La legalità umile che difende i valori. In memoria di Dodò Gabriele
di Tommaso Greco
Ho avuto il privilegio di
partecipare a un incontro sulla legalità dedicato alla memoria del piccolo Dodò Gabriele, il ragazzino di 11 anni ucciso a Crotone nel 2009 dalla furia di un
killer ‘ndranghetista, mentre giocava a calcio con il suo papà ed alcuni amici.
All’incontro, tenutosi a Pisa nella Sala del Convento dei Cappuccini e
organizzato dalle associazioni “Libera Pisa” ed “Esperia”, hanno partecipato
numerose persone, venute ad ascoltare la testimonianza di Francesca e Giovanni,
i genitori di Dodò, che hanno saputo trasformare il dolore immenso della
perdita del loro unico figlio in un ‘moto continuo’ di impegno civile. Alla
testimonianza di Francesca e Giovanni si è unita quella di Rocco Mangiardi, l’imprenditore
di Lamezia Terme che ha avuto la forza e il coraggio di denunciare coloro che
gli intimavano di pagare il pizzo “se voleva stare tranquillo e voleva vivere
in pace con la sua famiglia”.
Difficile fare qualche
riflessione dopo aver ascoltato le parole di Francesca, Giovanni e Rocco, che
con estrema semplicità e umiltà hanno raccontato le loro esperienze, senza
atteggiamenti da ‘eroi’, senza nemmeno pretendere di insegnare nulla, ma
semplicemente trasmettendo a chi li ascoltava il senso e le ragioni di una scelta,
che non era affatto scontata, ma che è stata appunto scelta tra altre possibilità, tra altre strade ‘più consigliate’. In
questi casi, la via più semplice è quella del silenzio, del piegare il capo
alla disgrazia, del subire la violenza per evitare altri danni. E invece, qui
si è scelto — anche grazie alla spinta di chi ha saputo stargli vicino — di non
tenersi le cose per sé, di fare in modo che quella disgrazia divenisse un nuovo
inizio per sé stessi e per gli altri. Con umiltà: la parola che Francesca ha
usato nel suo intervento per descrivere le persone che la ascoltavano — “vedo
in voi persone umili”, ha detto — e che descrive soprattutto così bene
l’atteggiamento con cui lei e suo marito procedono nel loro cammino, nel quale
un dolore privato causato da un Male radicale sta diventando sempre più fonte
di un Bene pubblico e condiviso, che a partire da casi come quello di Dodò può
riscoprire i valori sui quali la convivenza deve poggiare se vuole essere libera
dalla paura.
Alcuni dei valori in gioco
sono resi evidenti proprio dal caso di Dodò, nel quale essi sono stati negati e
calpestati. Quali sono questi valori? Ne indicherei tre, scegliendogli tra gli
altri.
Innanzi tutto — naturalmente
— il valore della vita. Quel valore
che è all’origine di tutto, e quindi di tutti gli altri valori, e che nemmeno i
più assolutisti tra i pensatori politici hanno concepito come un valore al
quale si può rinunciare. La vita non ci appartiene del tutto, e proprio per
questo non può diventare appannaggio di qualcuno che se ne dichiari padrone. E
invece, con Dodò, si è fatto questo: qualcuno è arrivato con un’arma su un
campo di calcetto e si è dichiarato padrone della vita di coloro ai quali stava
sparando all’impazzata. Una violenza senza limiti, un’arroganza senza fine.
Il secondo valore negato è
quello del gioco. È un valore, il
gioco? Lo è: è uno dei presupposti della ‘fioritura’ umana, dice il filosofo
americano John Finnis, e noi lo sappiamo tutti perché lo sperimentiamo da
piccoli e da grandi, quando capiamo che le cose che facciamo meglio sono quelle
nelle quali ci ‘divertiamo’; quando capiamo che grazie al gioco si comunica
meglio superando le barriere generazionali (le partite a carte col nonno sono
un momento fondamentale della crescita di un bambino); quando mediante il gioco
rendiamo vivi gli spazi nei quali viviamo (è sempre un
bel segno quando si vedono dei bambini giocare in una piazza). Il gioco è socialità,
il gioco è rispetto degli altri, anche mediante il rispetto delle regole, senza
le quali il gioco non esiste. È tutto questo che hanno negato gli assassini di
Dodò.
Infine, con l’uccisione di
Dodò è stato calpestato il valore dell’innocenza. Un valore assoluto, perché
fare del male ad un innocente è il massimo dell’ingiustizia, come ci ricorda
Ivan Karamazov; e perché non c’è cultura che non condivida questo assunto. Che
qualcuno possa perseguire i suoi scopi pensando di calpestare l’innocenza è
dunque il massimo della barbarie.
Tre valori che sono stati crocifissi uccidendo Dodò. Dal sangue di quella crocifissione può però scaturire una nuova vita, come sperano col loro impegno i genitori di quel povero ragazzino, che proprio nell'ottobre scorso avrebbe compiuto diciotto anni.
Ecco a cosa serve allora la
legalità: a tutelare valori come questi. Quando si dice che “legalità” è il
rispetto della legge non si vuol dire semplicemente che si deve rispettare ciò
che è scritto in una norma, qualunque sia il suo contenuto. A un concetto formale come
questo si appellano persino i criminali quando devono giustificare le loro azioni.
Legalità e rispetto della legge implicano invece, innanzi tutto, l’idea del governo della legge, l’idea cioè che
siamo tutti — tutti — sottoposti alla stessa legge, a cominciare da quelli che
hanno il potere, a cominciare da “quelli che comandano” ad ogni livello e in ogni situazione.
Perciò, “legalità” è rifiuto della violenza e della forza, rifiuto
dell’arroganza, rifiuto della logica del “qui comando io!”.
La barbarie delle mafie e
della ‘ndrangheta sta prima di tutto nella perversione del voler imporre il
governo della violenza là dove dovrebbe esserci il governo della legge. I grandi padri del pensiero antico hanno insistito su questa idea della legge come ripudio della
violenza, nella convinzione che se non c’è la legge ci sono la forza, dominio,
la prevalenza arbitraria di alcuni motivata esclusivamente dalla protervia e
dall’arroganza.
Allora — lo dico soprattutto
ai miei conterranei calabresi, troppo spesso votati all’autocompiacimento di
chi pensa di vivere nella terra “più bella del mondo” — se c’è un insegnamento
che il caso tragico di Dodò può lasciarci è questo: il rifiuto della violenza e
quindi il rifiuto di aver a che fare con coloro che sulla violenza prosperano e
crescono ogni giorno. Perché qui non si parla solo di coloro che arrivano con
un mitra su un campo di calcetto; si parla anche di tutti quelli che, ogni giorno,
abusando dei loro poteri e delle loro posizioni, negano il diritto alla vita,
al gioco, all’innocenza nei luoghi più disparati: negli ospedali, nelle amministrazioni,
nelle scuole, sul lavoro, nei luoghi pubblici che dovrebbero essere destinati
alla socialità. La difesa dei diritti chiama in causa ciascuno di noi nei rispettivi
ambiti e si traduce in una rinnovata coscienza del proprio dovere: a cominciare
dal dovere di non mostrare alcun rispetto per coloro che prosperano sull’arroganza
e sulla violenza. Rocco Mangiardi ha ricordato la felicità che ha provato quando, durante il processo, ha potuto puntare il dito contro i suoi estorsori. E' un gesto che possiamo fare, nel nostro piccolo, ogni giorno, anche semplicemente negando i nostri sguardi compiaciuti e pieni di ammirazione verso coloro che hanno basato tutto sulla sopraffazione e sulla negazione della dignità altrui. L'ammirazione e il compiacimento sono un humus fertile sul quale uomini piccoli e codardi basano il loro potere.
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