Antonio Pigliaru e il «mito del paese»


di Pier Giuseppe Puggioni



Il 27 marzo del 1969 ci lasciava un importante studioso e filosofo del diritto italiano: Antonio Pigliaru. Di questo personaggio è nota per lo più la ricerca sulla pratica della vendetta e sul rapporto di questa con il fenomeno del banditismo in Sardegna. Tuttavia, egli molto si impegnò, come intellettuale, nei maggiori dibattiti civili e nella promozione della cultura sarda, non avendo mai perso il contatto con le proprie origini.
Pigliaru nacque nel 1922 ad Orune, limitrofo paese sardo di quella terra chiamata «Barbagia». I suoi genitori, entrambi insegnanti, condividevano lo stesso tipo di formazione culturale, sebbene fossero contrassegnati da radici assai diverse. Di origini contadine, il padre Pietro aveva compiuto gli studi con fatica, mentre Maria, la madre, veniva spesso ricordata come «troppo cittadina, troppo moderna». Questa donna rivelò ben presto un carattere forte ed una grande tenacia, dovendo allevare da sola i suoi cinque figli dopo il tragico suicidio del marito. La morte del padre individua un momento critico per la crescita del giovane Antonio: a questo episodio, infatti, è stato ricondotto l’innesco di un processo di immedesimazione di se stesso con l’ universo barbaricino, una comunità ed una cultura che lo risarcivano del padre perduto.
A proposito del rapporto di Pigliaru con Orune, Manlio Brigaglia, un intellettuale che gli fu molto vicino, parlò di un «mito del paese», che avrebbe funzionato ininterrottamente per tutta la vita dello studioso. Tale espressione vorrebbe alludere ad una – non del tutto consapevole – identificazione di tutta la Barbagia (se non addirittura della Sardegna intera) con l’ ambiente vissuto nel paese d’origine. Questa relazione privilegiata indusse Pigliaru a cimentarsi in un impegno culturale di considerevole portata, il cui accento cade spesso sui problemi che affliggono la regione, non solamente sotto il profilo del disagio territoriale, ma anche dal punto di vista culturale, politico e giuridico (dunque, si parla anche di «Regione», con l’iniziale maiuscola). Leggendo gli scritti in cui Pigliaru raccoglie le istanze politico-autonomistiche della Sardegna, si intravvede facilmente il filo che lega tali rivendicazioni all’ esperienza vissuta in un contesto siffatto. Tale contesto è, infatti, quello di un luogo selvaggio che egli descrive, nel saggio sulla Vendetta barbaricina come ordinamento giuridico (1959), dando voce ai propri ricordi:

«una terra che pare appena uscita dalla creazione e che ha tutta l’aria di essere, dopo millenni di storia e di vita, la stessa terra, la stessa vegetazione, gli stessi graniti, la stessa durezza d’una natura indocile alle nude mani dell’uomo».

Il rapporto del filosofo con il suo paese è, però, più complesso di quanto possa apparire. L’attenzione prestata alle questioni regionali comporta un appello alla neutralizzazione degli eccessivi particolarismi e delle «mitologie locali», volto a rendere l’uomo sardo partecipe integrale della vita nel mondo. Affrontare la crisi «di quella cultura sarda chiusa tra parentesi» significa «sprovincializzare la provincia per offrire (finalmente) un attestato di piena capacità ad intendere ed a pensare universalmente». In altri termini, secondo Pigliaru, bisogna emergere dallo spazio ristretto di una «Sardegna terribile», un po’ come Kant professava la necessaria «uscita dell’uomo dalla minorità», in direzione di una prospettiva universale, in grado di «rivitalizzare la coscienza dei sardi perché diventino soggetti della loro storia». È questo proposito, infatti, ad animare la nascita della rivista culturale «Ichnusa» e la promozione di alcuni incontri orunesi a tema cinematografico e letterario.
Alla luce di questa tensione universalistica, possiamo leggere il rapporto di Pigliaru con il paese come il punto di partenza di un’esperienza vissuta partecipando alla vita nazionale e del mondo intero. Egli stesso riconosce l’importanza del proprio legame con Orune nel modo in cui esso informa tutto il resto di una vita, trascorsa altrove dal paese stesso: «oggi so» – dice nei suoi appunti – «che la mia patria è ovunque». I luoghi del mondo sono vissuti sulla base di un percorso, che ha inizio ad Orune, ma rivolge il senso di appartenenza a «tutto l’universo», vera «patria» cui egli si sente fedele:

«Certo mi occorrono anche queste cose che ho: i ricordi, le case, le scuole: i luoghi che ho vissuti sin qui, tutti, tutte le cose che ho e le altre ancora, ma la mia patria non finisce, comincia ad Orune: come comincia una vita appunto – alla fine la patria non è una terra ma la vita, una vita».

In conclusione, se vogliamo impiegare un’ espressione suggestiva come quella di Brigaglia, dobbiamo leggere il «mito del paese» come una forza che si proietta nei rapporti di Pigliaru con altre realtà, le quali diventano, per lui, tutto un cosmo, osservato e partecipato nel ricordo della propria vita ad Orune. Il mondo del diritto, quello della lotta politica e poi l’impegno culturale, nonché tutto quanto emerge dalla poliedrica figura di questo autore può vedersi come un cumulo d’esperienze che sono – ciascuna a modo proprio – tributarie di quest’origine barbaricina. Il filosofo, nell’attività del suo pensare, si apre alle nuove e sempre stimolanti prospettive del presente, alle questioni concrete del dibattito politico italiano ed internazionale, come il tema delle riforme agrarie e il riconoscimento della Cina popolare. Nel far questo, egli ha sempre modo di volgere nuovamente gli occhi al paese, alla sua terra, non dimentico del contesto che l’ha generato, nei cui confronti percepisce un importante dovere: quello di stimolarne la «rinascita» politica e culturale.

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