“Cchi mi cunti?” Tre forme del radicamento nei racconti di Mimmo Bitonto
di Tommaso Greco
Alla memoria di zu Giuseppe Mazza,
grande cuntastorie di
Caloveto
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Michele Tucci - Crosia |
La raccolta di racconti appena pubblicata da Mimmo Bitonto —
Cunta cu (Edizioni Città del Sole, Reggio Calabria) — ha un titolo bellissimo e
familiare. Quando noi calabresi incontriamo qualcuno gli chiediamo sempre “cchi
mi cunti?” (“cosa mi racconti?”). Dice giustamente Pierpaolo Cetera nella
prefazione al volume che l’espressione “cunta cu” è da intendere come «un
invito, un’attesa». Ciò significa che ‘cuntare’ è attività che implica l’esistenza
di una relazione, e per questo dire a qualcuno “cchi mi cunti?” è un modo per
ristabilire una relazione interrotta dalla distanza o dal tempo, per creare una
complicità, magari anche solo momentanea. Ma cuntare è anche un tramandare,
consegnare qualcosa a qualcuno perché lo possa custodire, e magari lo consegni
a sua volta a qualcun altro. Anzi sappiamo bene che quando una cosa l’abbiamo cuntata, essa è potenzialmente
replicabile all’infinito.
Nei vicinati — quando ancora esistevano —, la sera ci si
sedeva sui muretti e, oltre ai pittuli (pettegolezzi), si raccontavano storie, a volte fantastiche,
a volte grottesche, a volte orrorifiche. Spesso queste storie avevano a che
fare, oltre che con il passato, con i sogni e i morti. E queste storie avevano
un effetto ‘magico’, tipico delle storie raccontate oralmente: l’effetto era
quello di farle sembrare talmente reali da averne poi timore. A quelle storie
ci si credeva, perché ci credeva innanzi tutto colui o colei che le raccontava.
Perché non è mica solo alle storie vere che bisogna credere; bisogna credere a
tutte le storie che ci dicono qualcosa e che ci mettono a fianco di qualcuno,
anche se questo qualcuno non esiste. È un qualcuno che esisterà grazie al fatto
di essere entrato nella storia che viene raccontata. È esistito Ulisse? È
esistito don Chisciotte? E don Rodrigo? Pinocchio? Nessuno di loro appartiene
alla storia; ma qualcuno avrebbe forse il coraggio di dire che non sono reali?
I personaggi di Mimmo sono così: io non so se siano mai
esistiti; ma per me essi sono reali. Sono reali perché nel loro essere cuntati, attraverso le loro vicende e i
loro gesti, essi incontrano il nostro sguardo sul mondo e si calano nella
nostra vita. E sono reali perché incarnano, in varie forme e misure, le vite di
chi li legge.
Non starò ovviamente ad analizzare i racconti uno per uno, e
meno che mai a sintetizzarne le vicende. Per questo, occorrerà che leggiate il
libro, peraltro scritto con uno stile che definire raffinato — anche nell’uso
del dialetto — è dir poco.
Voglio invece sottolineare alcune linee che mi sembrano
attraversare le varie pagine e le varie storie ivi raccontate. Ecco:
guardandole nel loro insieme, mi sembra di poter dire che le storie raccontate
da Mimmo sono storie ‘radicàte’, fatte di radici. Un radicamento, questo di cui
parlo, che è da intendere in tre sensi diversi.
Innanzi tutto, queste radici affondano fisicamente nella
terra. Queste storie ci accompagnano a conoscere un territorio, i suoi luoghi
fatti di case e di conventi, di campagne e torrioni. Come scrive ancora Cetera,
siamo di fronte a un “cunto” «che traduce lo sguardo sul nostro territorio in
parole, in costrutti lessicali, che colora i nostri paesaggi ancestrali». Tutti
i personaggi sono sempre calati in un contesto geografico ben determinato e
direi che non sono pensabili al di fuori dei luoghi nei quali sono chiamati
dall’autore a vivere la loro esistenza. Questo radicamento non si traduce però
in una dannazione, ma piuttosto, almeno in quelli che possiamo considerare gli
“eroi positivi” dei vari racconti, in un prendersi cura di questi luoghi e di
ciò che essi contengono: penso soprattutto a Nilo da Rossano e al suo rapporto
con la biblioteca del convento di Cosenza, oppure al ragazzo dell’ultimo
racconto (di cui, se non sbaglio, non ci viene detto il nome) e al suo rapporto
con la ‘casa della Vota’ (una specie di casa del Nespolo malavogliana, che ne
ripercorre le vicende) dove viene ritrovata la pergamena di Cassiodoro. Ecco,
quello che io traggo da questi racconti è il seguente ammonimento: prendersi
cura di un luogo richiede una costante e continua attenzione, che non deve mai
venir meno. Perché — come avviene in alcuni racconti — ci vuol poco a dissipare
un patrimonio, o a veder decadere una casa, una biblioteca, un convento, un
quartiere, una città. Beni di cui occorre che si prenda cura colui a cui
vengono affidati, e in certi casi questo ‘colui’ siamo tutti. Se la casa è mia
tocca a me prendermene cura; ma certi beni sono ‘beni comuni’, il che significa
che tutti abbiamo — ancora prima del diritto di goderne — il dovere di
occuparcene.
Il secondo piano di questo radicamento è quello esistenziale
e affettivo, che si concretizza principalmente nei legami familiari. Siamo in
presenza di storie collocate e dislocate a partire da quel territorio cruciale
dell’esistenza che è rappresentato dalla famiglia. Un luogo che Bitonto
presenta come fatto di gioie e dolori, di attenzioni ma anche disattenzioni, di
capacità di prendersi cura e di abbandoni, di tenerezze e violenze. Tutte le
vite raccontate in queste pagine sono fortissimamente addestinate a causa della loro famiglia: un qualcosa che è
ineliminabile, che però — sembra dirci l’Autore — bisogna assumersi la
responsabilità di indirizzare in maniera adeguata: perché anche le famiglie,
come le case e i paesi, possono rovinare e dipende principalmente da noi se in
esse albergherà il dolore o la gioia. A volte, come avviene in uno dei racconti
(Domenico e la sua ombra), occorre
che qualcuno abbia la forza e la determinazione di vincere la resistenza
dell’altro e di fugare le ombre che — addensandosi su uno — insidiano
l’esistenza di tutti. E questa determinazione deve spesso scontrarsi con
tradizioni, abitudini e convinzioni che sembrano più forti della vita e della
morte. Peggio: tradizioni, abitudini e convinzioni che sembrano — e sono —
portatrici di morte, e proprio per questo vanno combattute a viso aperto, come
fa Isabella, la moglie di Domenico, per proteggere il suo ultimo figlio, nel
cui doppio nome Luigi/Mario si scontrano appunto due mondi che sono spesso
inconciliabili e che non bisogna illudersi di vedere conciliati. Anche qui,
fatemi trarre dalle pagine di Bitonto un ammonimento a noi meridionali: ci sono
ombre potenti che insidiano la nostra esistenza individuale e collettiva, e
spesso queste ombre hanno nomi che vengono dalla famiglia o da legami che
sentiamo comunque come familiari. Ecco: bisogna fare come Isabella e combattere
queste ombre se vogliamo che la vita vinca sulla morte e se davvero desideriamo
che ciò sembra malato trovi il modo di tornare in salute.
Il terzo radicamento a cui accennavo è di tipo morale. Tutte
le storie raccontate da Mimmo hanno per protagonista persone ‘semplici’: la morale
che egli ci presenta è perciò una morale degli ultimi e non dei primi. Alla
storia infatti si può guardare da due punti di vista diversi — e occorre
diffidare sempre di coloro che vogliono annacquare tutto e far finta che ci sia
un solo modo di leggere le cose del mondo: si può guardare a queste cose dall’alto o dal basso, stando quindi dalla parte di esercita un potere o di chi lo
subisce. I ‘semplici’ sono persone che subiscono il potere: che sia il potere
di un priore o di un capomastro, di un podestà o di un padre di famiglia. Ma il
loro modo di stare nel mondo è un vero esempio di purezza. Sono semplici che
rimangono semplici e che non deturpano il loro sguardo assumendo — da
subalterni — lo sguardo di chi li schiaccia e opprime. Anche in questo caso, i
personaggi di Bitonto ci educano: perché il loro sguardo non è deturpato, non è
lo sguardo di chi accetta i soprusi, arrivando a ritenerli addirittura legittimi
perché tanto “così va il mondo” ed è giusto che chi comanda si faccia i comodi
suoi. È invece lo sguardo di chi ha ancora conservato il senso delle cose, di
chi sa che una cosa diritta deve essere diritta anche se chi ne ha il potere la
fa diventare storta, e quindi nell’abuso legge un abuso, nel sopruso un sopruso
e che magari, potendo, cerca di far crollare il castello costruito sulle
angherìe e le violenze. Juannino, a
cui è intitolato il racconto più ‘politico’ di questa raccolta, non fa altro
che questo: subisce le angherìe e le violenze, le sopporta, ma non smette mai
di vederle e considerarle come tali. E proprio quando sembra maggiormente
sottomesso; quando fa credere agli altri di essere diventato quello che noi
chiameremmo, disprezzandolo, un ‘servo del potere’, proprio allora compie la
sua opera di ‘resistenza’ e di lotta: fa in modo che il Turriazzo — un
monumento alla megalomania, ma anche e soprattutto alla prepotenza con cui chi
comanda schiaccia chi è comandato; un’opera con cui il potere vuole nascondere
i problemi della povera gente (una specie del Caciocavallo di bronzo cantato da
Peppe Voltarelli) — ebbene: il Turriazzo finisce in polvere al primo atto,
quando avrebbe dovuto inaugurare il trionfo definitivo del potente che lo aveva
fatto costruire. Un piccolo uomo, un ‘semplice’, che fa crollare un’opera
maestosa.
Anche in questo caso, perciò, con questa terza forma di
radicamento che io vedo presente nei suoi racconti, Mimmo Bitonto vuole
insegnarci qualcosa. Vuole dirci che un granello di sabbia può inceppare la
macchina del potere; ma questo è possibile soltanto se il semplice, l’umile,
l’uomo del popolo, riesce a non ragionare come colui che lo schiaccia. La forza
del semplice, potremmo dire, sta innanzi tutto nella purezza del suo sguardo. I
gesti che ne deriveranno saranno una conseguenza di questa purezza.
Tutte e tre queste forme di radicamento richiamano alla
responsabilità: dei personaggi raccontati nelle pagine del libro, ma anche di
chi come noi ne legge le storie.
Con questo non voglio dire che la letteratura di Mimmo
Bitonto sia una letteratura ‘impegnata’. Questo schema un po’ vecchio, che
distingue la letteratura di intrattenimento da quella appunto impegnata, forse non
saprebbe cosa dirci delle pagine di Mimmo, che sono impegnate quando più si
disimpegnano e, nel raccontare le piccole cose e le grandi difficoltà della
vita quotidiana, tendono piuttosto a nascondere che a rivelare le ragioni
dell’impegno. Un po’ come Juannino, che porta avanti la sua battaglia quando ha
fatto credere a tutti gli altri di aver mollato per sempre. Ed è questo
l’ultimo ammonimento che traggo da questi racconti e da alcuni suoi caparbi personaggi:
che occorre compiere il proprio percorso anche nel silenzio, ma non nella
rassegnazione, e soprattutto — pur nella piena consapevolezza di ciò che siamo
e di ciò che siamo stati — lasciandoci tracciare la strada da ciò che vorremmo
essere, o meglio: da ciò che dovremmo
diventare per essere migliori di ciò che siamo stati.
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