Calabria del Nord-Est: trent’anni… in marcia indietro

di Tommaso Greco

Foto di Francesco Sapia

Sono passati trent’anni da che sono partito dalla Calabria. Lo dico non perché voglia infliggere ai lettori memorie personali, e men che meno per fare riflessioni sconsolate sul tempo che passa. Lo dico perché questa evenienza mi permette di proporre una riflessione che vuole avere carattere pubblico e che ha a che fare, non con il sottoscritto, ma con la Calabria che ho lasciato e che ritrovo ogni volta. E la riflessione che voglio fare è la seguente, qui sintetizzata nella maniera più semplice e diretta possibile: in questi trent’anni la Calabria che ho lasciato, quella che vivo e sperimento ogni volta che ci ritorno — per intenderci: la Calabria che Franco Filareto ha chiamato ‘Calabria delNord-Est’, quella compresa tra Sibari e Cariati — ha fatto passi da gigante; ma sono stati passi compiuti all’indietro, non in avanti. Passi verso il peggio e non verso il meglio.
Quando mi sono iscritto all’Università di Pisa nel 1987 si viaggiava in treno, avendo a disposizione diversi possibili itinerari. Per un lungo periodo, addirittura, un treno Intercity collegava direttamente Crotone a Torino passando dalla linea tirrenica. L’altro giorno, per pura curiosità, ho consultato il sito delle Ferrovie dello Stato: per andare da Pisa a Rossano avrei dovuto fare cinque cambi, impiegando 13 ore e facendo alcuni tratti con l’autobus. Quello che io chiamo il “principio TAV” ha funzionato benissimo: si privilegia una tratta e si investe tutto su di essa, dopodiché tutto ciò che non vi rientra può morire d’incuria. Non credo ci sia un solo studente calabrese che pensi oggi di viaggiare da Pisa verso la Calabria jonica muovendosi in treno. Gli autobus sono a disposizione quotidianamente e a tutte le ore; l’aereo che per un brevissimo periodo ha collegato Pisa a Crotone è finito nel nulla, inghiottito nei debiti della società aeroportuale (l’unica in Italia ad aver fatto questa fine).


Quando mi sono iscritto all’Università di Pisa nel 1987 a Rossano era stato da poco costruito un ospedale che era diventato il fiore all’occhiello del territorio: moderno, funzionale, con la speranza di attrarre personale capace di coniugare dedizione e competenza, magari richiamando qualcuno dei bravissimi medici originari di questa terra che fanno il prestigio e la fortuna degli istituti ospedalieri del centro-nord. L’altro giorno sono tornato per l’ennesima volta in quell’ospedale e l’ho trovato spoglio in gran parte, abbandonato, stonacato, arrugginito, con un pronto soccorso dove il numero delle guardie giurate è di gran lunga superiore a quello dei medici. In questi anni ho visto aumentare le persone che partendo dalla sibaritide vengono a Pisa a curarsi, e come a Pisa in quasi tutte le città del nord Italia. Nel frattempo, i casi di malasanità che provocano morti inspiegabili e dolorose non mancano.


Quando mi sono iscritto all’Università di Pisa nel 1987 vedevo molti che erano partiti negli anni precedenti tornare per sistemarsi in Calabria. Nutrivano la speranza di ricominciare nella loro terra — evidentemente ce n’erano le condizioni — e per questo abbandonavano un lavoro sicuro nel nord, investendo al sud i risparmi generati da anni di sacrificio. Negli anni ho visto molti di costoro rifare le valigie, partire per nuove destinazioni, ricominciare daccapo e provare a rifarsi una vita in una terra lontana. Ma soprattutto: non solo non si vede più nessuno tornare, ma si vedono sempre più giovani partire come avevano fatto i loro nonni e i loro genitori; persino chi decide (o magari è costretto dalla mancanza di possibilità) di studiare a Cosenza o Catanzaro e di prendersi una laurea quaggiù, una volta raggiunto l’obiettivo sa che deve cercare altrove le sue possibilità e il suo futuro, e quindi mettere a disposizione di altre terre, di altre genti, le competenze acquisite, la voglia di costruire qualcosa, magari non solo per sé ma anche per gli altri.
Quando sono partito nel 1987 la società civile — un vero punto dolente della nostra terra — era più viva di quella di adesso. Non parlo di realtà che qui appaiono ‘marziane’, come quelle rappresentate in altre zone dalle associazioni antimafia o da associazioni di promozione della cultura politica democratica. Parlo di realtà locali che nella loro semplicità erano animate da gruppi di varia natura: politici, musicali, folkloristici, culturali in genere. I piccoli paesi avevano il loro ‘complesso’ musicale, talvolta la loro banda, un gruppo teatrale che preparava le recite per le grandi occasioni. Le sezioni dei partiti erano luoghi veri di partecipazione e inclusione politica, oltre che di selezione di una classe dirigente istruita, la quale sapeva che doveva render conto quanto meno al partito che lo aveva candidato. La presenza di alcune istituzioni era reale: la Chiesa, ad esempio, era costantemente visibile sul territorio, i sacerdoti erano punto di riferimento di giovani che nelle parrocchie animavano varie attività, vedevi i preti costantemente per le vie del paese. Oggi, vedo i giovani dispersi e vaganti, tutt’al più riuniti attorno al tavolo di un bar, e una Chiesa ridotta a organizzazione burocratizzata che ha abdicato quasi totalmente alla sua capacità di accompagnamento e di guida, e ha chiuso i suoi sacerdoti nel grigio adempimento delle funzioni curiali.
Le eccezioni naturalmente non mancano: esistono gruppi di persone che lodevolmente portano avanti iniziative e proposte, e fanno cose, talvolta, di altissimo valore. In alcune scuole la dedizione di chi se ne occupa porta a raggiungere risultati eccellenti. Si sono affermate realtà economicamente e turisticamente rilevanti (penso ad esempio ad un famoso acquapark). Ma l’impressione è che siano altre le coordinate del ‘sistema’ nel suo complesso, e che il territorio giri intorno ad altre priorità, altri valori.
Questo si vede anche dal fatto che non ci sono movimenti ampi di protesta. L’unico esempio di un movimento di questo genere si è avuto in occasione della chiusura del Tribunale di Rossano, accorpato nientemeno a quello di Castrovillari, ma proprio in quella occasione si è potuto osservare che la società civile non ha alcuna voglia di dimostrare la sua esistenza, e di rivendicare quindi i suoi diritti, e la protesta è stata lasciata esclusivamente in mano a coloro che erano considerati gli unici diretti interessati, cioè gli avvocati e i loro assistenti. Come se la tutela della legalità, la difesa dei diritti, la presenza dello Stato, non fossero un affare di ciascuno e di tutti, e come se l’allontamento di una istituzione centrale come un Tribunale — l’istituzione nella quale si realizza forse la funzione fondamentale dello Stato stesso, il rendere giustizia — non fosse un segno inequivocabile dell’abbandono definitivo che lo Stato comunicava al nostro territorio.
Ma del resto, contro chi protestare? Verso chi levare il nostro grido se non innanzi tutto verso noi stessi, che assistiamo attoniti ed inermi a questo abbandono progressivo e irreversibile, al quale non sappiamo rispondere in altro modo che abbandonando a nostra volta? Certo, come nella migliore letteratura meridionale, non mancano mai i più furbi, i quali si approfittano di questa situazione, volgendola per quanto possibile a loro vantaggio, e disinteressandosi del fatto che costruiscono i loro castelli sopra una nave che sta affondando e che si porterà dietro anche le loro ricchezze. Ma gli altri? Dove sono, dove siamo, tutti gli altri? Le denunce, come quella appassionata pubblicata qualche tempo fa da SalvatoreMartino, sembrano non produrre alcun effetto. Ci vogliono iniziative concrete, gruppi di cittadini attivi e consapevoli, i quali — vincendo lo scoramento e la solitudine — comincino a seminare, trovino il modo di buttare in terra qualche seme, trovino persino la forza di contrastare gli interessi consolidati che vogliono mantenere questa situazione di abbandono, il tutto con la speranza, ma anche la ferma convinzione, che magari un giorno — forse tra molto tempo, ma forse anche domani — qualcuno di questi semi, cadendo sul terreno più adatto a farlo crescere, riuscirà a produrre i suoi frutti duraturi.

Commenti

  1. Non per essere artatamente polemico ma quando si specifica che per Calabria del Nord-Est di intende il territorio che va da Cariati a Sibari, beh ... stai lontano altri 30 anni dalla Calabria caro scrittore, perché una delle ragioni dell'arretratezza culturale ed economica È stata la frammentazione del territorio con esasperazione degli interessi egoistici. Sappi caro scrittore che il paese più a Nord-Est della Calabria, ahimè, è Rocca Imperiale e non Sibari, frazione di Cassano. Avv. Giovanni Franco.

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  2. Caro avvocato (non so se anche scrittore, sicuramente polemista), grazie intanto per il commento. La specificazione "tra Sibari e Cariati" era per dire che io posso parlare -- e parlo -- solo della Calabria che conosco direttamente e che vedo con i miei occhi più volte all'anno. Se poi le cose che ho scritto valgano anche per altri pezzi di Calabria (e a maggior ragione per tutta la Calabria del nord-est) non devo essere io a dirlo, e tutt'al più posso compiacermene (anche se sarei più contento di sentire che c'è una Calabria diversa e migliore). Quanto alla frammentazione, come non essere d'accordo? Può essere una delle cause principali dei mali che ho descritto, ma non era di questo che mi stavo occupando. Saluti.

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    1. una sintesi che purtroppo tocchiamo con mano ogni giorno un territorio ''la fascia ionica '' depravata da ogni struttura e infrastrutture , qualcuno vuole far scomparire questo lembo di calabria, e ciò che mi fa rabbia che la popolazione sta in un silenzio tombale, un menefreghismo totale , sanno solo lamentarsi nei pronto soccorsi, nello spiazzale dei bus ''che hanno preso il posto dei treni ''' quando devono raggiungere castrovillari x il tribunale ecc..ecc. un popolo strano il nostro.. le bimbe che capeggiavano alla manifestazione '' e non solo a quella del tribunale '' sono da ammirare..

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    1. A SCOPPIO RITARDATO, MA SEMPRE ATTUALE … sono nuovo del blog.
      La Calabria del Nord-Est non è Sibari, né Rocca Imperiale. Avete perduto la calabresità oltre che la bussola! La foto delle bambine è una speculazione buonista. Dove sono le foto segnaletiche dei politici responsabili? Già, sono indaffarati a mendicare il voto per la prossima spartogna, ma quali “nostri territori, sanita (senza accento), treni e tribunale”. Ma quale aeroporto di Sibari se quello di Crotone (a Nord-Est) non è stato nemmeno attivato per le partite di serie “A”! Chissà se l’attiveranno per quelli del corridoio umanitario che viaggiano in First Class. Il meridione, aimè, si è fagocitato il settentrione, questo è successo. Eppure, i meridionalisti, quelli veraci, l’avevano previsto al tempo della questione meridionale che se non risolta avrebbe trainato anche il Nord, a cominciare dal Centro-Italia, come il tiro alla fune. C’è, ancora, chi s’illude che questi problemi si possano risolvere con l’accoglienza che ripopolerà le nostre squole (come squolabus), i nostri ospedali/sanatori, i nostri treni/carrozzoni, i nostri territori/discariche, le nostre case, svuotate dalla nuova emigrazione giovanile e tartassate. Ma perché invece di prenderci gli immigrati degli altri non ci teniamo i nostri immigrati che, scusatemi, sono i nostri figli? O siamo noi stessi, giacché la pensione arriverà non con i contributi versati ma con l’aspettativa di vita, a ott’anni … aspettando Natale … il prossimo, questo è appena passato, auguri. Angioletto.

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