Il pensiero ‘meridiano’ di un Maestro del diritto
di Tommaso Greco
Biblioteca del Tribunale di Cosenza, 18 ottobre 2018
§ 1. Sono qui, innanzi tutto, a ringraziarVi di avermi
concesso l’onore di prendere parte a questa giornata di studi, che — ne sono
certo — sarà memorabile. Sarà memorabile, come non può non essere quando i
cultori e gli operatori del diritto si riuniscono per ascoltare un Maestro del
pensiero giuridico.
Un Maestro, che dalla Cattedra di Storia del diritto ha
portato una linfa vivificante nella cultura giuridica, non solo italiana, il cui
valore è stato giustamente riconosciuto dalle più alte istituzioni della
Repubblica, prima con la nomina a Giudice della Corte Costituzionale da parte
del Presidente Napolitano, poi con l’elezione a Presidente di quel supremo
consesso. Un Maestro, lasciatemelo dire, riconosciuto tale non solo da studiosi
sparsi in tutto il mondo, ma innanzi tutto dagli studenti che lo hanno amato nei
lunghi anni di una luminosa carriera accademica e continuano ad amarlo oggi,
ogni volta che ad essi si rivolge, anche nelle scuole di secondo grado nelle
quali, da Presidente della Corte, ha voluto portare la cultura costituzionale,
riuscendo là dove molti non riescono: far amare il diritto e i valori
costituzionali facendoli davvero comprendere; e ciò è stato possibile perché,
come vedremo anche oggi, nelle sue parole essi appaiono vivi. Una “Costituzione
da vivere”, appunto, come figura nel titolo della conferenza che il Presidente
Grossi terrà tra pochissimo e che tutti noi siamo ansiosi di ascoltare.
Ruberò
pochi minuti alla vostra attenzione. E impiegherò questi pochi minuti per dire a
Voi, cari amici, quanto il pensiero dell’illustre Maestro, che oggi ci onora
della sua presenza in Calabria, sia particolarmente adatto ad essere ascoltato
nella nostra terra e particolarmente congeniale ai suoi sentimenti giuridici.
Un’affermazione troppo perentoria, me ne rendo ben conto, e che va brevemente
spiegata, non prima di aver espresso, tuttavia, la mia personale gioia e
gratitudine al Presidente e Professor Grossi per aver accettato questo invito,
che mi dà la possibilità di ascoltarlo qui, in Calabria, dopo averlo per tante
volte ascoltato in Toscana.
§ 2. Cercherò dunque di spiegare brevemente per
quale ragione è particolarmente ‘urgente’ accostarsi al pensiero giuridico del
Presidente Grossi oggi, che poi è la stessa ragione per la quale esso mi pare
tanto ‘congeniale’ alla nostra terra. La ragione è presto detta: si tratta di un
pensiero giuridico che, più di ogni altro nel nostro secondo Novecento, ha
insistito sull’idea che il diritto non sia risolvibile nel mero dato
legislativo, e non sia perciò confinabile nella sfera del potere politico, ma
sia invece da collocare nella dimensione sociale. Il diritto, in altre parole, è
una pratica che possiamo comprendere e sviluppare solo riportandolo idealmente e
concretamente nel luogo del suo radicamento, vedendo in esso cioè l’espressione
di una vocazione ‘ordinante’ della struttura relazionale della società. «Il
referente necessario del diritto — si legge in quel fortunatissimo e prezioso
libretto che è la Prima lezione di diritto — è soltanto la società, la società
come realtà complessa, articolatissima» . Questo è tanto più chiaro quando la
società mostra segni evidentissimi di non voler più essere ridotta e ricondotta
dentro l’alveo costringente della struttura statuale e avanza invece la pretesa
di essere riconosciuta nelle sue linee, spesso incerte e mobili, ma che
certamente debordano i confini talora asfissianti del moderno Leviatano.
Questa
considerazione fondamentale — ‘fondamentale’ innanzi tutto perché sta al fondo
di tutto il lavoro storico e di tutta la riflessione teorica di Paolo Grossi —
ha a che fare con la dimensione ontologica del diritto, ma produce i suoi
effetti su molti piani, nei quali la storia e la teoria del diritto si
intrecciano, fornendo allo stesso tempo spunti preziosi che indirizzano
l’interprete. Si pensi alla lettura della storia costituzionale, nella quale il
costituzionalismo contemporaneo emerge come essenzialmente differente rispetto
al costituzionalismo moderno: pluralistico e attento alle formazioni sociali, il
primo; individualistico e tendenzialmente avverso al pluralismo giuridico e
sociale, il secondo. Questa lettura è feconda perché dà al giurista
un’indicazione cruciale: gli dice che il diritto deve prendere in considerazione
il soggetto nella sua qualità di «entità umana dal carattere squisitamente
relazionale», vale a dire un soggetto «inserito in un contesto culturale,
sociale, economico, e pertanto fornito di una vivace carnalità storica» .
Mi
pare una considerazione che non può non incontrare la sensibilità del giurista
che non si rassegni ad essere un tecnico, un meccanico “avvitatore di bulloni”
costruiti in fabbriche altrui, ma ambisce ad essere il cultore attivo di una
disciplina che è essenziale al vivere comune, e che perciò non può non prendere
le mosse dalla piena consapevolezza delle strutture essenziali della convivenza.
§ 3. Ora, un pensiero che insiste sulla socialità del diritto non può non essere
congeniale ad una terra, della quale si può dire certamente — pur senza cedere a
tentazioni essenzialiste — che ha ancora vivo il senso delle relazioni e che non
ha del tutto ceduto alla individualizzazione delle esperienze di vita. Le è
congeniale perché parlare di socialità del diritto significa parlare di un
diritto che sta dentro le relazioni, le ordina e ne esprime l’intrinseca
normatività: là dove ci sono relazioni, ci sono doveri reciproci. Una verità di
cui siamo — spesso, ma non sempre e non tutti – perfettamente consapevoli.
Un
assunto come questo — l’idea cioè dello strettissimo nesso che lega il diritto
alle formazioni e conformazioni sociali — non rischia affatto di adagiarsi sullo
status quo di una società, accettandone le logiche talvolta perverse. Anzi,
serve proprio per evidenziare quanto una realtà problematica, e spesso brutale,
confligga con la dimensione più umana — ed umana perché relazionale — del
diritto. Là dove i rapporti sono improntanti alla violenza e al dominio non vige
il diritto, ma la negazione del diritto, perché il diritto, come ci ricorda il
Presidente Grossi sulla scia di Santi Romano, è organizzazione; «e
organizzazione è innanzi tutto coesistenza di soggetti diversi che, pur serbando
i caratteri delle proprie diversità, sono coordinati a uno scopo comune» . Dove
sono gli scopi comuni in una realtà caratterizzata dal dominio violento di
alcuni gruppi, i cui interessi sono perseguiti in netta contrapposizione a
quelli del resto della comunità?
Una stessa valenza — descrittiva e critica allo
stesso tempo, sempre con riferimento alla nostra terra — assume un altro
elemento segnalato dal Presidente Grossi come caratteristico del diritto. Mi
riferisco alla considerazione del diritto come ordinamento osservato, là dove il
riferimento alla osservanza non vuole richiamare l’aspetto patologico del
diritto — il fatto cioè che ad esso ci si sottometta in virtù della sua vis
coactiva (e che il Presidente Grossi chiama obbedienza ) — bensì quell’aspetto
fisiologico, in base al quale qualsiasi ordinamento giuridico «si fonda su una
precisa consapevolezza del valore che lo sorregge» . Parlo, a proposito di
questa considerazione, di valenza descrittiva perché nella nostra coscienza
giuridica è fortemente radicata la convinzione che il diritto abbia a che fare
con la giustizia e che anzi quest’ultima venga spesso sacrificata quando il
diritto assume le forme impostegli dall’alto da coloro “che comandano” (ne
abbiamo una bellissima testimonianza letteraria nelle pagine di Gente in
Aspromonte); e parlo però anche di valenza critica perché una considerazione di
questo tipo — che ci conduce a vedere l’osservanza come elemento definitorio del
diritto e non come mera constatazione fenomenologica — ci aiuta a evidenziare
ancora una volta quanta negazione del diritto ci sia nella negazione delle
relazioni con gli altri e dei relativi doveri, che caratterizza assai spesso la
nostra vita pubblica e collettiva.
§ 4. Ed è, questo, un punto che mi preme
sottolineare, nell’accingermi a concludere. Mi è capitato in passato di dire che
se la Calabria vuole rinascere deve riscoprire il linguaggio e la logica dei
doveri. Suona un po’ strano parlare di doveri, in una terra nella quale si è
privi di alcuni diritti fondamentali, come quello alla salute o al lavoro, e
dove sono poco concrete anche alcune libertà come quella di circolazione o di
espressione. Ma non sarebbe difficile dimostrare che questi diritti negati sono
il frutto di doveri mancati; il frutto cioè di una lunga catena di
inadempimenti. Perché i diritti non sono un qualcosa che possiamo ottenere solo
mediante la rivendicazione e attraverso un’azione giudiziaria. Se questa,
celebrata e realizzata nel luogo in cui ci troviamo, è il presidio ultimo di ciò
che noi consideriamo come un “diritto” — un presidio necessario e inelubidile,
il cui buon funzionamento è affidato alla cura dei buoni magistrati e dei buoni
avvocati che riempiono questa sala — non dobbiamo dimenticare che la struttura
dei diritti, la loro efficacia quotidiana, riposa sul generale adempimento dei
doveri che sono alla base dei diritti medesimi. Mi piace parlare in questi casi
di garanzia orizzontale, perché essa ha a che fare con soggetti che si
relazionano direttamente e senza mediazioni istituzionali. Non voglio entrare
nella annosa diatriba sul rapporto tra diritti e doveri, ma la tematica è
cruciale e trova adeguato spazio nella riflessione storica e teorica del
Presidente Grossi. Nel suo libro sulla “invenzione” del diritto, ad esempio,
egli scrive che la nostra Costituzione non può essere ridotta «a un catalogo di
diritti» perché il «singolo cittadino, accanto a un pròvvido corredo di
situazioni che ne tutelano e corròborano le varie dimensioni personali, risulta
titolare di molteplici situazioni di dovere» . E nella pagina conclusiva della
Prima lezione, siamo invitati a «non dimenticare mai che i diritti sono
conferiti al singolo non in quanto isola solitaria ma accanto a un altro e a
molti altri, sono conferiti al singolo quale soggetto inserito in una comunità
storicamente vivente».
Una osservazione, quest’ultima, che ritengo
particolarmente importante per varie ragioni. Intanto, sul piano della
collocazione teorica dell’Autore, che a mio parere viene legittimamente a porsi
sulla scia di quel repubblicanesimo fiorentino che è riconosciuto nel mondo come
la patria di una idea di repubblica che è centrata sulla virtù e sulla libertà
del cittadino che si realizza nel contesto delle istituzioni civili. Ma poi
anche perché questa convinzione espressa più volte dal Presidente Grossi si
presenta come un recupero essenziale per la nostra cultura politica e giuridica.
Recupero di una dimensione, che non solo viene a completare, ma che è parte
della cultura dei diritti, e non solo per la ragione che dicevo poc’anzi, perché
i doveri sono essenziali alla effettività dei diritti, ma anche perché i doveri
aggiungono quel valore della fratellanza, là dove i diritti si fermano ai valori
della libertà e della uguaglianza. Infatti, come scrive di nuovo il Presidente,
«è il dovere che opera il recupero sociale del mio diritto, perché è solo grazie
a quello che questo diventa parte integrante della società» .
§ 5. C’è un ultimo
punto che vorrei sottolineare, riprendendolo dalle riflessioni del Presidente
Grossi, e riguarda la formazione dei giuristi. È un tema sul quale il Presidente
si è molte volte soffermato; forse si può dire che non ci sia un solo suo
scritto che non abbia a che fare con questo tema, sentito come urgente
quant’altri mai. E non è difficile capirne le ragioni. Se il diritto è ciò che
abbiamo detto, una struttura ordinante della ricca dimensione sociale, come
possiamo accettare una cultura giuridica e una cultura della formazione
giuridica tutte centrate sui tecnicismi legolatrici, che hanno l’effetto di
rinchiudere il giurista dentro una stanza vuota e asettica separata dalla
società che preme alle porte? Non la possiamo accettare, e meno che mai possiamo
accettarla se ci poniamo nell’ottica di un giurista che sa ascoltare le
specificità della società nella quale vive, e rispetto alla quale è chiamato
alla duplice e difficile operazione di saperne, da un lato, valorizzare gli
aspetti migliori, che sono poi quelli rispondenti all’idea di un diritto
radicato nelle relazioni tra gli uomini; e dall’altro lato, criticarne gli
aspetti deteriori, che nella loro durezza e violenza si oppongono non solo
all’idea del diritto, ma ad ogni condizione della civile convivenza umana. È un
compito grave e difficile, quello del giurista; tanto più nella nostra Calabria.
E noi siamo grati al Professore e Presidente Grossi per tutti gli spunti che il
suo pensiero ci offre e che sono un sostegno formidabile per poter affrontare
questa sfida.
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