Come dare giustizia al dolore attraverso i libri: una nota a 'Malinverno'

 di Tommaso Greco



1. Ho il difetto di arrivare a volte un po’ in ritardo agli appuntamenti. Solo un po’, ma quanto basta per giungere nel luogo fissato quando altri sono già arrivati. Mi capita anche con le recensioni: le scrivo quando il libro che vorrei segnalare è stato ampiamente letto, ma soprattutto quando ormai molti gli hanno già dedicato note, presentazioni e appunto recensioni di varia natura. Lo prendo come un vantaggio, e quasi un lusso: l’essere ritardatario, in questo caso, mi permette di sorvolare su molte cose già dette da altri e di soffermarmi su aspetti che possono essere considerati secondari ma che per me diventano preponderanti. 

Di Malinverno — il romanzo di Domenico Dara pubblicato l’anno scorso da Feltrinelli, cui ha arriso fin da subito un grande e meritato successo e di cui possono essere lette numerose recensioni che ne ricostruiscono il contenuto e ne lodano il valore letterario —, voglio dire innanzi tutto che mi fa venire in mente una stagione nella quale i libri hanno cominciato a occupare una parte importante nella mia vita: una parte reale e concreta, non solo perché una buona fetta del mio tempo la passavo tra le pagine in compagnia degli autori che avevo iniziato ad amare, quanto perché di fatto essi portavano nel mio quotidiano delle presenze che si aggiungevano a quelle delle persone in carne ed ossa. Ricordo — e nel ricordo, rivivo costantemente —, i molti pomeriggi passati insieme al mio amico Sergio ad ascoltare musica e a parlare dei libri che leggevamo: libri che potevamo avere soprattutto grazie al Club degli Editori perché nel nostro piccolo paese calabrese non esisteva, così come non esiste oggi, né una libreria, né tanto meno una biblioteca. Ebbene, parlare di quei libri, di quegli autori rendeva le nostre vite più ricche ed abitate, soprattutto perché le riempiva di personaggi che da allora non ci hanno più abbandonato. 

 2. A chi non crede che i personaggi letterari possano diventare reali, chiedo se il mondo sarebbe lo stesso senza, ad esempio, l’invenzione di Pinocchio, o di don Chisciotte o di qualunque protagonista dei Promessi sposi. Per stare a quest’ultimo capolavoro (recentemente riletto da molti per l'associazione tra la pandemia e la peste che lì è raccontata): come faremmo a parlare dell’arroganza e della prepotenza del potere senza avere in mente don Rodrigo? oppure a biasimare gli avvocaticchi di provincia, che quasi sempre si mettono al servizio del potere negando giustizia ai cittadini, senza pensare agli imbrogli di Azzeccagarbugli? E quante volte, in quest’ultimo anno, per rappresentare l’atteggiamento di chi vuole negare l’evidenza della pandemia è stato richiamata la figura di don Ferrante? 

Tutti personaggi immaginari e reali allo stesso tempo, come lo sono quelli che popolano il libro di Domenico Dara; il quale ha scritto un romanzo per dire quanto possono diventare reali i personaggi inventati dalla letteratura, e lo fa creandone uno che diventa reale pure lui. Quasi, si potrebbe dire: Astolfo Malinverno, o della realtà del personaggio di un romanzo, nel quale i personaggi dei romanzi diventano reali. Indubbiamente, Astolfo è di quei tipi che non ti escono facilmente dalla testa, dal momento che, non solo realizza, ma incarna perfettamente quell’operazione che i lettori accaniti spesso fanno e che per lui è la sintesi della sua vita e della sua professione di bibliotecario: quella di confondere la realtà e la finzione, di fare in modo che ciò che leggiamo nei libri prenda consistenza e orienti il nostro sguardo sul mondo, condizionando persino le nostre relazioni e i nostri dialoghi quotidiani. 

Per il protagonista del romanzo di Dara i libri sono talmente reali, assomigliano a tal punto agli uomini più che alle cose, da doverli anche seppellire, esattamente come si fa con le persone. Perché Astolfo ha questo di particolare: oltre ad essere il bibliotecario del paese di Timpamara — un paese tutto speciale, dove gli abitanti hanno i nomi dei grandi personaggi della letteratura — ne custodisce anche il cimitero, con le mille sovrapposizioni che inevitabilmente ne discendono. Morti che quasi riprendono a vivere, grazie all’associazione con i protagonisti di opere immortali, e libri che per certi versi diventano come uomini, e vanno quindi incontro a un destino che li vede nascere e morire, dopo aver affrontato piaceri (di essere letti) e dolori (di soccombere alle ingiurie del tempo e delle intemperie). 

In Malinverno e attraverso i libri di cui esso si serve, vediamo la vita che muore ma anche la morte che si fa vita, in un turbinio incessante in cui a congiungere l’una e l’altra non può esserci altro che l’amore, come in ogni grande romanzo che si rispetti. E qui sembra che anche i sentimenti possano raggiungere il massimo della realtà soltanto quando si manifestano nella loro tragica impossibilità, come avviene nelle vicende principali del racconto, dove pare che ogni amore debba fare i conti con una morte che incombe e che arriva inesorabilmente, quasi a suggellare l’idea che sia la morte a far grande un amore sottraendolo al logorio di un rapporto quotidiano. 

3. Ma c’è un aspetto particolare sul quale vorrei soffermarmi e che mi ha spinto a richiamare la “giustizia del dolore” nel titolo di questa nota. L’intreccio tra vita e morte, mediato dall’amore, rende infatti singolare ogni vicenda, facendo sì che ogni storia sia quella storia e non la semplice manifestazione di una Storia più generale che possa essere spiegata da una Regola anch’essa generale. Uno dei passaggi più interessanti e significativi del romanzo — almeno per chi pratica col diritto e riflette sul diritto — è il momento in cui Astolfo riscrive il regolamento cimiteriale rendendo possibile ciò che, in generale e in astratto, non sarebbe possibile: come ad esempio seppellire un animale o dei libri, oppure sposare una fidanzata inconsolabile col suo promesso sposo, morto prematuramente. Poiché nessun regolamento può contemplare tutti i casi possibili, Astolfo si trova a compiere quella operazione, sempre necessaria e sommamente ‘giusta’, che chiunque debba applicare una regola si trova prima o poi a dover mettere in atto: colmare le lacune che sempre ci sono in un sistema di regole. Egli sa che le leggi sono fatte in un modo, ma potevano essere diverse, se solo chi le ha scritte fosse stato in preda ad un dolore e ad una preoccupazione differenti da quelli che lo hanno mosso a farla nel modo in cui l’ha fatta. 

Se «le nostre vite si basano su leggi e regolamenti scritti da uomini come noi, che avrebbero benissimo potuto non scriverli o addirittura scriverli al contrario»; e se i regolamenti sembrano rispondere alla «necessità di ingabbiare i liberi fatti umani» e alla «illusione di disciplinarli», non rimane che adattare le regole ai mille infiniti dolori che esse sono chiamate ad arginare. Ma è qui il punto cruciale: le lacune di un regolamento quasi sempre non esistono di per sé; esse esistono perché chi interroga le regole si fa portatore di una esigenza di cui le regole non hanno voluto (o saputo) tener conto. Cosicché alla fine, dopo tutti i rimaneggiamenti prodotti, il regolamento sembra rispondere all’ideale platonico di una giustizia del caso concreto: «col passare del tempo quel brogliaccio assomigliava ogni giorno di più [ad Astolfo], come dovrebbe essere ogni legge, fatta su misura per ciascun uomo». Perché «forse questa è la vera giustizia umana, ogni vita con le proprie regole, ogni eccezione contemplata in una postilla». Ad ogni dolore, potremmo dire, la sua regola; ad ogni dolore, la sua giustizia. 

Una soluzione che ci pare ineccepibile: perché se il diritto ha a che fare (anche) con il dolore, bisogna sapere che ognuno ha un dolore che governa la sua vita e che chiede di essere trattato con regole che sono le sue regole (ed è bellissimo il passo in cui Astolfo vorrebbe dar vita ad una sorta di rinnovato Spoon River, «un cimitero dei dolori, una fila di lapidi sul cui marmo, invece delle date, fossero trascritte le diciture dolorose che avevano governato vita e morte»). Ma si tratta di una soluzione che è accettabile soltanto perché abbiamo a che fare con un custode del cimitero che è anche bibliotecario, e che le vicende della vita hanno reso particolarmente sensibile: novello re-filosofo chiamato platonicamente a governare il luogo in cui vita e morte si incontrano. Non potremmo fidarci allo stesso modo, per dire, se a custodire il cimitero ci fossero gli sciacalli di cui sono piene le cronache. 

Non è questa la sede per certe riflessioni, ma quel che la vicenda di Astolfo ci insegna è che il nostro mondo sarebbe certamente migliore se fossimo capaci di mettere in ogni posto persone cui attribuire la massima fiducia, come fa il sindaco di Timpamara con Astolfo: persone che abbiano la capacità di percepire il dolore di cui ogni uomo e ogni donna sono abitati, e che svolgano il proprio lavoro con un sentimento che è fondato sulla pietas.

4. Se tutte queste cose è stato Domenico Dara a crearle e inventarle, la riuscita del romanzo sta nel fatto che mentre lo leggiamo, e anche dopo averlo letto, noi pensiamo a quello che ha fatto e farà Astolfo Malinverno, al modo in cui continuerà a vivere insieme ai personaggi che lo hanno accompagnato, alle cose straordinarie che possono capitare a Timpamara. E in ciò sta il vero successo di un libro di fantasia, anche quando non corrisponde al criterio del romanzo perfetto formulato proprio da Astolfo: «i libri perfetti — infatti — sono quelli che si concludono con la morte del protagonista». 

Se Astolfo non muore, in compenso muore la sua biblioteca, insieme a gran parte del paese, travolto da un diluvio biblico che sembra uscito da un romanzo di Garcia Marquez (e da dove, se non da un romanzo?): dopo tre giorni e tre notti di pioggia, talmente intensa che era come se avesse piovuto per quaranta, «Timpamara sembrava uno di quei paesi fantasma delle montagne interne, abbandonati da secoli»: poco più di un flash finale, a ricordare quella fragilità del nostro territorio che governanti e governati, amministratori e amministrati non hanno voglia di prendere sul serio, ma che nel racconto rappresenta l’estremo punto di incrocio tra la vita e la morte, il momento di raccordo in cui bisogna unire le forze per far sì che la vita resista e non si arrenda alla distruzione e all’oblio. 

D’altra parte, se «la fine si preannuncia nella deposizione dell’attesa», come dice una delle tante frasi memorabili di cui è disseminato questo romanzo, allora non c’è compito più importante che adoperarsi per mantenere viva la speranza, facendo sì che ci sia sempre qualcosa da attendere: qualunque cosa questa possa essere.


Domenico Dara

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