CALABRIA IMPOSSIBILE? KAULÓN/MONASTERACE, IL TEMP(I)O IN 3D


di Mario Ricca



Passato Futuro

Sul far della sera, un’imbarcazione naviga sullo Jonio. Sulla costa, più a nord di Locri Epizefiri, di fronte ai naviganti si staglia un promontorio smisurato che s’allunga nel mare, un indice titanico proteso tra i flutti. Approssimandosi alla terraferma, s’intravede sempre più nitida la sagoma di una città. Un tempio in lontananza occhieggia nella notte stellata, arretrato rispetto alla costa. La forma è imponente. Si contano sei colonne frontali. Danno verso il mare. Incorniciano da lontano il porto, sicuro e fortificato: punteggiato da luci d’avvistamento, nella notte sembra disegnare un merletto. È il confine marino dell’abitato, è Kaulón, la ricca colonia della Magna Graecia.

I naviganti sono abitatori di un tempo sconosciuto, ancora indefinibile. Forse Greci, forse ignoti stranieri, che provengono da un tempo remoto, altro. La loro imbarcazione s’avvicina all’ingresso del porto, quando d’improvviso la banchina svanisce. Anche il promontorio, punteggiato di fuochi notturni, si dilegua. Al suo posto, molto distanziato, un faro, arroccato su una collinetta dove poco prima sembrava in lontananza d’intravedere un tempietto. è un faro moderno, elettrico. Frattanto squilla un cellulare a rompere l’incanto. La navigazione procede ancora per alcune centinaia di metri. La costa pare essersi ritratta, raggrinzita, come risucchiata dal macinare dei secoli.
Qualcosa, però, rimane. Svanita la città, nel buio, si delinea luminescente la sagoma del tempio greco. Giunta vicino a riva, l’imbarcazione s’arresta. Qualcuno getta l’ancora. Mischiato al placido sciabordio dell’acqua sui fianchi del battello, echeggia il canto ronzante di centinaia di cicale.
Lo scenario è mozzafiato. I naviganti sono venuti da lontano per ammirarlo. Alcuni hanno viaggiato per via aerea, altri via terra. Tutti, comunque, sono giunti insieme a un luogo affacciato sul mare dove il passato si è fatto… si farà, potrebbe farsi futuro.
Di che materiale è questo tempio che si erge sulla costa buia come un fantasma luminescente? Forse è costruito con lo stesso impasto dei sogni. Forse è soltanto un sogno, un’allucinazione, parto di un’immaginazione fuori rotta. Sì e no, è la risposta.
Si tratta di un’immagine che migra dal passato. Un’immagine in 3D, quasi reale. Lo è, però, solo come immagine. A toccarlo, il tempio si rivela impalpabile. Questo perché è solo una proiezione, un ologramma. A rendere possibile il suo irrompere sullo sfondo del cielo notturno sono soltanto specchi e proiettori. Un artificio. Si tratta di una fantasmagoria tecnologica. Attraverso essa, però, è il passato che parla: una voce che echeggia dall’antichità, visionaria proiezione architettonica di chi ha vissuto quei luoghi nel passato e ha lasciato tracce di pietra, orme dei suoi sogni trasformati in realtà adesso svanite.
Il fondoscena di questo passato trasformato in futuro è Monasterace, una cittadina sulla costa Jonica della Calabria. Il luogo preciso è il terrazzamento, quasi un contrafforte di terra, che si affaccia sulla spiaggia accanto a quella che fu ‘Punta Stilo’, ormai ridotta a un’esigua prominenza della costa sabbiosa. Su di essa, gli scavi dell’antica Kaulón, appunto, dominati dal perimetro del tempio dorico secondo alcuni dedicato a Zeus. La sua costruzione originaria risalirebbe al VI-V secolo. Edificato in stile dorico, dotato di 6 colonne, alle estremità frontale e posteriore, e di dodici laterali, fu riportato alla luce da Paolo Orsi, all’incirca un secolo fa.

          
Agli occhi di un non archeologo, il tempio giace nella sua muta maestosità come un gigante amputato. Rimangono le fondamenta, gli scalini, poco più d’altro. La forma evoca, però, l’imponenza e la bellezza del tempo che fu. A parlare è un’orma non cancellata dai secoli, né dall’incuria o dalle necessità degli uomini, che non risparmiarono di saccheggiare i suoi marmi, le sue pietre, per edificare le proprie dimore. Sorte comune a molti siti greci lungo le coste, le colonne del tempio, forse già abbattute da un terremoto o dai saccheggi degli uomini, furono utilizzate durante il lungo arco del Medioevo per edificare siti collinari, proiezione spaziale e demografica di quelli marini. L’esigenza di difendersi dai saraceni spingeva le popolazioni eredi di greci e romani a rifugiarsi tra le alture, per scampare alla morte e alle violenze. I resti degli antichi splendori, pietre in testa, divenivano allora cibo per ingegneri e architetti impegnati in quelle operazioni di trasloco urbano. Anche il centro storico di Monasterace, le vestigia del suo castello arroccato sull’altura sovrastante la valle che accoglie nel suo grembo il tempio e l’antica Kaulón, non fanno eccezione. Tra i suoi vicoli, tortuose arterie di quel fortilizio attraversato e disgregato dalla storia, pulsa ancora una vita singhiozzante, rintanata in minuscoli alloggi d’impronta medievale e punteggiata dalla sagoma di parabole televisive e dal rombo di motociclette scoppiettanti, reperti anacronistici di un progresso, d’un futuro, che paiono autoaccusarsi d’essere fuori luogo. Al centro di quel reticolo di tane medievali campeggia un palazzo, oggi vivisezionato in abitazioni minime, e accompagnato all’esterno da un inganno in pietra, un finto pozzo. Accanto ad esso, in una didascalia, è svelata la cifra del suo mistero. Non contiene acqua, è piuttosto l’imboccatura di un antico cunicolo scavato sottoterra, nella roccia. La sua originaria e reale funzione era quella di assicurare una via per riparare tra le mura del castello alla gente che viveva a valle, ignara abitatrice del sito dell’antica Kaulón. Era quest’esigenza di fughe repentine a scandire il presente dell’epoca segnata dall’espansione saracena. Oggi, da quella sorta di orecchio di roccia che è l’imboccatura del pozzo, chi vuole può ancora ascoltare il fragore lontano delle onde nelle notti di tempesta. Scampoli di un racconto senza fine, che narra dell’inesausta lotta dello Jonio contro le sabbie ormai smunte di ‘Punta Stilo’.
Oggi, di quel tempo di paure e precipitose ritirate non esiste più nulla. Eppure il tempio continua a vivere un presente di solitudine e semi-abbandono. A dispetto della desolazione, continua però a resistere, a imporre le sue forme all’occhio del visitatore, la sua conservazione alle contrastanti e inibite esigenze abitative dei cittadini di Monasterace. Con il suo contorno di scavi esso è avvolto in una doppia ambiguità. Da una parte, l’inappropriata tutela archeologica, legalmente severa e concretamente incurante al tempo stesso; dall’altra, il senso di frustrazione, di vero e proprio scippo avvertito dalla cittadinanza ai danni dei propri spazi vitali, del proprio agire quotidiano. Insomma, il tempio ridotto alle sue fondamenta è come la metafora della voce di un passato archeologico tornata in vita con le fattezze di un aborto. Perché questo – senza polemica – è il presente degli scavi dell’antica Kaulón e dell’interessante Antiquarium a essi attiguo. Patrimonio immenso eppure reso silente dalla cronica mancanza di fondi, dal diffuso disinteresse per i beni culturali e dall’incapacità di schiodarlo da un ‘incartamento museale’, che fa morire l’oggi e rende ancor più defunto il passato.
A cambiare la scena potrebbe intervenire l’archeologia virtuale. Attraverso studi e ricostruzioni accurate potrebbe diventare possibile ridare vita ai luoghi del passato, utilizzando quanto di più futuribile ci sia a disposizione per far rivivere lo spazio che fu, immaginato e popolato da chi lo abitò in un tempo ormai dileguato.
Presente.
La scena descritta aprendo questa breve divagazione su Monasterace/Kaulón e le sue chances di futuro possono appartenere a ogni epoca, e tutte riassumerle. A fare il miracolo, a cavallo tra ieri e domani, potrebbe essere la tecnologia, potenziale volano dell’immaginazione e della sua capacità di inventare nuove nature.


Presente

Il registro dell’attualità non può avere i toni e i colori evanescenti dell’immaginario, del sogno. Saprebbe d’inganno. Chi sono dunque i naviganti immaginati sul vascello in viaggio attraverso il tempo? Senza remore, e con franchezza, c’è da chiamarli turisti. Visitatori di un sito di archeologia virtuale e, insieme, reale. Simmetricamente, notte e giorno potrebbero avvicendarsi tra gli scavi dell’antica Kaulón, a Monasterace, testimoniando i segni di quel che c’era e, a ritmo alternato, rigenerando in una sorta di presente ricordato il suo aspetto reale, originario. Non ci vuol molto a realizzare che si tratterebbe di un rilancio sia tecnologico sia archeologico delle potenzialità offerte dal territorio calabrese. Grazie alla collocazione strategica del tempio di Kaulón, grazie al suo incredibile affaccio sul mare, l’esperimento «Monasterace» potrebbe rappresentare l’avvio spettacolare di un progetto complessivo di rilancio per l’intera area jonica e per i suoi parchi archeologici. Agli scettici, sempre intenti a calcolare i costi, soprattutto quando si parla di cose che non si mangiano, come la ‘cultura’, si potrebbe far balenare l’immagine di uno sciamare d’imbarcazioni che sul far della sera conducano i turisti a cenare sul mare, di fronte allo spettacolo di un tempio del VI-V sec. Un tempio la cui immagine, con l’adagiarsi del primo buio, miracolosamente si materializzasse in 3D lungo la battigia.
Non credo esistano molti luoghi al mondo a poter offrire uno scenario di questo genere, così suggestivo e altrettanto emozionante. Senza contare che il tempio potrebbe costituire solo l’inizio. Se l’esperimento riuscisse – economicamente, intendo – potrebbe trarsene foraggio non solo per le attività commerciali della zona ma anche per dare rinnovato impulso agli scavi. Tra la terra e il mare, l’antica Kaulón attende d’essere disseppellita, per quel tanto che ancora si può senza distruggere le abitazioni dei residenti di Monasterace. E quel tanto è comunque moltissimo.
Diranno, alcuni puristi, che la proposta suona volgare, un asservimento della bellezza silenziosa dei resti archeologici, della sobria maestà delle vestigia di un nobile passato, alle bieche ragioni del commercio, dello spettacolo. Ma si tratta di un’obiezione troppo facile, che sclerotizza l’esistente e ciò che in esso ha incastonato la storia. In risposta, c’è da osservare che la cultura non consiste nelle cose, dunque nei resti o negli oggetti, così come la natura non si riduce ai paesaggi o agli animali, irrealisticamente isolati dal loro contatto con la presenza umana. L’essere umano stesso è natura, l’incessante ronzio della sua attività neuronale, il continuo flusso del suo pensiero sostanziano ciò che si definisce cultura. Ogni paesaggio con le sue componenti, così come ogni artefatto nella sua materialità, sono sintesi di un agire guidato dalla mente, cioè dal pensiero e dall’immaginazione proiettata verso la prassi. In un pianeta dominato dalla presenza umana, piaccia o non piaccia, anche gli spazi incontaminati sono divenuti il frutto di un’opzione antropica e politica; anche le catastrofi naturali, inclusi tsunami e terremoti, eruzioni e valanghe, acquisiscono significato attraverso lo spettro dei valori etici e cognitivi elaborati dall’animale uomo. Non è possibile astrarre la natura dalla presenza e dai contributi antropici; allo stesso modo non può guardarsi ai reperti archeologici imbalsamandoli esclusivamente nella loro consistenza di cose. I relitti del passato sono inevitabilmente esposti a essere riletti; e possono essere riconosciuti come relitti generati dal passato solo a condizione che soggiacciano all’essere riletti. Il significato autentico di ogni segno del passato è appunto l’essere segno, quindi un oggetto d’interpretazione, di conoscenza e, per questo tramite, di costante rivivificazione. Il segno è di per sé un inossidabile viandante del tempo. Il suo significato si dispiega attraverso le diverse epoche colmandosi costantemente di nuove sfaccettature, di inedite connotazioni, talora ancor più esplicite e ricche, e in questo più vere, di quelle possedute all’origine. Nel regno del senso, che è l’habitat degli artefatti umani e quindi la casa dell’uomo, il passato è realmente una conseguenza del futuro. Considerazione forse paradossale, eppure inaggirabile. E il perché è semplice. Il grado zero dell’autenticità non esiste. Non può darsi alcuno sguardo da nessun luogo, né della storia umana, né della natura e del suo divenire. Nel cosmo dei significati l’essere umano non può sfuggire a se stesso, non può porsi radicalmente tra parentesi, rendersi esente dal mondo che non può evitare di co-generare, fors’anche solo perché lo percepisce, lo osserva.
E allora perché non considerare la cultura e la (sua) storia come riserve auree del senso, e perciò suscettibili di continue e inedite rivalutazioni? Perché non leggere nella cultura una forma di energia rinnovabile, un serbatoio di dispositivi d’intelligenza pronti a reincarnarsi nel futuro come nel presente? Aperti al mutamento proprio per rimanere se stessi, cioè costantemente vivificabili in un processo di continuo auto-ri-aggiornamento. Al fondo, sono le cifre dell’intelligenza racchiuse nei relitti e nelle vestigia del passato il più autentico reperto archeologico. E se è così, se quei reperti sono intrinsecamente e intimamente segni, dunque simultaneamente rivolti verso il ‘già stato’ e verso il ‘potrà essere’, perché non cogliere in essi un’energia rinnovabile mediante il presente? L’energia dell’intelligenza, della creatività.
I templi greci narrano certo di attività religiose ma anche di pellegrinaggi, di simboli estetici, di circuiti commerciali, di luoghi di approdo e ripartenza, di migrazioni e ritorni. Nell’edificazione delle città vi era una funzione riflessiva, ma anche comunicativa, rivolta al loro esterno e all’altrove. L’esistenza di una città costruiva l’identità, fungeva da specchio per l’autocomprensione di una comunità politica, ma era anche un messaggio verso gli stranieri, gli Altri, figure onnipresenti nell’immaginario e nell’esperienza quotidiana dei popoli antichi. Il loro era un mondo dominato non a caso dal dovere dell’ospitalità per chi giungeva dall’altrove, da luoghi siti di là dall’orizzonte marino. In quel micro-universo terracqueo che era il Mediterraneo, chiunque non avesse saputo trattare con lo straniero, non fosse stato in grado di inserirlo nel circuito dei suoi eventi vitali, sarebbe risultato irrimediabilmente cieco. Cieco verso il suo futuro, verso l’altro di Sé generato, condizionato dal materializzarsi inaspettato, talora tragicamente imprevedibile, dell’Altro da Sé oltre il fronte della battigia casalinga. L’esperienza insegnava che rifiutarsi di conoscerlo, lo straniero, trasformandolo in ospite si sarebbe rivelata, presto o tardi, una forma di cecità. Lo straniero, ospite negato, avrebbe potuto sfruttare il suo rimanere ignoto per accecare chi lo avesse considerato nessuno. Del resto, non è forse questa la sorte esemplare che Omero lascia abbattersi sul Ciclope Polifemo?
Non sfruttare il proprio passato per rivolgersi agli stranieri, a chi viene e potrebbe venire da fuori, turisti o migranti, studiosi o investitori, sarebbe per la Calabria di oggi una forma di fatale cecità. In fondo, è questo il messaggio più intenso cifrato nei reperti del tempio di Kaulón, il loro tesoro d’intelligenza. È un monito, in forma di pietra, a rivolgersi all’esterno, costruendo a partire dalla propria immaginazione, religiosa e architettonica, etica e politica, storica e geografica. In questo senso, rielaborare attraverso un’accurata indagine storico-archeologica l’immagine originaria del tempio farebbe delle sue proiezioni virtuali uno strumento per parlare al mondo, all’altrove, e per rispettare, vivificandolo, il senso più intimo dell’opera lasciata in eredità al presente dagli abitanti storici di Monasterace.
Non è forse il proiettarsi fuori luogo del proprio passato, dello stesso territorio, una forma autentica di energia rinnovabile? In fondo, in ogni spazio abitato e vissuto dall’uomo è all’opera l’energia, sotto forma di pensiero e di azione orientata verso obiettivi e fini dapprima solo immaginati. Il tempio di Kaulón racconta del matrimonio tra la Calabria e la civiltà greca, tra l’interno e l’esterno, tra l’autoctono e l’ospite, tra il nativo e il colonizzatore. Ripensare in questi termini il presente della Regione, proprio a partire dal suo patrimonio estetico, non è altro che un modo di pescare tra i sentieri di ieri per trovare una mappa utile a inoltrarsi nel futuro. Seguendo questa pista, dal turismo potrebbe passarsi all’economia in senso lato, con la valorizzazione delle enormi capacità produttive del territorio soprattutto sul fronte dell’agricoltura e dell’allevamento, quindi della cucina e dell’artigianato. Nella dimensione globale, il ‘locale’ ha oggi la straordinaria possibilità di diventare ubiquo, di far sentire la propria presenza, il suo esistere, sulla platea planetaria. Tutto sta nel sapere cogliere e valorizzare la sua unicità. Materia prima, questa, posseduta in abbondanza, e forse persino in eccesso, dal territorio calabrese, come del resto dall’Italia intera. Proporsi all’esterno e accogliere l’ospite potrebbero costituire i due momenti, diastole e sistole, del respiro del territorio, in questo capace di recuperare e sintetizzare passato e futuro in un presente riossigenato da iniziative e vitalità inventiva. In questa direzione, l’esperienza della Magna Grecia può costituire un vero paradigma. Dalle potenzialità minerarie a quelle agricole e forestali, l’arrivo dei Greci segnò un momento generativo delle potenzialità dei luoghi, che si convertì subito in attività commerciale e quindi in proiezione verso l’esterno. I colonizzatori, equivalenti del globale di oggi, furono naturalizzati, e il prodotto di questo processo fu restituito, rigenerato e potenziato all’altrove dal quale essi provenivano. La fabbricazione di splendide monete, icona della prosperità raggiunta dall’antica Kaulón, rappresenta il testimone più esplicito del fruttuoso sposalizio tra il qui e l’altrove, tra potenzialità disseminate dal passato e proiezioni verso il futuro. La moneta, traduttore universale (ancorché solo quantitativo), ri-tradusse, ri-traslocò, l’esperienza coloniale in direzione della madrepatria, riconfigurando e amplificando lo spazio e il senso di ciò che la Grecia rappresentava per tutti i Greci.
Non c’è rosa senza spine – non si può ignorare. Tecnologia, turismo, commercio e archeologia possono dar vita all’orrido spettro dello scempio, del saccheggio, della deturpazione del territorio. Non c’è dubbio si tratti di un rischio concreto, declamato sonoramente e spudoratamente dal passato prossimo e fattosi spesso oppressivo presente. Per restare nei luoghi, basterà seguire il serpentone della SS 106, volgendo lo sguardo al paesaggio, per rendersene irrimediabilmente conto. Tuttavia non esistono ricette uniche preconfezionate contro questa peste odierna. Creare musei all’aria aperta non farà che scontentare la gente e rinfocolare la mancanza di rispetto per il passato, la natura, per tutto ciò che risuona di conservazione. Credo invece sia la riattualizzazione delle energie custodite in quel passato, il loro potenziale di possibilità l’unica risorsa disponibile per far comprendere a tutti l’utilità della cultura, la sua capacità di non essere mangiata o consumata, ma proprio per questo di farsi inesauribile e onnilaterale fonte di nutrimento. Non esistono metodi passe-partout per evitare l’opera dei vandali, se non quello di unire responsabilità e apprezzamento per la bellezza con la costruzione di un futuro capace di integrare i bisogni umani, gli stessi della gente di Calabria, oggi come ieri costretta a una paradossale e (tragicamente) grottesca emigrazione da luoghi potenzialmente (e virtualmente) ricchissimi. Un’emigrazione consumata tra le sofferenze dello sradicamento e culminante spesso nella defatigante conquista di un posto di lavoro in luoghi lontani, buono soltanto a sopravvivere, sbarcando a mala pena il lunario. Esperienza non di rado coronata dalla sconfitta del rientro ai luoghi d’origine, resi ancor più desolati agli occhi di chi torna dalla percezione di un invincibile destino di deprivazione.


Futuro Passato

Bisogna comunque mettere i piedi per terra per poter muovere i primi passi verso il domani possibile. E allora: quanto costerebbe realizzare l’ologramma, cioè la proiezione virtuale del tempio? Non moltissimo, probabilmente non oltre i 200.000 euro, almeno per la parte tecnica. Per quella storico-ricostruttiva, invece, bisognerebbe valutare l’impegno con la Sovrintendenza. Si tratta comunque di costi abbastanza sostenibili. A partire dal tempio potrebbe proseguirsi con il recupero dell’antico plesso abitativo, quindi con l’elaborazione virtuale delle molteplici attività svolte all’interno di esso. Per capirsi, una sorta di Pompei vivente in 3D, fatta solo di proiezioni. Le possibilità di sviluppo sono enormi.
Si può provare a immaginare dunque dall’alto di un futuro possibile il presente stesso come qualcosa di già avvenuto. Queste divagazioni potrebbero essere pensate come l’inizio di quello che è, in un oggi futuro, un inter-parco archeologico dello Jonio. Da Crotone a Locri, allora, tutti i siti saranno già divenuti (esprimendosi al futuro anteriore) scavi virtuali e viventi, in grado di attirare l’interesse del mondo intero, di mettere in scena se stessi attraverso le reti web di fronte agli occhi di milioni di persone. Da qui tutto il resto. L’importante, per evitare scivoloni speculativi e antiestetici, sarebbe mantenere in vista la stella polare costituita dal tempio di Kaulón e dall’intero patrimonio archeologico calabrese, la cifra d’intelligenza, il nocciolo di energia rinnovabile custodito tra le sue fondamenta, tra i suoi reperti. Si tratta di un dispositivo, di una strategia mentale, prima ancora che pratica, suscettibile di essere rimessa in moto surclassando le barriere del tempo.
Ancora dall’alto di un futuro passato, alla meglio tra dieci anni, potrebbe guardarsi indietro al periodo (tristemente attuale) in cui l’interesse della Sovrintendenza e quello dei privati risultavano inconciliabili, irrimediabilmente in conflitto, segnati spesso da vicende di espropri sbocciati nel nulla di progetti rimasti monchi di finanziamenti. Aspetti sconnessi e dialetticamente contrapposti di una sintesi possibile e necessaria. Investire con le tecnologie più avanzate nel patrimonio storico della Regione ne avrebbe rappresentato invece la realizzazione, per certi versi la condensazione, dove al miglior interesse degli archeologi sarebbe corrisposto simmetricamente il miglior interesse dei commercianti, degli investitori, della gente comune. Un miracolo possibile, reso effettivo dall’acquisizione della capacità di vedere, attraverso il tempio di Kaulon, il proprio presente in 3D. In sintesi, un’antica e inedita vista politica e insieme una nuova, rinnovabile e sostenibile politica della vista.

Post-scriptum
Le ‘divagazioni’ qui proposte sono rimaste solo sulla carta. Il testo al quale fa da chiosa questo po-scritto, fu pubblicato più di sette anni fa (Quotidiano della Calabria, 14 agosto 2011). Nulla ha avuto seguito di ciò che in esso era prefigurato. Il tempio giace come sempre, nella sua solitudine, lungo la costa. L’ultima volta che ho visitato il sito archeologico, non v’era più alcuna recinzione a perimetrare le fondamenta dell’edificio che fu. Unico superstite, solingo e paradossale, giaceva un cancello, incorniciato da due pilastri in mattoni. Una porta nello spazio vuoto. Ancora una volta un segno, una sorta di via d’accesso a uno spazio-tempo antico e a un futuro possibile ma solo immaginato. È su questo orizzonte che ho scorto quel cancello chiuso.



E chi dovesse ridere del suo essere serrato, perché lasciato a galleggiare in uno spazio vuoto, senza mura, così da renderlo totalmente aggirabile e quindi inutile, ebbene quel qualcuno riderà perché non ha ancora compreso la Calabria, la sua tragedia, l’indisponibilità della sua gente a credere nel domani. Le mura complementari al cancello e al suo reale significato ci sono. Sono mura invisibili, composte di pensieri pietrificati in un presente cieco, senza tempo, senza orizzonte. Mura spettrali eppure granitiche, impossibili da abbattere con la ragione e i suoi mezzi espliciti, dall’impegno civile alle tecnologie più avanzate. Verrebbe da dire – riecheggiando Kafka – che quel cancello era aperto, un tempo, solo per far transitare l’azzoppata immaginazione dei calabresi. Qualcuno, a un certo punto, dopo aver provato a rivelare questo segreto, avrà detto: “adesso vado e lo chiudo”.
Non so dire se in futuro, qualcuno, troverà la chiave per riaprirlo; oppure se qualcosa, qualcosa di tellurico, potrà sfondare, come un ariete, le fantomatiche mura che cingono, con l’assurdità e l’inaudita potenza di una frontiera immateriale, quel tempio e tutto il destino geo-storico della Calabria. Un po’ di speranza può emanare solo dal dovere di maneggiare il presente e le menti che lo abitano – le nostre – con rigorosa modestia, non cedendo alla tentazione, sempre in agguato, di scambiare l’oggi per il conio dell’eternità. Con la decisa intenzione di esorcizzare questa pericolosa inclinazione vorrei chiudere affermando, contro ogni evidenza, che qualcuno, venendo dal mare e immerso in un passato presente, rivedrà il tempio di Kaulón. Perché accada basta un po’ di fede, la stessa che i calabresi sembrano avere irrimediabilmente abbandonato, se non addirittura divelto dalle proprie menti.
Non c’è accusa in questo. Io stesso, che calabrese non sono se non per ascendenza e affinità, dopo aver provato a sostenerli e aiutarli, per quanto in modo estremamente esiguo e non risolutivo, ho gettato la spugna. Non credo in loro come comunità, rendendomi così colpevole di sfiducia esattamente come essi lo sono. Non vedo rimedio alla sofferenza inaccettabile dei singoli, al dolore di molti segnati dall’inesistente colpa d’essere stati destinati dalla lotteria della sorte a nascere e a vivere in Calabria. In alcuni frangenti della storia, alcuni ostacoli si rivelano invincibili e spingono se non addirittura costringono a concludere sconsolatamente, anche a costo di scoprirsi cinici, che Eraclito in fondo non aveva torto. “A ciascuno è destino il suo carattere”.


*Mario Ricca è Professore Ordinario di Diritto interculturale nel Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Parma. E' autore di Riace. Il futuro è presente, Edizioni Dedalo, Bari 2010.

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