Per rinascere, la Calabria riscopra i doveri

 

di Tommaso Greco 

Perché parlare di doveri in una terra in cui, più che altrove, si avverte una tragica mancanza di diritti? Non diciamo continuamente che soprattutto in Calabria non c’è alcuna garanzia di alcuni diritti fondamentali come quelli al lavoro e alla salute? Personalmente, credo che la ragione principale di questa mancanza stia soprattutto nel fatto che ci si è dimenticati dei doveri. 
È abbastanza facile dimostrare con un esempio come sia il generale disprezzo per i doveri a fare in modo che certi diritti esistano per i calabresi solo sulla carta. Se la Calabria è la regione con il maggior tasso di “emigrazione sanitaria” (si va nelle altre regioni per essere curati, spessissimo da medici calabresi che lavorano al Nord) è certamente perché molti dentro gli ospedali non fanno il loro dovere (o non lo fanno in modo adeguato). 
Ma sarebbe miope pensare solo in termini così ristretti. I doveri violati da qualcuno dentro un ospedale sono frutto di una lunga serie di altri doveri che sono stati violanti precedentemente. Se qualcosa non funziona è perché spesso sono le condizioni in cui dovrebbe funzionare ad essere deficitarie. Quanto è lunga la catena di (piccoli e grandi) doveri violati che conduce poi a risultati inaccettabili? Quel che bisogna capire è che se vogliamo che certi diritti siano garantiti dobbiamo assumere un atteggiamento diverso nei confronti di tutta la realtà nella quale viviamo e operiamo. La violazione di un diritto specifico ha spesso la sua origine lontana nella dimenticanza (e violazione) di un dovere, che magari non ha a che fare specificamente con quel diritto ma contribuisce a mantenere in vita un sistema in cui la violazione in questione diviene facile e ‘naturale’. 

 Il bisogno di vedersi garantiti i diritti è già un buon motivo per riprendere il discorso sui doveri; non è però sufficiente a promuovere quella ‘rieducazione’ ai doveri che appare così necessaria. Tale ‘rieducazione’ può essere prodotta soltanto dalla piena consapevolezza di cosa sia in gioco nella proposta di una ripresa dei doveri. Quando parliamo di diritti e doveri per prima cosa ci viene in mente l’osservazione che non ci sono diritti senza doveri: ai miei diritti corrispondono i doveri di altri, ai diritti di altri corrispondono i miei doveri. A questa considerazione giuridica bisogna però affiancarne un’altra: ai miei diritti non corrispondono solo i doveri degli altri, ma anche il mio dovere di essere degno titolare di quel diritto. Se ho diritto di prendere la parola ho innanzi tutto il dovere di dire cose sensate. Se ho diritto alla libertà d’insegnamento, ho il dovere di esercitare questo diritto nel migliore dei modi. 
Tutto ciò va sempre ricordato, soprattutto in una società che ha preso l’abitudine di considerare tutte le relazioni esclusivamente sotto la lente dei diritti. Ma ciò che va assolutamente recuperato è il valore antropologico dei doveri, perché è su questo piano che i doveri possono darci qualcosa che i diritti non garantiscono. 

A differenza di quanto viene ripetuto (anche da “buoni Maestri” come Norberto Bobbio e, recentemente, Gherardo Colombo), non è affatto vero che i doveri sono esclusivamente strumento di una società ‘verticale’ e gerarchica. Lo sforzo principale al quale siamo chiamati è di ruotare il nostro sguardo in modo da renderci conto che i doveri con i quali abbiamo a che fare quotidianamente sono doveri ‘orizzontali’, doveri che nascono dalle relazioni nelle quali la nostra vita si compie e si realizza. È questo il segno inconfondibile dei doveri, quello che dobbiamo cercare di recuperare. I doveri realizzano un movimento di apertura all’altro e sono perciò un modo insostituibile per stabilire e mantenere in vita le nostre relazioni. 
Sono i diritti più che i doveri a correre lungo la linea verticale della coercizione giuridica, ed è proprio per questo che a volte sono tanto necessari. Quando pretendo il rispetto di un diritto mi appello alla mediazione di chi può intervenire a mio favore (il giudice, il poliziotto, il superiore, ecc.). Anziché favorire un collegamento, piuttosto lo interrompo, invocando l’azione rassicuratrice e riparatrice dello Stato (o del soggetto che deve garantire il mio diritto). 
Quando invece avverto di dover compiere un gesto, quando “leggo” nella situazione in cui mi trovo che sono chiamato a compiere un dovere, allora realizzo un movimento che non è di ritrazione ma di proiezione verso chi mi sta di fronte. 

Due considerazioni vorrei trarre da questa ritrovata orizzontalità dei doveri. 
La prima: l’apertura che i doveri realizzano implica un prendersi cura delle persone e delle cose. “Prendersi cura” vuol dire andare al di là dei nostri stretti doveri giuridici, con tutto l’impegno (in più) che questo comporta. L’oggetto più dimenticato delle nostre cure (e dei nostri doveri) è senza dubbio costituito dai luoghi nei quali viviamo. Troppo spesso ci sia-mo dimenticati dell’insegnamento che viene dalle cose e dagli spazi. Ci è mancata la capacità di custodire quel bene prezioso che Vito Teti ha chiamato il “senso dei luoghi”. Le nostre città sono più il regno della bruttezza che della bellezza. Custodire la bellezza è importante per-ché essa non è un fatto puramente estetico. Come ha spiegato lo psicoterapeuta Luigi Zoja, la bellezza ha molto a che fare con la giustizia: perché si offre a tutti allo stesso modo, e soprattutto perché abitua gli animi a rifuggire dalla sciatteria e dall’incuria, che sono incunabolo dell’illegalità. Un luogo curato e accogliente è qualcosa che ci parla e ci lega agli altri; impedisce di sentire gli altri come ostili. La bellezza ci fa sentire sicuri. 

La seconda considerazione non è meno importante. Se generalmente compiere un dovere è tendere la mano all’altro, ci sono situazioni in cui vuol dire piuttosto sfidare l’altro: il che avviene (dovrebbe avvenire) quando l’altro è il prepotente, il privilegiato che non ha titolo, colui che non compie il proprio dovere. Non credo sia difficile immaginare molte situazioni reali in cui saremmo chiamati a comportarci così. Sentiremo la necessità – e ritroveremo anche il coraggio – di sfidare la prepotenza se ritro-veremo un ideale che abbiamo abbandonato e di cui occorre riappropriarsi. Parlo dell’onore. 
Abbiamo permesso che questa parola venisse usurpata da uomini del disonore, i cui codici sono fatti rispettare con la morte e la violenza, nonché da tanti soggetti che non meriterebbero affatto di vedersi trattati con rispetto. L’onore e il rispetto sono una moneta preziosa che tutti abbiamo in mano e che non è possibile tenere nascosta. Per la logica delle relazioni sociali, dev’essere per forza scambiata con gli altri. 
Bisogna allora fare attenzione alle persone con le quali scambiamo le nostre monete: se offriremo stima e riconoscimento a coloro che agiscono per il bene comune, rafforzeremo il bene comune stesso e la nostra moneta ne uscirà col valore aumentato; se invece cedere-mo questa moneta a chi ne farà uso distorto, agendo esclusivamente nel suo interesse, la nostra moneta non varrà più nulla e ciò che ci tornerà indietro sarà il disprezzo e la violazione di ogni nostro diritto. 

Ritrovare l’onore è forse oggi il nostro dovere principale. Se riusciremo a non sprecare la moneta preziosa che abbiamo in mano forse riusciremo a instaurare quel circolo virtuoso da cui può cominciare la rinascita della Calabria. 


Questo articolo è stato pubblicato su «Il Quotidiano della Calabria» il 18 ottobre 2011. Era frutto della mia partecipazione al "Progetto Calabria" svoltosi dal 3 al 7 ottobre di quell'anno nei capoluoghi di provincia della Regione (si trattava di una introduzione ai temi della cittadinanza e della Costituzione, nell'ambito di un corso che era stato voluto dall’Ufficio Scolastico regionale, che si è giovato della collaborazione del Consorzio Patti Chiari e della Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo).

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