sarebbe riusciti
a far cadere quella gente. Lui se ne tirava fuori, non avendo più voglia di
perder tempo. Rassicurò non li avrebbe traditi, e se ne andò senza salutare,
sbalordendoli.
Dalla cripta si recò
direttamente alla casa del sarracinante,
si presentò colla berretta in mano, con l’umiltà di
un miserabile, e chiese del figlio. La
serva gli disse di aspettare e chiuse la porta. Attese con sempre la berretta
in mano, chiunque passò sulla strada del palazzo lo vide in quella condizione,
a tanti sfuggì una risatina ironica. Restò con le spalle al muro come un
accattone finché calò la sera e decise di andar via.
Vi ritornò il giorno
appresso, di buon ora, con sempre la berretta in mano e mesto in volto. La stessa
serva gli aprì la porta, gli disse di aspettare e la richiuse. Giovannino
attese, senza calzare il cappello, appoggiandosi muto al muro del palazzo come
il giorno prima, come un mendicante. Molta più gente lo vide in quella
posizione, anche i suoi compagni, che
passarono apposta, e la compagna,
costei con le lacrime agli occhi. Alcuno ne sussurrò sottecchi, altri
esplicitamente lo schernirono.
Entrarono e uscirono
persone, le più disparate, dal palazzo, lui sempre poggiato al muro e deriso,
tutt’al più compatito a chi fece pena.
Intorno alla mezza, la
serva gli disse d’entrare. Lo lasciò nell’androne e andò via. Era suonata l’una
quando apparve il figlio del sarracinante.
Egli aveva ancora in mano la berretta, l’uomo ci mise dentro un decino, poi gli chiese: “Chi bbo?” cosa vuoi?
Giovannino, cavò la
monetina e se la mise in tasca, raccolse i pensieri e disse: “Vegnu a vi cercare perdunu e pietà”.
Il figlio del sarracinante stese la mano. Un moto di
ribrezzo salì al giovine dal ventre al cervello, lo vinse e la baciò. Il
signorotto si godette per un lungo attimo la soddisfazione inaspettata, quindi
con bonomia “Bonu recotu” rispose e
gli indicò una sedia, quella più vicina al portone. Chiamò la serva e gli fece
portare un bicchier di vino. Juanninu
lo bevve a piccoli sorsi, mentre il tale a stento riusciva a trattenere il riso.
“Iu...” provò a parlare, voleva
chiedergli di inserirlo nelle maestranze per i lavori al Turriazzo, ma il figlio del sarracinante
non glielo permise. “Ne virimu craje (ci
vediamo domani) – disse – mo vattinne! (ora
vattene)” e lo licenziò.
Passò una settimana prima
che si facesse vivo. E non lo fece personalmente, mandò alla barca di Raisà il fratellastro, figlio della serva che gli aveva aperto la porta. Un ominicchio lattiginoso, con tuba, da cui
gli usciva un ciuffo manzoniano, mostrine sul bavero e medaglie, una serie, sul
doppiopetto grigio; due brutte figurine in camicia nera, fez, calzoni alla
zuava e manganello, gli stavano dietro. Stese costui la mano, picchettata di
orridi foruncoli. Lo sguardo di Giovannino gli consigliò di ritirarla. Chiese i
nomi dei suoi compagni e dove fosse
nascosto il ciclostile, egli rispose
non ne avesse e non sapesse neppure cosa fosse un ciclostile. Il più basso, da
dietro, lo bastonò sulle le cosce e fece svelto due passi indietro, il giovine lo
guardò storto, ma non andò oltre. Il fratellastro
gli rifece la domanda. Lui rispose allo stesso modo. Il più alto lo manganellò
tra i reni e accostò il nanerottolo alle spalle del fratellastro. A Giovanni uscì una smorfia di dolore, neanche
stavolta reagì, e sì dei tre omuncoli ne avrebbe fatto un mucchio.
Il rais, impotente, guardava la scena da sulla murata della tartana, e stupito, avendo conosciuto un
altro Juanninu, non quel pusillanime. Quando seppe, una settimana prima,
quel che aveva pronunciato alla riunione e come si era presentato alla casa del
bastardo sarracinante, gli disse di
non farsi più vedere da quelle parti, ma poi lo richiamò, non gli faceva il cuore d’abbandonarlo. Pur
condannando la sua vigliaccheria (pensava ci fosse sotto dell’altro, il giovine
negò) non smise di volergli bene.
Il fratellastro confabulò coi due meschini. “Tu statt accort (tu stai in campana) – intimò prima al vecchio pescatore, che lo guardava bieco – e tu, cianciarusu, craje vieni a palazzu (e
tu, piagnone, domani ti presenti a palazzo)”.
Andarono via. Il basso gli diede
un’altra randellata di straforo e scappò a gambe levate.
Giovannino si presentò il
giorno successivo a palazzo, sempre di buon ora, con la berretta in testa,
pessime le sue intenzioni avendo in tasca un coltello: a nuove ingiurie avrebbe
replicato, facendo una brutta fine, ma non da solo.
La serva l’aprì, lo fece
subito entrare e accomodare sulla sedia buona del soggiorno. Urlò quindi alla
servetta del primo piano di avvertire il padrone. Questi non si fece attendere,
non era però il figlio, ma lo stesso sarracinante.
Chiuse la porta del soggiorno, squadrò il giovine da capo a piedi e disse,
anche lui, “Bonu recotu”. Non aveva
voglia di chiacchiere, e non ne fece, arrivò subito al punto: “Voggh ca turra eru sarracinu arriva a
tuccar 'u cìelu!” (voglio che la torre del saracino arrivi a toccare il
cielo). Le parole annegavano in un ribollio
liquido che le sommergeva, soffriva di scialorrea
che lo costringeva a sputare di continuo, parlare gli aumentava la già copiosa
produzione di saliva, sul palco e alle riunioni doveva portarsi la sputacchiera.
Lì non ce n’era e sputò per terra un garrocciolo
giallastro come il colore itterico della sua sclera. Gridò alla serva di
portagliene uno, ma prima che costei arrivasse, un’immonda pozza si era
accumulata ai piedi della poltrona.
Aveva acquistato il miglior
granito, continuò nel mentre che sputava, il marmo più pregiato, e porfido e
tufo, fatto squadrare le pietre di Fiumarella,
cuocere i mattoni rossi nelle grandi carcare
di Orignano. “Un’intiera equipe di
famosi ingegneri – e sputò – architetti
e geometri – e risputò – hanno
redatto il progetto” e sputò di nuovo. Tre di costoro avrebbero pure sovrinteso
ai lavori, pronunciò con l’enfasi che gli permise la bocca piena di sputazza. Insperata, quel nauseante
gorgheggio e gli sputi ridiedero fiducia al giovine.
La serva arrivò con una torreggiante sputacchiera d’argento e un
bicchierino di angostura, che il don Teo bevve
d’un fiato, gargarizzò e sputò gocciolante, parte nel tubo, parte sulla donna,
che con uno straccio raccoglieva da terra la sozzura.
Come capomastro della
porzione più delicata (la vecchia struttura) aveva pensato a Mashroberto, continuò. “Puru si catannannatu e 'nciutatu
(anche se scimunito) – disse (più probabilmente credendolo cacciato di casa
per cui in urto col genitore, che per ferirlo) – ev semp 'u chjù spert! (è sempre il migliore)”.
Ma ora che lui, Juanninu, era rinsanito, tanti, per
primo il figlio, gli aveva consigliato di usare la sua riconosciuta perizia. Naturalmente
avrebbe lavorato per l’onore della Bassa Foresta, la grandezza della Calabria
Citeriore, per la gloria del Duce, ossia senza compenso, ché le casse
municipali e le sue personali (sic!) erano vuote.
“L’equipe d’ingegneri, i graniti, il
porfido... tutti gratis et amore Ducis?” pensò
con sarcasmo Juanninu. Lui sì era
alla fame e aveva sperato, pure per questo motivo, lo inserissero nei lavori al
Turriazzu - non certo come capomastro, quella fu una sorpresa. Con
quel compito non avrebbe potuto andare a pesca; coi compagni aveva rotto - da allora il gruppo si era sfaldato - e di
certo non l’avrebbero sostenuto; Lùcia ormai
l’odiava e dai vecchi genitori, caduti in disgrazia quanto egli stesso, non
poteva aspettarsi granché. Ma ce l’avrebbe fatta, si disse, i muratori portano
sempre dietro la truscia con
maccheroni, uova bollite e patate alla cenere, un po' da ciascuno e...
“Sì! –
rispose con entusiasmo sull’ennesima racchitata
immonda del sarracinante – ve fazz fari na figura che ve arrà ppe
numinata! (vi faccio fare una figura che vi andrà per nominata!)”
Impressionante il numero
degli operai previsti, almeno una sessantina gli disse il sarracinante, tutti agli ordini di un capomastro e un
sovraintendente per ogni sezione del Turriazzo.
A lui la prima, la più delicata: doveva rinforzare la struttura portante,
le mura a scarpata, dalle fondamenta ai contrafforti infossati alla parte
sopraelevata sul terreno. Gli
affidava tre muratori, ritenendolo più che esperto non gli affiancava, disse,
né l’ingegnere né l’architetto, ma solo il geometra.
Per tutta la spiegazione, non
volendo interromperla con una santa sputata, la saliva all’uomo uscì dai lati
della bocca. Alla fine, parte ne raccolse con la lingua, altra colle dita,
spandendola sul mento e sulle gote, sparò un’immane racchitata nella sputacchiera, marcata da una mezz’ora di immondo
liquame, gli consegnò i progetti e lo licenziò.
Il torrione di Babele
I lavori per lui iniziarono
da lì a qualche settimana, si attese la fine di marzo e delle piogge, cosa di
cui il nostro giovine si dolse.
Gli fu consentito di usare
il materiale che ritenesse più congruo. Scelse legno per l’interno, tavelle e tavelloni con cui intendeva, incrociandoli dagli angoli,
abbassare a spiovente, da mezzo del muro più alto, il primo solaio fino a grado
zero, per sopperire alle forze diverse che agivano a causa dell’infossamento. E
l’acciaio. A riguardo, spiegò al
geometra bisognasse forare la struttura muraria e riempirne i buchi con barre
lunghe tre volte le mura e annodate all’interno, di diametro da 5 dita in basso, man mano decrescenti a 1 e ¾ salendo fino sotto il primo solaio,
cui avrebbe dovuto cambiare le travature.
Il tecnico, colpito dalla
semplicità nell’individuare la soluzione, riconobbe nel giovine un talento
singolare, restò, tuttavia scettico sull’annodamento. Giovannino glielo
dimostrò nella sua officina, usando un argano di sua invenzione sulla barra più
spessa, quella di 5 dita, temperandola,
grado grado torcendola, infine annodandola. Lo sbalordì!
Il tocco finale sarebbero
state le pietre angolari da inserire,
a ragione dell’infossamento della base, negli spigoli delle mura a scarpata.
V’era un bel po’ da fare e
non persero tempo, l’intiera opera doveva essere pronta per la vendemmiata fascista della Bassa autarchica,
festa settembrina voluta dal podestà sarracinante
sulla falsa riga di quella della covonata
autarchica del littorio istituita nel Pontino
dallo stesso Duce. La sua squadra era
la prima che doveva completare il lavoro, perché le altre potessero man mano
operare e portare a mirabilia del
regime il Turriazzo, innalzandolo a
toccare l’empireo.
Quattro settimane, ventotto
giorni ininterrotti se non dalle tenebre che le lampade a citolena (acetilene) non riuscivano a vincere, durò l’intervento. Juanninu dormì all’aperto per tutto il
tempo e si nutrì della generosità dei suoi tre muratori. Fece quanto aveva
dichiarato e il lavoro non lasciò pecche: tavelloni e tavelle perfettamente
incrociate; le barre di acciaio sistemate nei muri e, ricoperte con malta e
pietre della Fiumarella tagliate ad
arte, sparite alla vista; ogni petrangola
al suo posto a sostenere il grosso del peso. Fece per due giorni gocciolare
acqua su tutta la manifattura, poi la consegnò al geometra, che s’era fatto
vedere nel cantiere solo tre volte, perché se ne prendesse il merito.
Le altre squadre
principiarono subito a operare, lui ritornò alla barca di Raisà. Questi lo scrutò, gli sputò dalla murata, poi gli consegnò
le coffe: l’aveva riaccolto. Juanninu le prese e si posizionò sotto la
chiglia, tra le lacrime allescò gli
ami con sarde e pezzi di totano.
Non andò mai alla Torva per vedere come procedessero i
lavori, il timore avesse sbagliato i calcoli, che qualcosa andasse storto lo
tenne lontano. Visse quei mesi come un confinato,
in barca o sulla spiaggia, con i fantasmi delle sue colpe a fargli compagnia,
senza amici né affetti, i genitori e la sorella, venduto l’emporio, si erano
trasferiti in montagna, raggiungendo il fratello, a coltivare patate nel
piccolo podere rimasto in loro proprietà di Cerasello.
L’opera mirabile
La costruzione era stata
visitata da grandi personalità durante i lavori, il sarracinante mosse tutte le sue pedine perché ne venisse a
conoscenza il Duce e il Gran Consiglio, e la cosa gli riuscì:
smosse dalle loro sedie questori,
podestà, prefetti, federali,
monsignori, coinvolse l’Opera
nazionale combattenti, quelle del dopolavoro
e dell’infanzia e maternità.
Arrivò il giorno
dell’inaugurazione della mirabilia. Il
Turriazzo saliva alto per trenta tese (55 metri!) e sulla sommità era
posto un colossale fascio littorio in
bronzo di sei cubiti. L’opera era
stata ricoperta da enormi tendaggi con funi che l’avrebbero liberata e mostrata
al mondo al momento opportuno.
Juannino,
la notte precedente fece arrivare con un bambino un bottiglione di vino ai due
cialtroni a guardia, attese nascosto che si ubriacassero e cadessero nel sonno.
S’introdusse sotto i tendaggi con un mazzuolo di legno e uno zaino di canapa, al
buio, tastando a tentoni il muro, fece saltare in un sol colpo tre della
quattro pietre angolari, lasciando
solo quella sul davanti, mise i pesanti massi nella capiente bisaccia e andò
via.
Si portò alla casa di Lùcia, picchiettò sulla sua finestra, la
ragazza lo scorse da dietro il vetro, l’aprì. “Vai via” gli disse prima che potesse parlare e la richiuse. Lui
picchiettò di nuovo. Attese. Picchiettò nuovamente. Attese. Sconfortato si
avviò. Il quel momento sentì la vocina dolce della compagna “Che vuoi?”
“Vorrei che avvisassi i compagni di venire domani
all’inaugurazione” le rispose.
“Vai a fare in culo tu e il tuo sarracinante!” disse la ragazza sputandogli a lato dell’orecchia.
“Vieni, poi tu e i compagni potrete sputarmi
direttamente in faccia”.
“Non verrò e non dirò nulla ai compagni. Vai via,
non farti più vedere!” e chiuse
le ante.
Già dalle prime ore del
mattino una grande folla prese a salire la montagnola Torva. Decine di mamme
autarchiche e figlie della lupa in
divisa scilavano quintalate di maccheroni a ferretti, passavano
pomodori della Bassa, cuocendone in
enormi pentoloni il sugo con carne di castrato con cui condirli; friggevano, arrostivano, lessavano a
zuppa autarchici pesci d’ogni specie,
sarde, spigole, dentici, orate; giovani
arditi rosolavano porchette, cinghiali, e cacciagione, la più varia; e verdura
cotta e cruda, e frutta e dolci, dalle scalille
alla pasta a cumbett a crustuli e turdilli: una tavolata pantagruelica si stava approntando.
Le numerose autorità in
arrivo furono accolte nel palazzo del podestà per un rinfresco che durò ore.
Intorno alle nove, uno stuolo di nere balilla
509 Fiat precedeva e una
camionetta scortava una rosseggiante Lancia
Lambda Torpedo col tettuccio alzato. Il
corteo intasò la pur capiente piazza
Monumento. Circondato da federali e
gerarchietti di tutta la Calabria e
da un corpo scelto di miliziani, con
accanto l’episcopo consenziano, scese
e avanzò verso il municipio, seguendo i militi a passo d’oca, l’eccellenza più
eccelsa dell’intiero Meridione: il trumviro
Michelarcangelo Biancii.
Il sarracinante, avvertito, corse giù per le scale a rotta di collo a
riceverlo. I militi si aprirono all’ordine del triumviro, lo fecero entrare nelle loro fila e si richiusero. Don Teo, dando il benvenuto, baciò,
stomachevolmente umettandola, la mano alla somma personalità, l’episcopo si guardò bene dal dargliela.
L’eccellenza tolse un fazzoletto dal
collo di un milite e se l’asciugò. Strinse poi con le nocche, tenendola a sé
distante, la flaccida guancia al podestà, provocandogli un travaso di saliva
che invase lo stesso prelato e tre o quattro soldati, e disse: “Mi hai fregato, brutto figlio di una
vemmaruca (lumaca), anch’io avea in
mente di trasformare la mia torre Vascia di Bellavista in maestosa piramide (suo
sepolcro lo diventò da lì a poco), ma non
l’ho fatto, e ora non posso più a causa tua. Andiamo a vedere cosa hai
combinato”.
La voce della presenza alla
Bassa Foresta di tanta gloria del
regime si propagò in un baleno per villaggi e paesi. Il tempo dell’aperitivo
nel salone del municipio e la già copiosa folla triplicò nella valle del Traenzio.
A mezzogiorno in punto, al
suono della rinomata banda di Orignano
Schiabonea, in testa il trimviro, a
un braccio l’episcopo i federali e il sarracinante, poi gli ospiti e la milizia, in fondo la moltitudine,
si avviarono a passo veloce, da fascisti, verso la montagnola Torva, che dal paese distava allora
almeno tre miglia.
Arrivarono alla mezza. Ad
aspettare il corteo, oltre a una folla immensa che stazionava nel luogo dalle
prime ore della giornata, tutte le maestranze, ingegneri, architetti e geometri
che avevano portato a termine l’opera grandiosa. Il servizio d’ordine, la squadraccia del sarracinante, ebbe un bel daffare, e usò
anche il calcio del moschetto, per impedire a chiunque, eccetto che alle
autorità, di brancare i manicaretti già sulla tavolata.
Il turriazzo stagliava la sua sagoma coperta in modo impressionante,
un ohh! di meraviglia si alzò dai
tanti stranieri, rendendo orgogliosi i locali.
Sistemati i cordoni per
evitare la calca sulle personalità, al nostro Juannino fu riservato, unico degli indigeni, un posto in terza fila
accanto ai progettisti e a federali e
podestà.
Il sarracinante salì sul palco, in giubba di orbace a doppio petto, senza bottoni, chiusa in vita da una larga
cintura nera su cui cadevano una sfilza di medaglie e decorazioni, sulle
controspalline un fascio littorio in oro, come in testa al fez.
Pronunciò “Camerati...”, la tensione, però, e
l’assenza della sputacchiera, di cui maledì il figliastro, lo indusse a desistere e invitare a salire il triumviro.
Questi tenne un discorso
breve – non superò l’ora canonica – principiando sulla romanità dell’italica gens,
magnificandone l’indole guerriera che avrebbe riconquistato l’Orbe intiera col Duce, la cui ubiquità lo portava, in quel medesimo istante,
nell’animo di tutti i presenti sulla Torva.
La commozione toccò i precordi a ognuno, tra le lacrime qualcuno urlò Duce! Duce! Duce! seguito all'istante
dall’assordante, inarrestabile Duce!
Duce! Duce! della moltitudine, il che convinse l’eccelso oratore a terminarla lì.
Il servizio d’ordine tese
una fascia tricolore sul fronte dell’opera,
il triumviro e il sarracinate vi si accostarono, presero
ambedue dal cuscino ove era poggiata la grande forbice e, nel tripudio
generale, la tagliarono.
Immediatamente quattro
militi si portarono ai cordoni dei tendaggi che ricoprivano la mirabilia, a un cenno del sarracinante tirarono all’unisono e
apparve... grandiosa, immensa, monumentale la stazza del nuovo Turriazzo, con in cima, a toccare
l’empireo cielo, imponente il bronzeo fascio
littorio. L’episcopo, nel
benedirlo, disse che la stele di Axum a
paragone diveniva una torretta.
La folla rimase muta,
impressionata, felice. Il triumviro e
il sarracinante si avvicinarono al
maestoso portone in massello d’ulivo, il primo invitò il secondo ad aprirlo. Un
milite gli porse l’enorme chiave, il sarracinante
la infilo nel perno, con sussiego girò la prima delle sette mandate, si
voltò, l’applauso e il grido Duce! Duce!
Duce! si levarono alti, coprendo un leggero scricchiolio della torre.
Seconda, terza e quarta mandata furono tolte in rapida successione. Si fermò.
Gli parve che la serratura stridesse, come se non ben oleata. Girò la sesta
mandata e... un crepitio seguito da un boato lo fece retrocedere di un passo,
che divennero due tre quattro, insieme agli altri che gli erano accostati,
spostando indietro la calca, quando l’unica pietra
angolare rimasta si sbriciolò sotto i
loro occhi. Boati e crepiti si susseguirono in modo parossistico, l’enorme fascio littorio oscillò e cadde, la
torre tremò, ruggì, strepitò, poi tacque. Dopo un attimo infinito tremò di
nuovo, ruggì, strepitò, diede tempo a tutti di allontanarsi e, con un fragore
indicibile, rovinò, pietra su pietra!
Juannino,
con in volto la fierezza, al contrario della moltitudine che, non riuscendo a
credere a quel ch’era accaduto, attonita osservava il disastro, prese a
scendere la china. Per prima vide Lùcia,
che, ammirata, con gli occhi lucidi lo guardava, dietro di lei i sette
compagni, tutti insieme alla luce del sole. Passò in mezzo a loro “Ci vediamo stanotte” disse e proseguì.
Mimmo Bitonto
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