Abitare il tempo sospeso. Una riflessione (paesologica) sul triduo pasquale
Foto di Mario De Vincentis |
di Umberto Mazza
"Hoje è mortu u Signuru".
Quante volte ho sentito questa frase dalla viva voce dei vecchi del nostro paese; la morte e passione di Cristo era vissuta veramente come qualcosa di realmente accaduto, una rievocazione di un dolore che era lo stesso che si provava ogni volta che si pensava al giorno della morte dei propri cari. Raccontano le cronache paesane che i padri passionisti che venivano chiamati a fare la predica del Venerdì Santo creavano una tensione emotiva tale che nessuno rimaneva impassibile alle loro parole: la gente piangeva come se quel lutto toccasse nel profondo la propria coscienza . E lo era di fatto.
Anche i lamenti funebri, bellissimi, e la disposizione della processione rendevano tutto molto reale.
La spettacolarizzazione, che ha reso i fedeli puri spettatori, almeno nel nostro paese, è un fatto iniziato nei primissimi anni novanta.
A dare maggiore veridicità al fatto che Gesù è veramente morto, è stato sepolto e resta nella tomba per tutto il giorno, è il Sabato Santo.
"Jamu facimu na visita aru Signuru mortu".
Sono le stesse parole che la nostra gente usa quando va a fare "visita" ad una persona morta. Il significato e le implicazioni del sabato sono notevolissime, sia sul piano teologico e sia su altri livelli di riflessione.
Questa pausa temporale è fondamentale, sul piano teologico. Essa serve a sottolineare più cose. Anzitutto che la morte di Gesù è reale. Non vi è la sopravvivenza dell’anima – la fede cristiana nella resurrezione dei corpi, almeno in origine, è cosa assolutamente diversa dalla dottrina filosofica e religiosa, già diffusa nella cultura pagana e greca, della immortalità dell’anima – e non vi è nemmeno la risurrezione immediata, istantanea, fulminea. Prendere sul serio la morte di Gesù, come si potrebbe dire, serve a dare il giusto, il pieno valore alla sua resurrezione: Gesù era morto ed è stato resuscitato da Dio, con un intervento di inaudita potenza escatologica.
Nello stesso tempo, prendere sul serio la morte, serve anche a ricordare che il Risorto è il Crocefisso, non è uno spirito, non è un fantasma, e che il Signore glorificato è lo stesso Gesù condannato, flagellato, deriso e infine appeso alla croce e lasciato morire fra atroci sofferenze.
Certamente non si può pensare la morte di Cristo senza pensare anche alla sua resurrezione, ma non si può nemmeno pensare alla resurrezione senza la croce. Non vi è Venerdì santo senza Pasqua, ma non vi è Pasqua senza Venerdì santo. Per questo è teologicamente necessario che il tempo si fermi, almeno per un intero giorno, in modo che la terribile vicenda della crocifissione, della morte e della sepoltura di Gesù possa sostare nella nostra mente e nel nostro cuore. Noi siamo chiamati a condividere il grande dolore, la delusione, la rabbia, la frustrazione, lo sbigottimento che devono aver provato le donne e tutti i discepoli in quel tempo vuoto fra il seppellimento di Gesù e le apparizioni del Risorto.
Il messaggio teologico è rivolto soprattutto alle nostre comuni esistenze e alle nostre esperienze secolari. Quando nella nostra vita irrompe l’ora della sofferenza, l’ora dell’angoscia del Getsemani, l’ora dello scacco, del naufragio dei nostri progetti e delle nostre speranze, l’ora della morte, della fine e della perdita di ciò che ci è caro, certamente dobbiamo sperare e confidare nella rinascita, pregando Dio, se siamo credenti, affinché voglia donarcela.
Non dobbiamo mai pensare che il Golgota e il Venerdi santo, che il fallimento, il dolore, la perdita siano la fine della storia. Tuttavia, non dobbiamo essere impazienti, non dobbiamo pretendere che al nostro Venerdì santo succeda subito la Domenica. Siamo chiamati a sostare nel tempo sospeso del Sabato, siamo chiamati ad attraversare il deserto, siamo chiamati ad aspettare che la potenza rigeneratrice e rivitalizzatrice faccia il suo corso, perché solo così la passione e il Golgota che ci sono toccati avranno un senso e non saranno stati soltanto una assurda, accidentale o fatale disgrazia.
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