Carmine Abate
Continuiamo ad arricchire le pagine del Laboratorio Camenzind con i contributi che Giuseppe Muraca ha dedicato alla letteratura calabrese. Muraca è ben conosciuto come critico letterario, attento soprattutto agli autori 'eterodossi' (come ad es. Luciano Bianciardi, cui ha dedicato una monografia). Egli ha svolto anche una intensa attività di promozione culturale, fondando riviste e case editrici, collaborando con intellettuali di diversa provenienza, e stando dunque da protagonista all'interno di un'ampia e vivace rete culturale. Dentro questa rete si colloca anche la sua collaborazione con l' "Ora locale", la rivista fondata e diretta da Mario Alcaro -- una delle maggiori e più importanti esperienze nate in Calabria negli ultimi decenni e una delle voci protagoniste della rinascita 'meridiana' --, sulla quale Muraca ha pubblicato diversi articoli. Riprendiamo qui due contributi dedicati da Muraca a Carmine Abate, lo scrittore di Carfizzi il cui lavoro di cantore arbëreshë è stato coronato da un grande successo, che si è esteso ben oltre i confini nazionali. Come scrive Muraca, grazie a Carmine Abate "la letteratura calabrese è di nuovo
uscita dal chiuso provincialismo in cui era caduta nell’ultimo ventennio ed è
riuscita a porsi di nuovo all’attenzione della cultura internazionale".
I due contributi Muraca -- un piccolo (ma denso) saggio e un'intervista --, sono stati pubblicati, il primo su "duemilaragioni", il secondo (l'intervista) su l' "Ora locale" n. 24 (2001)
Carmine Abate,
grande scrittore calabrese e cittadino del mondo
di Giuseppe
Muraca
Ho
conosciuto Carmine Abate dopo l’uscita del suo secondo romanzo, La moto di Scanderbeg, presso l’editore
Fazi di Roma, che aveva da poco ristampato anche Il ballo tondo. L’impressione che ho ricevuto sin dal primo
momento, poi confermata negli incontri successivi, è stata quella abbastanza
particolare di avere davanti a me un inguaribile e generoso sognatore, che coi
suoi occhi grandi, vispi e profondi sembra fissare e inseguire continuamente
l’orizzonte lontano alla ricerca di una meta forse irraggiungibile,
assomigliando un po’ allo sfortunato eroe del suo secondo romanzo, Giovanni
Scanderbeg, che sognava un mondo diverso e che correva in sella alla sua Guzzi
Dondolino per le campagne assolate del marchesato nell’immediato dopoguerra, al
tempo delle lotte contadine contro il latifondismo. Sì, è proprio un sognatore
Carmine Abate, un uomo che si sente un “cittadino del modo”, cioè che immagina
sempre un mondo senza confini e senza barriere, che chiama gli altri per nome e
li considera fratelli. Così dietro quel viso che a prima vista sembra ostentare
sicurezza si nasconde, in realtà, un’inquietudine di fondo, l’ansia di un uomo
che corre da un capo all’altro del nostro paese e dell’Europa, che è sempre
alla ricerca di se stesso, di un’identità perduta che è ormai impossibile
recuperare pienamente, di una via di fuga da una realtà disumana e opprimente,
di un equilibrio interiore sempre agognato e mai raggiunto pienamente, nel
tentativo di dare un senso alla vita e un ordine al caos di un mondo che sempre
più sta andando a pezzi, cancellando selvaggiamente secoli di storia millenaria
e minacciando persino la nostra presenza sulla terra. Non a caso questa frase
de La moto di Scanderbeg: “Se ti dicono
di restare parti se ti dicono di partire resta” può essere benissimo
considerata la summa del pensiero e dello stile di vita di questo scrittore.
Abate
si è fatto le ossa scrivendo poesie, poi ha scritto insieme alla moglie Meike
Behrmann, sociologa tedesca, un saggio socio-antropologico, I germanesi, in cui ha analizzato, con
metodi scientifici, la realtà e i flussi migratori del suo paese e la
condizione dei suoi paesani emigrati in Germania, e soltanto dopo un lungo apprendistato
si è calato nei panni del narratore. Al loro apparire i suoi primi racconti e Il ballo tondo erano passati quasi
inosservati e non avevano ricevuto l’attenzione che meritano. Poi la
pubblicazione del suo secondo romanzo, La
moto di Scanderbeg, e l’immediata e successiva ristampa del primo lo
avevano proiettato all’attenzione della critica più accorta e gli avevano fatto
conquistare l’interesse incondizionato di un sempre maggior numero di lettori.
Un successo meritato perché Il ballo
tondo è un libro bellissimo, straordinario e di raro equilibrio narrativo,
un romanzo di formazione davvero inconsueto, dal respiro corale dove la storia
di Costantino Avati e della sua famiglia s’intreccia con le vicende collettive
di un intero paese. Così la mitica Hora, proiezione simbolica di Carfizzi, suo
paese natale, diventa una sorta di palcoscenico su cui una miriade di
personaggi singolari lotta quotidianamente per realizzare i suoi sogni e una
migliore condizione di vita e che nella vita quotidiana, nella sua cultura, nei
suoi costumi e nei suoi riti rivive il vecchio mito dell’eroe Scanderbeg che ha
difeso la sua patria contro i Turchi sacrificando la sua vita per il bene
comune. Una sorta di storia circolare, ciclica che ha il sapore e il tono
dell’epopea, scandita secondo i tempi e il ritmo del canto popolare e del
“ballo tondo”, appunto. La moto di
Scanderbeg ha confermato la vena popolare e la grazia di questo scrittore
che ha ambientato la sua nuova storia tra la sua Hora e la Germania, meta
privilegiata degli emigranti di Carfizzi e dello stesso scrittore e della sua
famiglia. Il romanzo ruota intorno alla figura tormentata e contraddittoria di
Giovanni Alessi, un intellettuale sradicato di origine arbërësh alla continua ricerca della propria identità e diviso fra
l’amore controverso per la bella Giulia Camarda e il richiamo e il rimpianto
delle proprie radici e della propria terra. Sullo sfondo c’è sempre il mito di
Scanderbeg che rivive nella figura leggendaria del padre di Giovanni, uomo
forte, generoso e ribelle che nell’immediato dopoguerra si pose alla testa dei
contadini nella lotta per la giustizia sociale, correndo da un capo all’altro
del marchesato sulla sua rombante Guzzi Dondolino. Dopo la morte di Scanderbeg,
che cade da una rupe per una stupida scommessa, la moto passa in eredità del
figlio Giovanni, rappresentando di fatto l’anello che lo collega strettamente
alla memoria del padre e del proprio passato. La “storia” viene raccontata da
diverse “voci” narranti: a pagine scritte in prima persona singolare e di
carattere diaristico, vengono infatti intercalate pagine scritte in terza
persona singolare o in prima persona plurale, un “noi” che corrisponde al
gruppo degli amici di Giovanni. La moto di Scanderbeg è un’opera quindi a
“mosaico” in cui i vari frammenti sono però incastonati armonicamente in una
struttura unitaria e compatta, con passi di intenso e struggente lirismo che
s’intrecciano con momenti di ispirazione autobiografica o di indagine sociale e
antropologica. Impegno politico e civile vengono infatti fusi in un’opera di
alta resa stilistica e di rara efficacia letteraria. I due primi romanzi di
Abate sono strettamente legati fra loro e quindi compongono un vero e proprio
dittico, la cui importanza non dipende soltanto dalla loro singolare pregnanza
e dal loro valore letterario ma anche dal fatto che essi rappresentano un
affresco sincero, fedele e veritiero del mondo contadino e popolare del nostro
mezzogiorno.

Come
lui stesso ha spiegato ripetutamente, la sua lingua ha infatti un timbro
particolare, il suono intenso, arcano e magico delle antiche rapsodie popolari
che le nonne ci raccontavano accanto al focolare, dei racconti dei vecchi
cantastorie che giravano per le nostre contrade in tempi ormai lontani, un
ritmo e una musica che incantano e trascinano il lettore, come “una voce netta
che sembra[…] arrivare da un mondo lontano, da un altro tempo”; una lingua
colorita e intensa che però porta dentro di sé i segni del dolore, del sudore,
delle sofferenze e della ferite di un intero popolo che per le follie della
storia oltre cinque secoli fa fu costretto a fuggire dalla sua terra devastata
dai Turchi, ad abbandonare le sue case e a disperdersi per il mondo e che ancora
oggi è costretto ad emigrare per sfuggire di nuovo alla guerra, alla miseria e
all’isolamento alla ricerca di una migliore condizione di vita. Una lingua
antica e moderna, al tempo stesso, arricchita da tutte le lingue della vita e
della formazione culturale di questo scrittore (l’arbërershë dei suoi avi, l’italiano imparato a scuola, il dialetto
calabrese e il tedesco assimilato nei lunghi periodi di emigrazione in
Germania, ecc.), che ha frequentato l’Università a Bari, ed è emigrato sin da
ragazzo in Germania dove ha trascorso lunghi periodi, prima come studente-lavoratore
e poi come insegnante d’italiano, e si è poi stabilito in Trentino (in un terra
di confine e di mezzo, come l’ha definita lui, tra la Calabria e la Germania)
dove insegna lettere con la passione di un novizio ai ragazzi della Scuola
Media. Lui ha quindi vissuto sulla propria pelle il problema dell’emigrazione,
che se da un lato ha rappresentato un’esperienza dolorosa e traumatica, per
altri versi è stato da lui considerato in maniera positiva, cioè come un
momento di continuo arricchimento culturale e antropologico, come un’esperienza
che gli ha permesso di ampliare continuamente le sue conoscenze e di interagire
e di integrarsi con altri mondi, altre razze e altre culture. E questo è senza
dubbio un aspetto importante che lo distingue nettamente dagli altri scrittori
meridionali che hanno sempre considerato il problema dell’emigrazione in
maniera estremamente negativa. Le sue storie affondano quindi le radici in
mondi diversi e in culture diverse, che fanno ormai parte integrante del suo
bagaglio culturale, della sua natura e della sua essenza di uomo e di
scrittore. Abate è infatti uno scrittore cosmopolita che continua a nutrirsi
però della vecchia saggezza contadina, quasi alla continua ricerca di quelle
certezze che non riesce a trovare diversamente. I suoi libri sono disseminati
di citazioni, di proverbi, di vecchi canti arbërershë,
di frammenti di canzoni popolari moderne, che arricchiscono la narrazione e la
rendono molto suggestiva e avvincente. Pertanto la sua opera non ha solo un’importanza
prettamente letteraria e culturale ma anche di carattere antropologico in
quanto presenta un ampio e approfondito repertorio di notizie su tradizioni,
usi, costumi e riti appartenenti alla civiltà contadina, cioè a un mondo che
non esiste più o che sta per scomparire per sempre. Non a caso l’antropologo
calabrese Vito Teti ha seguito con grande attenzione l’attività letteraria di
questo scrittore sin dall’inizio della sua carriera. Il suo mondo è immerso in
un alone fantastico, mitico, leggendario, ma pochi scrittori come lui sono così
radicati nella realtà del nostro tempo, hanno saputo rievocare con pari intensità
il trapasso dalla civiltà contadina al mondo moderno e postmoderno. E la linfa
vitale dei suoi racconti nasce proprio dall’osservazione attenta e diretta,
quasi maniacale dei fenomeni della natura, della realtà di tutti i giorni, dei
più elementari fatti della vita e dei genuini sentimenti dell’uomo comune,
dalla rivisitazione in chiave mitica della figura leggendaria di Scanderbeg,
della storia del popolo albanese e degli arbërershë
di Calabria, dagli eventi traumatici e dolorosi che hanno segnato il nostro
tempo. E proprio da qui nasce il suo impegno civile, il suo spirito di denuncia
(che non diventa mai retorica), la sua indignazione per lo scempio
dell’ambiente naturale, il suo dolore per una vita che conclude il suo ciclo o
per le tragedie della storia.
Il
suo ultimo romanzo, pubblicato lo scorso anno dall’editore Mondadori (come il
resto dei suoi libri più importanti), che da alcuni anni è diventato il suo
editore di fiducia, si intitola Gli anni
veloci (con chiaro riferimento agli anni della giovinezza spensierata che
volano via presto e al corridore Pietro Mennea) ed è ambientato in una Crotone
(che è stata una delle città più industrializzate del mezzogiorno ma anche una
delle più splendide città della Magna Grecia, antica e ricca di storia e di
cultura millenarie) anni settanta non ancora devastata dalla crisi economica,
quando la gioventù di allora pensava e sognava, appassionatamente e
generosamente, di cambiare il mondo (ed è stata invece tradita nelle sue più
grandi e segrete aspettative, illusioni
e speranze) ascoltando le canzoni di Lucio Battisti e di Rino Gaetano,
“ragazzi” sfortunati ma amati da un’intera generazione di giovani. Lì vivono e
lottano i personaggi del romanzo. E lì s’incontrano e s’innamorano i due
principali protagonisti, Nicola e Anna, due giovanissimi studenti che vivono il
loro amore, che coltivano i loro sogni e creano i loro miti intensamente: lui
di diventare veloce come Pietro Mennea e lei di incontrare il successo con la
voce di Lucio Battisti, insieme a una comunità di giovani che, come nel Decameron
di Boccaccio, trascorre il suo tempo e i suoi svaghi nei dintorni di Capo
Colonna, consumando pasti saporiti e appetitosi e raccontando i fatti della
loro vita, tra canti e balli, immersi quasi in una realtà mitica e senza tempo.
Ad un certo punto la vita li divide e separatamente proseguono il loro cammino.
Lui la cerca sempre come per inseguire un antico sogno e non sa darsi una
ragione del suo doloroso addio; ma lei è scostante, soffre e lotta
orgogliosamente, e coltiva e nasconde gelosamente dentro di sé un segreto, che
soltanto alla fine svelerà. Lo stile di
questo libro è in parte diverso da quello degli altri romanzi: è uno stile
appunto veloce, semplice, ma sempre vigile, controllato, intenso e ricco e mai
banale e superficiale, per una tenera e sofferta storia d’amore, per un libro
intrigante, che si legge d’un fiato. Una vena leggera leggera di malinconia e
di rimpianto per la giovinezza trascorsa e per i sogni svaniti e perduti per
sempre attraversa questo romanzo, che non compromette però l’ottimismo di fondo
di questo scrittore, che malgrado le tante delusioni e amarezze subite continua
a vivere la vita carico d’illusioni, di sogni e di speranza. Sì, perché, per
parafrasare una singolare canzone di Jovanotti, Abate è un uomo e uno scrittore
che “pensa positivo” e non si lascia prendere e vincere mai dallo sconforto e
dall’abbattimento.
Il
libro di racconti Vivere per addizione e
altri viaggi, pubblicato anch’esso da pochi mesi, sempre dal suo editore milanese
Arnoldo Mondadori, ha un titolo davvero singolare che rispecchia però
fedelmente il percorso della vita di Abate e il suo modo di pensare rispetto ad
una realtà che cambia continuamente e che ha lasciato dietro di sé i detriti e
le macerie di un mondo che non esiste più. A prima vista potrebbe sembrare un
libro minore, ma non è così; invece rappresenta, a mio modesto avviso, la summa
della sua attività di scrittore. Al centro delle sue storie c’è ancora una
volta il tema dell’emigrazione e del viaggio, o, meglio, dei viaggi: viaggi
attraverso il tempo e lo spazio, attraverso la memoria e la storia del nostro
popolo, il suo dolore e le sue sofferenze. Il libro è diviso in tre parti:
Prologo di andata e ritorno, Altri viaggi ed Epilogo provvisorio, e se alcuni
di questi racconti possono benissimo essere considerati i frammenti narrativi,
le epifanie di una possibile autobiografia, altri invece rievocano luoghi della
nostra regione e ed eventi degli ultimi anni contrassegnati da un sempre più
massiccio degrado ecologico e ambientale e dal fenomeno dell’immigrazione di
massa che ha sconvolto il nostro assetto sociale, culturale e antropologico e
la nostra stessa identità. Sono quindi storie diverse, alcune ambientate nella
sua Carfizzi (la mitica Hora dei suoi romanzi arbëreshë) e in Calabria (sempre in bilico tra passato e presente,
tra mito e realtà), altre ancora in Lombardia e in altri luoghi del nostro
paese, altre in Germania, ma i vari frammenti sono, come nei suoi precedenti
libri, incastonati in un ordito compatto e omogeneo, in un disegno unitario. E
infatti Abate non fa mai le cose per caso, e ha sempre cercato di costruire i
suoi libri come un artista il suo mosaico. E insieme al tema del viaggio ritornano
qui i motivi più ricorrenti della sua opera: l’amore per la propria terra, per
la sua donna e per la propria famiglia, l’amicizia che vince le barriere del
tempo e della lontananza, il piacere della buona tavola e della bella
compagnia, ecc., Ma alla base di tutto il suo discorso c’è un amore struggente
e indomabile per la vita. Si spiega in questo modo la vitalità di fondo che
alimenta costantemente questo scrittore, che in qualsiasi cosa che fa trasmette
un entusiasmo e una passione indescrivibili. È vero: lui parla del popolo arbëreshë, delle sue lotte e delle sue
profonde ferite, dei calabresi e della Calabria, scrive di e da una delle tante
periferie del nostro pianeta, ma non è mai monotono e provinciale come può
sembrare a prima vista, bensì è scrittore cosmopolita e universale. L’ho critto
quasi dieci anni fa e lo ripeto in questa sede: con questo scrittore la letteratura
calabrese è di nuovo uscita dal chiuso provincialismo in cui era caduta
nell’ultimo ventennio ed è riuscita a porsi di nuovo all’attenzione della
cultura internazionale, tanto che la Calabria è ridiventata il baricentro
dell’area mediterranea, crocevia di razze diverse che convivono in una realtà
ricca di tradizioni e di cultura. E quindi ritornano in questo libro i tratti
caratteristici e singolari del suo mondo, della sua “geografia dell’anima”, il
suo plurilinguismo così intenso e suggestivo, il suo singolare impasto linguistico
che si arricchisce continuamente di nuovi strati, di nuovi valori, di nuove
esperienze di vita e di cultura, e che, per quanto è dato dalle nostre conoscenze,
non ha eguali nell’attuale panorama della letteratura mondiale. Uno stile che
col tempo ha addirittura guadagnato limpidezza e freschezza. Perché Abate ha il
pregio davvero unico di saper raccontare le sue storie, di inventare, di
rigenerare e di rendere eterni i miti, perché sa benissimo che uno dei
principali compiti della letteratura e dell’arte è quello di creare dei simboli
capaci di sopravvivere al silenzio e alla morte. Come soltanto i grandi
scrittori sanno fare.
Intervista a Carmine Abate
di Giuseppe Muraca
Lo
scrittore Carmine Abate è nato nel 1954 a Carfizzi, un piccolo paese di origine
albanese in provincia di Crotone. Dopo lunghi periodi trascorsi in varie
località del nostro Paese e in Germania, nel 1993 si è stabilito a Besenello,
in provincia di Trento, dove insegna Lettere nella Scuola Media. Ha esordito a
23 anni con la raccolta di poesie dal titolo Nel labirinto della vita (Roma, 1977); sono poi uscite altre due
sillogi (Dimore e Di Noi) confluite con altre liriche nel
volume Terre di Andata (Lecce, Argo,
1996). Nel 1984 ha pubblicato in tedesco, introdotto da Norbert Elias, I germanesi (Francoforte, Campus
Verlag), un’indagine sociologica sugli emigrati italiani in Germania condotta
insieme alla studiosa tedesca Meike Behrmann. Sullo stesso tema ricordiamo la
raccolta di racconti Il muro dei muri
(Lecce, Argo, 1993), tradotto in tedesco. Con Il ballo tondo (Casale Monferrato, Marietti, 1991, nuova edizione
riveduta, Roma, Fazi, 2000) e La moto di
Scanderbeg (Roma, Fazi, 1999), tradotti in varie lingue, si è imposto come
uno dei più importanti scrittori italiani dell’ultimo decennio.
Il
primo romanzo è una storia corale in cui le vicende tormentate della famiglia
di Costantino Avati s’intrecciano con quelle dell’intera comunità di Hora, un
paesino immaginario di origine albanese situato nell’alto crotonese e segnato
dalla miseria e dall’emigrazione. La narrazione è molto avvincente, sospesa tra
il mito e la realtà, fra il passato e il presente, con singolari personaggi che
sono immersi in un alone quasi leggendario. Sullo sfondo si staglia la figura
eroica di Scanderberg, il grande condottiero albanese del “Tempo grande” che
agli inizi del quattrocento difese l’Arberia dai ripetuti assalti dei Turchi.
Questo passato glorioso e i valori tradizionali vengono rievocati e sentiti con
un velo di nostalgia e di rimpianto ma anche con orgoglio, però senza alcuna
retorica, cioè senza perdere di vista la realtà concreta (e se si tiene conto
che la maggior parte degli scrittori italiani contemporanei costruisce le sue
opere a tavolino questo dato assume un significato davvero particolare). Abate
è uno scrittore cosmopolita: egli segue le vicende dei suoi personaggi dagli
anni cinquanta agli settanta, cioè lungo un ventennio che segna il superamento
della civiltà contadina, inserendole però in un contesto europeo e universale.
Nel tessuto stilistico del libro egli è riuscito a fondere con rara armonia le
diverse lingue della sua formazione culturale: l’arbëreschë dei suoi antenati, il dialetto calabrese della sua zona,
l’italiano imparato a scuola e il tedesco assimilato nei lunghi periodi di
emigrazione in Germania. Il romanzo è infatti disseminato di citazioni, di
proverbi, di canti arbëreschë, che
rende la narrazione, dall’andamento ora allegro e ora malinconico, molto
suggestiva e avvincente.
La
moto di Scanderberg è invece un romanzo di formazione che ruota intorno alla
figura tormentata e contraddittoria di Giovanni Alessi, un intellettuale
sradicato di origine arbëreschë, alla
continua ricerca della propria identità e diviso fra l’amore per la bella
Giulia Camarda, che vive in una città tedesca, e il richiamo e il rimpianto
delle proprie radici e della propria terra d’origine. Sullo sfondo c’è sempre
il mito di Scanderberg che rivive nella figura quasi leggendaria del padre di
Giovanni, uomo forte, generoso e ribelle che nell’immediato dopoguerra si pone
alla testa dei contadini nella lotta per la giustizia sociale, correndo da un
capo all’altro del marchesato sulla sua rombante Guzzi Dondolino. Dopo la morte
di Scanderberg, che cade da una rupe per una stupida scommessa, la moto passa
in eredità al figlio Giovanni rappresentando di fatto l’anello che lo collega
strettamente alla memoria del padre e al proprio passato. La “storia” viene
raccontata da diverse “voci” narranti: a pagine scritte in prima persona e di
carattere diaristico, vengono infatti intercalate pagine scritte in terza
persona o addirittura da un “noi” che corrisponde al gruppo degli amici di Giovanni.
Quindi nel romanzo sono stati assemblati testi di diversa natura e ispirazione,
ma che formano un mosaico armonico e pressocché perfetto, in cui passi di
intenso e struggente lirismo s’intrecciano con passi di ispirazione
autobiografica o di indagine sociale e antropologica. Impegno etico e politico
e scavo interiore vengono così fusi in un’opera di alta resa stilistica e di
rara efficacia letteraria.
I
due romanzi sono strettamente legati fra loro e quindi devono essere
considerati un dittico, la cui importanza non dipende soltanto dalla loro
pregnanza e dal loro valore letterario ma anche dal fatto che essi ci
presentano un affresco abbastanza sincero, fedele e veritiero del mondo
contadino e popolare del nostro mezzogiorno, le cui coralità e freschezza inventiva
e rappresentativa ci ricordano I
Malavoglia e alcune novelle di Giovanni Verga e, più di recente, Fontamara di Silone e Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo
Levi.
GM — Nella tua carriera letteraria
sei passato attraverso diverse fasi ed esperienze: la poesia, l’inchiesta di
carattere socio-antropologico, il racconto e, infine, il romanzo… Mi puoi dire
perché?
CA
— Il primo testo che ho scritto è stato un racconto lungo, a sedici anni. Poi
ho scritto poesie e racconti, soprattutto quando vivevo in Germania perché mi
sembrava che fossero le forme letterarie che meglio si prestassero a
rappresentare il mondo composito dell’emigrazione, le sue mille storie.
L’indagine socio-antropologica sull’emigrazione e sul mio paese d’origine è
invece stata fondamentale per acquisire uno sguardo più distaccato e
consapevole verso, anzi dentro,
tematiche su cui spesso si scrive in maniera retorica o piagnucolosa.
Senza la ricerca sui germanesi, che mi ha consentito di conoscere la storia di
Carfizzi, probabilmente non avrei mai scritto Il ballo tondo…
Com’è nata l’idea di scrivere Il ballo tondo?
È
nata, come nascono tutti i miei libri, da un’immagine che mi ha inseguito per
anni come se l’avessi realmente vissuta chissà quando e dovessi per forza
raccontarla: un nonno e un nipote che vanno alla fiera della Marina. Durante il
viaggio il bambino comincia a scoprire le radici mitiche del suo mondo
attraverso le storie che gli racconta il nonno. Solo dopo ho avuto la
consapevolezza che avevo scritto e pubblicato a livello nazionale il primo
romanzo sugli arbëreshë e non potevo, non dovevo smettere…
Ne La moto di Scanderberg tu segui le diverse fasi della formazione di
un intellettuale calabrese alla ricerca della propria identità, dal periodo
dell’occupazione delle terre nell’immediato dopoguerra agli anni ottanta.
Quanto di autobiografico c’è in questo tuo secondo romanzo?
Di
autobiografico c’è il percorso del protagonista – e di molti giovani della mia generazione
– costretti a lasciare la propria terra
e andare a lavorare al Nord. Per il resto, io non scrivo romanzi
autobiografici, anche se devo ammettere che qualche esperienza personale
s’impiglia sempre nella pagina, mio malgrado.
Perché il problema delle radici e
delle origini riveste così tanta importanza nella tua opera letteraria?
Beh,
non potrebbe essere diversamente per uno scrittore come me, appartenente a una
comunità trapiantata in Calabria cinque secoli fa e costretta, nel corso del
Novecento e anche oggi, a ritrapiantarsi altrove. Io stesso ho avuto un nonno
“mericano”, un padre germanese e poi è toccato a me… Devo dire però che col
tempo tutto questo non l’ho vissuto come un dramma o come un’umiliazione, ma
come una ricchezza: accanto alle mie radici originarie, irrinunciabili, ne ho
visto crescere delle altre; attorno e dentro le antiche e nuove radici ho
scoperto delle storie che mi affascinano e che cerco di trasmettere ai miei
lettori…
Credo che il principale fattore
che ti distingue dagli altri scrittori italiani della tua generazione sia il
fatto che tu sei uno scrittore ben radicato nella realtà della nostra regione
e, al tempo stesso, uno scrittore europeo, un dato che si riflette anche sul
plurilinguismo delle tue narrazioni…
Ecco:
il plurilinguismo delle mie storie è una delle ricchezze di cui ti accennavo.
Io narro storie di luoghi e personaggi attraversati, in modo consapevole e non,
dal plurilinguismo: il paese di Hora dei miei romanzi o i germanesi nella città
di Amburgo dei racconti. Cioè narro dei microcosmi europei poco scandagliati e
plurilinguistici, come già è e sarà sempre di più l’Europa del futuro. Forse
per questo i miei libri vengono apprezzati anche in altri Paesi.
Diversi lettori hanno intravisto
nella tua narrativa l’influenza di Garcia Marquez e di altri scrittori latino-americani;
ma è proprio vero?
Più
che di influenza si è parlato del cosiddetto “realismo magico” che mi
accomunerebbe agli scrittori latino-americani. Questo paragone nasce dal fatto
che anche nei miei libri vengono narrate delle storie in qualche modo magiche e
fantastiche. Ma il motivo di fondo ha poco a che fare con Marquez: questi
elementi magici e fantastici fanno parte del mondo che narro. Io non faccio
altro che attingerne a piene mani. Del resto, quando ho scritto Il ballo tondo,
Marquez non l’avevo ancora letto.
Un problema che tu poni con tanta
insistenza è quello della tua diversità ed estraneità rispetto ai vari contesti
socio-culturali. Perché?
Vorrei
precisare: non della mia diversità ed estraneità, ma di quella dei miei
personaggi. Ed è un problema che volente o nolente si presenta quando si
narrano storie di minoranze. Una scintilla da cui scaturiscono contraddizioni,
sofferenze, conflitti, ma anche amori tenaci tra due persone, tra due e più
culture. Voglio dire: questo problema è a volte il punto di partenza di un
personaggio e di una storia, che poi si sviluppano in maniera imprevedibile,
come vogliono loro; raramente come mi sono sviluppato io.
Secondo te, esiste veramente una
questione arbëreshe? E che cosa pensi dell’attuale condizione delle minoranze
etnico-linguistiche meridionali e calabresi?
Se
esiste una questione arbëreshe, essa
è inglobata nella più ampia questione meridionale, sia sul piano economico e
sociale, sia su quello politico. Non possiamo fare, oggi, il discorso della
minoranza “pura”, sarebbe anacronistico e improduttivo, ridicolo. La nostra
storia è ormai da secoli intrecciata con quella meridionale, come anch’io ho
spesso raccontato nei miei romanzi (occupazione delle terre, emigrazione,
disoccupazione…). Resta però la peculiarità linguistica e in parte culturale:
questa non la si può e non la si deve negare. E mi pare che gli arbëreshë siano consapevoli di tutto
questo. Recentemente ho fatto un viaggio tra i paesi arbereshe della Calabria
per conto di RAI3 e ho trovato, oltre che una maggiore presa di coscienza della
gente, una grande vitalità culturale che fa ben sperare per il futuro,
soprattutto se la nuova legge di tutela delle minoranze verrà applicata
veramente e seguendo il buon senso.
So che stai scrivendo un nuovo
romanzo. Ci vuoi anticipare qualcosa?
Beh,
a dire il vero il romanzo l’ho già finito da un anno e mezzo. In questo periodo
lo sto rivedendo. Non parlo mai di un romanzo prima che venga pubblicato,
soprattutto perché rischierei di contraddirmi: tra la prima e l’ultima stesura
a volte rimane appena un terzo della storia, per non parlare dei tagli
consistenti e delle trasformazioni che subisce la lingua. Posso solo dire che è
ancora ambientato in Calabria ma non in un paese arbëreshë.
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