Il dono delle fate

di Pierpaolo Cetera


Delle complesse interconnessioni e legami tra il presente e il passato di un luogo e di una società ne è consapevole la gran parte delle donne e degli uomini dediti agli studi. Quel che sfugge, mi pare, è che il presente non sorge all’improvviso – come una Pallade Atena dalla testa di Zeus- e non è un’epifania: ogni cosa è legata con fili sottilissimi alle successioni temporali, ogni realtà è frutto perché ha radici. Anche un oggetto qualsiasi, che ci sta davanti agli occhi “qui e ora”, pur essendo manufatto da qualche giorno, da qualche mese o da qualche anno, rimanda a un intreccio che assomma la nostra esperienza collettiva con l’abilità e la conoscenza dell’individuo che l’ha progettato, del soggetto ( o i soggetti) che l’ha (hanno) realizzato; e tutto rimanda a chi vivendoci ne mostra l’utilità o la bellezza (o, per contro, l’abuso o lo sfregio) per la sua e la nostra vita.
L’intelligenza dovrebbe esentarci dal culto feticistico delle origini e dell’anticaglia come unico e serio oggetto di studio.
Raccontava Marc Bloch nella sua Apologia della storia o Mestiere dello storico che il suo anziano amico e collega Henri Pirenne, in visita a Stoccolma, appena sceso dal treno alla stazione e incontrato l’amico gli chiese di voler visitare il Municipio della città: «pare che ci sia un municipio nuovissimo!», disse il grande storico di “Carlo Magno e Maometto”. E per anticipare ogni possibile stupefazione del giovane collega, continuando disse: «sono uno storico. Ecco perché amo la vita».
Credo che questo noto aneddoto possa servire per un inizio di un discorso sul nostro rapporto con il passato e il recente passato. Il nostro, dico di noi calabresi, in generale. Sovente mi è capitato di viaggiare nei diversi paesi della nostra terra: una visita al centro storico di …, un salto in quella chiesa nota per essere caso unico più che raro di architettura …, al museo dove è custodito il … o per librerie e mostre d’arte. Non è raro il momento in cui scambio qualche parola con qualche abitante del luogo visitato: al giovane o all’anziano rivolgo, provocatoriamente, la domanda su “cosa c’è da vedere qui?” e non è altrettanto raro che mi sia data la solita risposta … «non c’è niente, qui non c’è niente da visitare!». Altre volte con gli stessi amici che vivono in paesi viciniori mi capita di discutere, di chiedere sulla recente storia del proprio paese, se politicamente era stato governato da quella o da quell’altra ideologia, se vi fossero stati episodi degni di essere ricordati o fatti rimasti impressi nella “memoria comune”, e la risposta  – quasi un mantra – è la stessa: “niente … non è successo niente …”. Eppure anche i muri parlano, con le loro scritte quasi scomparse, i volti mi parlano (volti di ragionieri di ditte floride o in crisi, volti di contadini arrugati dal sole), le loro case e le loro fogge mi parlano, i campi ben arati e gli alberi piantati in piazza, i nomi delle vie e i cognomi sui campanelli, il giardino di casa o la colonna a mo’ di tempio piantata come un trofeo m’informa … ma gli uomini no, non sanno.
 Ecco che a volte so di cosa mi occupa la mente: far parlare i muti!
A volte è questa una percezione media: so che se incontrassi solitari appassionati qualcosa verrebbe fuori …
Voglio dire, per concludere, usando ancora un’espressione di Marc Bloch, nessuno ha avuto “il dono delle fate”, quella curiositas per le nostre cose e i nostri fatti “degni di esser raccontati … perché delle cose avvenute da parte degli uomini non svanisca col tempo il ricordo” (Erodoto), quello stimolo che non si «potrebbe pretendere di acquistare, qualora non l’avessero trovato nella propria culla?».

        

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