Ti ho vista che ridevi: la salvezza dei paesi tra la terra e il mare
di Tommaso Greco
Del romanzo scritto dal collettivo Lou Palanca, Ti ho vista che ridevi (Rubbettino, 2015), si potrebbe dire
semplicemente che si tratta di un libro davvero molto bello, che merita di
essere letto. Gli ingredienti per il successo ci sono tutti: una bella storia
(che qui non racconterò, nemmeno a grandi linee), una scrittura efficace, un racconto
dal taglio cinematografico (e secondo me, non mancherà molto per una trasposizione
sul grande schermo); tanto che viene voglia di continuare a leggerlo ininterrottamente
per arrivare alla fine, e quando lo finisci ti viene voglia di rileggerlo, e —
soprattutto — mentre lo leggi, ti emoziona fino a farti sentire il batticuore e
farti provare una commozione sincera.
Se è vero ciò che dice una parte significativa della filosofia
contemporanea — cioè, che esiste una intelligenza delle emozioni (M. Nussbaum)
— allora possiamo farci guidare da questi sentimenti per cercare di andare al
di là del giudizio sintetico ed immediato, per entrare dentro la storia e
cavarne qualche riflessione.
La prima cosa che viene da dire, è che questo è un romanzo di terra (mi richiamo qui ad una
distinzione avanzata in uno studio di Cristiana Benussi, Scrittori di terra, di mare, di città, Pratiche editrice, 1998). È
un romanzo di terra innanzi tutto perché la terra ne è protagonista: la terra
di Calabria, la terra delle Langhe, la terra della Val di Susa. Non una terra
generica ed astratta, però, bensì una terra concreta, una terra lavorata dagli
uomini, e quindi fatta di sudore, di dolore e di lotte; una terra che gli
uomini sono chiamati talora a salvare dall’attacco di altri uomini.
Ma se le storie che si intrecciano nel romanzo sono fatte di
terra e si sviluppano a partire dall’appartenenza alla terra, questo non è
affatto un romanzo di immobilismi. Certo, la terra richiama il radicamento, ma
il senso delle radici, in queste pagine, non produce alcuna staticità e anzi
crea movimenti tra una terra e l’altra: tra la Calabria e le Langhe, in
particolare, l’una terra di partenza, l’altra terra di arrivo, delle “calabrotte”
chiamate a salvare la terra del Nord nell’atto stesso in cui fuggono (o sono portate via) dalla
terra del Sud, in una vicenda in cui però, paradossalmente, è la prima che
rischia di morire se queste donne forti non intervenissero con il loro coraggio.
Coraggio di lasciarsi alle spalle tutto un mondo — quello dei loro padri e delle
loro madri — che non avrebbero più ritrovato, se non nel ricordo e, talora, nella
nostalgia, anche perché la terra non è tutta uguale e non offre lo stesso
sguardo sul mondo.
A differenza di quelle calabresi, infatti, le campagne delle
Langhe sono isolate, non sono “in paese”. Mentre in Calabria si va in campagna e si sta in paese, nelle Langhe avviene il contrario: si sta in
campagna e si va in paese solo di rado, solo quando si è costretti, solo per le
necessità della vita. È una vita diversa quella che le calabrotte vanno a
vivere al Nord. Dice una di esse: «mi mancava la ruga, mi mancavano le
chiacchiere con le comari, finanche i saluti con i paesani che tornavano dal
lavoro, mi mancava sapere delle vite degli altri, discutere in famiglia di
quello che ha detto Tizio e di quello che ha combinato Caio».
Per giunta, quella delle Langhe non è solo una terra nella
quale si sta fermi «come un blocco di cemento»; è una terra dalla quale non è
possibile vedere il mare. Pensare al mare, nelle Langhe, vuol dire fuggire:
come in certi racconti di Pavese, che non a caso indicava nel mare il luogo dell’altrove,
il luogo nel quale si concretizzava ogni ansia di andare al di là del mondo conosciuto.
Il mare, invece, per le terre calabresi è una presenza costante e salvifica. Se la terra delle Langhe è chiusa dentro un orizzonte di
terra, la campagna calabrese guarda al mare e ha sempre il mare all’orizzonte,
e non è un caso che alcune delle pagine più belle del romanzo dei Lou Palanca
siano quelle in cui il mare giunge a portare la sua luce e la sua bellezza. Un
mare che compare non come dato fisico e geografico, bensì come simbolo costante
di un cammino che è, nello stesso tempo, via di fuga e d’entrata per coloro che
possono arrivare da altri mondi a portare la salvezza (questo è il messaggio
vero del romanzo, sottolineato nell’introduzione da Carlo Petrini).
Il paesaggio che fa da sfondo alla storia però non si esaurisce tra la terra e il mare. Anzi, ciò che la storia vuole rappresentare trova il suo punto di riferimento cruciale in una sorta di "luogo di mezzo". Tra la terra ed il mare, infatti, ci sono i paesi e Ti ho vista che ridevi è anche un romanzo
di paesi, piuttosto che di città. È,
in altre parole, un romanzo “non metropolitano”; e non solo perché Torino — la
grande città del Nord abitata da tanti meridionali — appare più come minaccia
che come risorsa, così come Catanzaro appare in lontananza, senza diventare mai
luogo centrale del racconto; ma perché significativamente sono i paesi i luoghi
nei quali si svolge quella dialettica tra abbandono e rinascita che è al centro
di tutto il racconto. Riace, così -- il paese in cui la storia comincia e finisce (ma finisce, solo per cominciare di nuovo) --, Riace con la sua storia di accoglienza, diventa simbolo
e modello di una vicenda che potrebbe, e dovrebbe, interessare tutti i luoghi
votati all’abbandono: luoghi destinati a finire in quel lungo elenco (peraltro crescente,
nel disinteresse di tutti) di paesi che muoiono perché viverci non ha più alcun
senso, a meno che non venga qualcuno o qualcosa a ridare senso a quella vita, a
quelle strade, a quelle case ammucchiate l’una sull’altra, prima che possano
diventare rovine che rovinano l’una sull’altra.
Riace è il futuro, ci dice questo romanzo, e può esserlo senza
che ci sia bisogno di rinnegare il passato, se non nelle sue manifestazioni
violente e irrispettose della dignità e della delicatezza umana. Riace è il paese dove una storia di sopraffazione può diventare storia di salvezza; dove il luogo di partenza di una fuga che porta lontano può diventare luogo di approdo di un'altra fuga di chi proviene da lontano.
Ecco perché, concludendo, si può dire che il libro dei Lou Palanca sa trattare con pietà una storia di dolore, volgendola in
storia di redenzione e speranza. Anche per questo, la speranza è che esso rappresenti un momento
significativo di riscatto culturale della terra calabrese, allo stesso modo in
cui il nome del piccolo (grande) calciatore cui si ispira il nome del collettivo
che lo ha scritto rappresentò forse il momento di maggior riscatto dello sport
calabrese degli ultimi decenni.
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