CALABRIA IMPOSSIBILE? KAULÓN/MONASTERACE, IL TEMP(I)O IN 3D
di Mario Ricca
Passato
Futuro
Sul far della sera, un’imbarcazione naviga sullo Jonio. Sulla costa,
più a nord di Locri Epizefiri, di fronte ai naviganti si staglia un promontorio
smisurato che s’allunga nel mare, un indice titanico proteso tra i flutti. Approssimandosi
alla terraferma, s’intravede sempre più nitida la sagoma di una città. Un
tempio in lontananza occhieggia nella notte stellata, arretrato rispetto alla
costa. La forma è imponente. Si contano sei colonne frontali. Danno verso il
mare. Incorniciano da lontano il porto, sicuro e fortificato: punteggiato da
luci d’avvistamento, nella notte sembra disegnare un merletto. È il confine
marino dell’abitato, è Kaulón, la ricca colonia della Magna Graecia.
I naviganti sono abitatori di un tempo
sconosciuto, ancora indefinibile. Forse Greci, forse ignoti stranieri, che
provengono da un tempo remoto, altro. La loro imbarcazione s’avvicina
all’ingresso del porto, quando d’improvviso la banchina svanisce. Anche il
promontorio, punteggiato di fuochi notturni, si dilegua. Al suo posto, molto
distanziato, un faro, arroccato su una collinetta dove poco prima sembrava in
lontananza d’intravedere un tempietto. è
un faro moderno, elettrico. Frattanto squilla un cellulare a rompere l’incanto.
La navigazione procede ancora per alcune centinaia di metri. La costa pare
essersi ritratta, raggrinzita, come risucchiata dal macinare dei secoli.
Qualcosa, però, rimane. Svanita la città, nel
buio, si delinea luminescente la sagoma del tempio greco. Giunta vicino a riva,
l’imbarcazione s’arresta. Qualcuno getta l’ancora. Mischiato al placido
sciabordio dell’acqua sui fianchi del battello, echeggia il canto ronzante di
centinaia di cicale.
Lo scenario è mozzafiato. I naviganti sono venuti
da lontano per ammirarlo. Alcuni hanno viaggiato per via aerea, altri via
terra. Tutti, comunque, sono giunti insieme a un luogo affacciato sul mare dove
il passato si è fatto… si farà, potrebbe farsi futuro.
Di che materiale è questo tempio che si erge sulla
costa buia come un fantasma luminescente? Forse è costruito con lo stesso
impasto dei sogni. Forse è soltanto un sogno, un’allucinazione, parto di un’immaginazione
fuori rotta. Sì e no, è la risposta.
Si tratta di un’immagine che migra dal passato.
Un’immagine in 3D, quasi reale. Lo è,
però, solo come immagine. A toccarlo, il tempio si rivela impalpabile. Questo
perché è solo una proiezione, un ologramma.
A rendere possibile il suo irrompere sullo sfondo del cielo notturno sono
soltanto specchi e proiettori. Un artificio. Si tratta di una fantasmagoria
tecnologica. Attraverso essa, però, è il passato che parla: una voce che
echeggia dall’antichità, visionaria proiezione architettonica di chi ha vissuto
quei luoghi nel passato e ha lasciato tracce di pietra, orme dei suoi sogni
trasformati in realtà adesso svanite.
Il fondoscena di questo passato trasformato in
futuro è Monasterace, una cittadina sulla costa Jonica della Calabria. Il luogo
preciso è il terrazzamento, quasi un contrafforte di terra, che si affaccia
sulla spiaggia accanto a quella che fu ‘Punta Stilo’, ormai ridotta a un’esigua
prominenza della costa sabbiosa. Su di essa, gli scavi dell’antica Kaulón,
appunto, dominati dal perimetro del tempio dorico secondo alcuni dedicato a
Zeus. La sua costruzione originaria risalirebbe al VI-V secolo. Edificato in
stile dorico, dotato di 6 colonne, alle estremità frontale e posteriore, e di
dodici laterali, fu riportato alla luce da Paolo Orsi, all’incirca un secolo
fa.
Agli occhi di un non archeologo, il tempio giace
nella sua muta maestosità come un gigante amputato. Rimangono le fondamenta,
gli scalini, poco più d’altro. La forma evoca, però, l’imponenza e la bellezza
del tempo che fu. A parlare è un’orma non cancellata dai secoli, né
dall’incuria o dalle necessità degli uomini, che non risparmiarono di
saccheggiare i suoi marmi, le sue pietre, per edificare le proprie dimore.
Sorte comune a molti siti greci lungo le coste, le colonne del tempio, forse
già abbattute da un terremoto o dai saccheggi degli uomini, furono utilizzate
durante il lungo arco del Medioevo per edificare siti collinari, proiezione
spaziale e demografica di quelli marini. L’esigenza di difendersi dai saraceni
spingeva le popolazioni eredi di greci e romani a rifugiarsi tra le alture, per
scampare alla morte e alle violenze. I resti degli antichi splendori, pietre in
testa, divenivano allora cibo per ingegneri e architetti impegnati in quelle
operazioni di trasloco urbano. Anche il centro storico di Monasterace, le
vestigia del suo castello arroccato sull’altura sovrastante la valle che accoglie
nel suo grembo il tempio e l’antica Kaulón, non fanno eccezione. Tra i suoi
vicoli, tortuose arterie di quel fortilizio attraversato e disgregato dalla
storia, pulsa ancora una vita singhiozzante, rintanata in minuscoli alloggi
d’impronta medievale e punteggiata dalla sagoma di parabole televisive e dal rombo
di motociclette scoppiettanti, reperti anacronistici di un progresso, d’un
futuro, che paiono autoaccusarsi d’essere fuori luogo. Al centro di quel reticolo
di tane medievali campeggia un palazzo, oggi vivisezionato in abitazioni
minime, e accompagnato all’esterno da un inganno in pietra, un finto pozzo.
Accanto ad esso, in una didascalia, è svelata la cifra del suo mistero. Non
contiene acqua, è piuttosto l’imboccatura di un antico cunicolo scavato
sottoterra, nella roccia. La sua originaria e reale funzione era quella di
assicurare una via per riparare tra le mura del castello alla gente che viveva
a valle, ignara abitatrice del sito dell’antica Kaulón. Era quest’esigenza di
fughe repentine a scandire il presente dell’epoca segnata dall’espansione
saracena. Oggi, da quella sorta di orecchio di roccia che è l’imboccatura del
pozzo, chi vuole può ancora ascoltare il fragore lontano delle onde nelle notti
di tempesta. Scampoli di un racconto senza fine, che narra dell’inesausta lotta
dello Jonio contro le sabbie ormai smunte di ‘Punta Stilo’.
Oggi, di quel tempo di paure e precipitose
ritirate non esiste più nulla. Eppure il tempio continua a vivere un presente
di solitudine e semi-abbandono. A dispetto della desolazione, continua però a
resistere, a imporre le sue forme all’occhio del visitatore, la sua
conservazione alle contrastanti e inibite esigenze abitative dei cittadini di
Monasterace. Con il suo contorno di scavi esso è avvolto in una doppia
ambiguità. Da una parte, l’inappropriata tutela archeologica, legalmente severa
e concretamente incurante al tempo stesso; dall’altra, il senso di
frustrazione, di vero e proprio scippo
avvertito dalla cittadinanza ai danni dei propri spazi vitali, del proprio
agire quotidiano. Insomma, il tempio ridotto alle sue fondamenta è come la
metafora della voce di un passato archeologico tornata in vita con le fattezze
di un aborto. Perché questo – senza polemica – è il presente degli scavi
dell’antica Kaulón e dell’interessante Antiquarium
a essi attiguo. Patrimonio immenso eppure reso silente dalla cronica mancanza
di fondi, dal diffuso disinteresse per i beni culturali e dall’incapacità di
schiodarlo da un ‘incartamento museale’, che fa morire l’oggi e rende ancor più
defunto il passato.
A cambiare la scena potrebbe intervenire
l’archeologia virtuale. Attraverso studi e ricostruzioni accurate potrebbe
diventare possibile ridare vita ai luoghi del passato, utilizzando quanto di
più futuribile ci sia a disposizione per far rivivere lo spazio che fu,
immaginato e popolato da chi lo abitò in un tempo ormai dileguato.
Presente.
La scena descritta aprendo questa breve
divagazione su Monasterace/Kaulón e le sue chances di futuro possono
appartenere a ogni epoca, e tutte riassumerle. A fare il miracolo, a cavallo
tra ieri e domani, potrebbe essere la tecnologia, potenziale volano
dell’immaginazione e della sua capacità di inventare nuove nature.
Presente
Il registro dell’attualità non può avere i toni e
i colori evanescenti dell’immaginario, del sogno. Saprebbe d’inganno. Chi sono
dunque i naviganti immaginati sul vascello in viaggio attraverso il tempo?
Senza remore, e con franchezza, c’è da chiamarli turisti. Visitatori di un sito
di archeologia virtuale e, insieme, reale. Simmetricamente, notte e giorno
potrebbero avvicendarsi tra gli scavi dell’antica Kaulón, a Monasterace,
testimoniando i segni di quel che c’era e, a ritmo alternato, rigenerando in una
sorta di presente ricordato il suo aspetto reale, originario. Non ci vuol molto
a realizzare che si tratterebbe di un rilancio sia tecnologico sia archeologico
delle potenzialità offerte dal territorio calabrese. Grazie alla collocazione
strategica del tempio di Kaulón, grazie al suo incredibile affaccio sul mare,
l’esperimento «Monasterace» potrebbe rappresentare l’avvio spettacolare di un
progetto complessivo di rilancio per l’intera area jonica e per i suoi parchi
archeologici. Agli scettici, sempre intenti a calcolare i costi, soprattutto
quando si parla di cose che non si mangiano, come la ‘cultura’, si potrebbe far
balenare l’immagine di uno sciamare d’imbarcazioni che sul far della sera
conducano i turisti a cenare sul mare, di fronte allo spettacolo di un tempio
del VI-V sec. Un tempio la cui immagine, con l’adagiarsi del primo buio,
miracolosamente si materializzasse in 3D lungo la battigia.
Non credo esistano molti luoghi al mondo a poter
offrire uno scenario di questo genere, così suggestivo e altrettanto emozionante.
Senza contare che il tempio potrebbe costituire solo l’inizio. Se l’esperimento
riuscisse – economicamente, intendo – potrebbe trarsene foraggio non solo per le attività commerciali della zona ma anche
per dare rinnovato impulso agli scavi. Tra la terra e il mare, l’antica Kaulón
attende d’essere disseppellita, per quel tanto che ancora si può senza
distruggere le abitazioni dei residenti di Monasterace. E quel tanto è comunque
moltissimo.
Diranno, alcuni puristi, che la proposta suona
volgare, un asservimento della bellezza silenziosa dei resti archeologici,
della sobria maestà delle vestigia di un nobile passato, alle bieche ragioni
del commercio, dello spettacolo. Ma si tratta di un’obiezione troppo facile,
che sclerotizza l’esistente e ciò che in esso ha incastonato la storia. In
risposta, c’è da osservare che la cultura non consiste nelle cose, dunque nei resti o negli oggetti,
così come la natura non si riduce ai
paesaggi o agli animali, irrealisticamente isolati dal loro contatto con la
presenza umana. L’essere umano stesso è natura, l’incessante ronzio della sua
attività neuronale, il continuo flusso del suo pensiero sostanziano ciò che si
definisce cultura. Ogni paesaggio con le sue componenti, così come ogni
artefatto nella sua materialità, sono sintesi di un agire guidato dalla mente,
cioè dal pensiero e dall’immaginazione proiettata verso la prassi. In un
pianeta dominato dalla presenza umana, piaccia o non piaccia, anche gli spazi
incontaminati sono divenuti il frutto di un’opzione antropica e politica; anche
le catastrofi naturali, inclusi tsunami e terremoti, eruzioni e valanghe,
acquisiscono significato attraverso lo spettro dei valori etici e cognitivi
elaborati dall’animale uomo. Non è
possibile astrarre la natura dalla presenza e dai contributi antropici; allo
stesso modo non può guardarsi ai reperti archeologici imbalsamandoli
esclusivamente nella loro consistenza di cose.
I relitti del passato sono
inevitabilmente esposti a essere riletti;
e possono essere riconosciuti come relitti
generati dal passato solo a condizione che soggiacciano all’essere riletti. Il significato autentico di
ogni segno del passato è appunto l’essere segno, quindi un oggetto
d’interpretazione, di conoscenza e, per questo tramite, di costante rivivificazione.
Il segno è di per sé un inossidabile viandante del tempo. Il suo significato si
dispiega attraverso le diverse epoche colmandosi costantemente di nuove
sfaccettature, di inedite connotazioni, talora ancor più esplicite e ricche, e
in questo più vere, di quelle
possedute all’origine. Nel regno del senso, che è l’habitat degli artefatti
umani e quindi la casa dell’uomo, il passato è realmente una conseguenza del futuro. Considerazione forse paradossale,
eppure inaggirabile. E il perché è semplice. Il grado zero dell’autenticità non
esiste. Non può darsi alcuno sguardo da nessun luogo, né della storia umana, né
della natura e del suo divenire. Nel cosmo dei significati l’essere umano non
può sfuggire a se stesso, non può porsi radicalmente tra parentesi, rendersi
esente dal mondo che non può evitare di co-generare, fors’anche solo perché lo
percepisce, lo osserva.
E allora perché non considerare la cultura e la
(sua) storia come riserve auree del senso, e perciò suscettibili di continue e
inedite rivalutazioni? Perché non leggere nella cultura una forma di energia rinnovabile, un serbatoio di
dispositivi d’intelligenza pronti a reincarnarsi nel futuro come nel presente?
Aperti al mutamento proprio per rimanere se stessi, cioè costantemente
vivificabili in un processo di continuo auto-ri-aggiornamento. Al fondo, sono le cifre dell’intelligenza racchiuse
nei relitti e nelle vestigia del passato il più autentico reperto archeologico.
E se è così, se quei reperti sono intrinsecamente e intimamente segni, dunque
simultaneamente rivolti verso il ‘già stato’ e verso il ‘potrà essere’, perché
non cogliere in essi un’energia rinnovabile mediante
il presente? L’energia dell’intelligenza, della creatività.
I templi greci narrano certo di attività religiose
ma anche di pellegrinaggi, di simboli estetici, di circuiti commerciali, di
luoghi di approdo e ripartenza, di migrazioni e ritorni. Nell’edificazione
delle città vi era una funzione riflessiva, ma anche comunicativa, rivolta al
loro esterno e all’altrove. L’esistenza di una città costruiva l’identità, fungeva
da specchio per l’autocomprensione di una comunità politica, ma era anche un
messaggio verso gli stranieri, gli Altri, figure onnipresenti nell’immaginario
e nell’esperienza quotidiana dei popoli antichi. Il loro era un mondo dominato
non a caso dal dovere dell’ospitalità per chi giungeva dall’altrove, da luoghi siti
di là dall’orizzonte marino. In quel micro-universo terracqueo che era il
Mediterraneo, chiunque non avesse saputo trattare con lo straniero, non fosse
stato in grado di inserirlo nel circuito dei suoi eventi vitali, sarebbe
risultato irrimediabilmente cieco. Cieco verso il suo futuro, verso l’altro di
Sé generato, condizionato dal materializzarsi inaspettato, talora tragicamente
imprevedibile, dell’Altro da Sé oltre il fronte della battigia casalinga. L’esperienza
insegnava che rifiutarsi di conoscerlo, lo straniero, trasformandolo in ospite
si sarebbe rivelata, presto o tardi, una forma di cecità. Lo straniero, ospite
negato, avrebbe potuto sfruttare il suo rimanere ignoto per accecare chi lo
avesse considerato nessuno. Del
resto, non è forse questa la sorte esemplare che Omero lascia abbattersi sul
Ciclope Polifemo?
Non sfruttare il proprio passato per rivolgersi
agli stranieri, a chi viene e potrebbe venire da fuori, turisti o migranti,
studiosi o investitori, sarebbe per la Calabria di oggi una forma di fatale
cecità. In fondo, è questo il messaggio più intenso cifrato nei reperti del
tempio di Kaulón, il loro tesoro d’intelligenza. È un monito, in forma di
pietra, a rivolgersi all’esterno, costruendo a partire dalla propria
immaginazione, religiosa e architettonica, etica e politica, storica e
geografica. In questo senso, rielaborare attraverso un’accurata indagine
storico-archeologica l’immagine originaria del tempio farebbe delle sue
proiezioni virtuali uno strumento per parlare al mondo, all’altrove, e per
rispettare, vivificandolo, il senso più intimo dell’opera lasciata in eredità
al presente dagli abitanti storici di Monasterace.
Non è forse il proiettarsi fuori luogo del proprio passato, dello stesso territorio, una forma
autentica di energia rinnovabile? In fondo, in ogni spazio abitato e vissuto
dall’uomo è all’opera l’energia, sotto forma di pensiero e di azione orientata
verso obiettivi e fini dapprima solo immaginati. Il tempio di Kaulón racconta
del matrimonio tra la Calabria e la civiltà greca, tra l’interno e l’esterno,
tra l’autoctono e l’ospite, tra il nativo e il colonizzatore. Ripensare in
questi termini il presente della Regione, proprio a partire dal suo patrimonio
estetico, non è altro che un modo di pescare tra i sentieri di ieri per trovare
una mappa utile a inoltrarsi nel futuro. Seguendo questa pista, dal turismo
potrebbe passarsi all’economia in senso lato, con la valorizzazione delle
enormi capacità produttive del territorio soprattutto sul fronte
dell’agricoltura e dell’allevamento, quindi della cucina e dell’artigianato.
Nella dimensione globale, il ‘locale’ ha oggi la straordinaria possibilità di
diventare ubiquo, di far sentire la propria presenza, il suo esistere, sulla
platea planetaria. Tutto sta nel sapere cogliere e valorizzare la sua unicità. Materia prima, questa,
posseduta in abbondanza, e forse persino in eccesso, dal territorio calabrese,
come del resto dall’Italia intera. Proporsi all’esterno e accogliere l’ospite
potrebbero costituire i due momenti, diastole e sistole, del respiro del
territorio, in questo capace di recuperare e sintetizzare passato e futuro in
un presente riossigenato da iniziative e vitalità inventiva. In questa direzione,
l’esperienza della Magna Grecia può costituire un vero paradigma. Dalle
potenzialità minerarie a quelle agricole e forestali, l’arrivo dei Greci segnò
un momento generativo delle potenzialità dei luoghi, che si convertì subito in
attività commerciale e quindi in proiezione verso l’esterno. I colonizzatori,
equivalenti del globale di oggi, furono naturalizzati, e il prodotto di questo
processo fu restituito, rigenerato e potenziato all’altrove dal quale essi
provenivano. La fabbricazione di splendide monete, icona della prosperità
raggiunta dall’antica Kaulón, rappresenta il testimone più esplicito del
fruttuoso sposalizio tra il qui e l’altrove, tra potenzialità disseminate dal
passato e proiezioni verso il futuro. La moneta, traduttore universale
(ancorché solo quantitativo), ri-tradusse, ri-traslocò, l’esperienza coloniale
in direzione della madrepatria, riconfigurando e amplificando lo spazio e il
senso di ciò che la Grecia rappresentava per tutti i Greci.
Non c’è rosa senza spine – non si può ignorare. Tecnologia,
turismo, commercio e archeologia possono dar vita all’orrido spettro dello
scempio, del saccheggio, della deturpazione del territorio. Non c’è dubbio si
tratti di un rischio concreto, declamato sonoramente e spudoratamente dal
passato prossimo e fattosi spesso oppressivo presente. Per restare nei luoghi,
basterà seguire il serpentone della SS 106, volgendo lo sguardo al paesaggio,
per rendersene irrimediabilmente conto. Tuttavia non esistono ricette uniche
preconfezionate contro questa peste odierna. Creare musei all’aria aperta non
farà che scontentare la gente e rinfocolare la mancanza di rispetto per il
passato, la natura, per tutto ciò che risuona di conservazione. Credo invece sia la riattualizzazione delle energie
custodite in quel passato, il loro potenziale di possibilità l’unica risorsa
disponibile per far comprendere a tutti l’utilità
della cultura, la sua capacità di non
essere mangiata o consumata, ma proprio per questo di farsi inesauribile e
onnilaterale fonte di nutrimento. Non esistono metodi passe-partout per evitare l’opera dei vandali, se non quello di
unire responsabilità e apprezzamento per la bellezza con la costruzione di un
futuro capace di integrare i bisogni umani, gli stessi della gente di Calabria,
oggi come ieri costretta a una paradossale e (tragicamente) grottesca emigrazione
da luoghi potenzialmente (e virtualmente) ricchissimi. Un’emigrazione consumata
tra le sofferenze dello sradicamento e culminante spesso nella defatigante
conquista di un posto di lavoro in luoghi lontani, buono soltanto a
sopravvivere, sbarcando a mala pena il lunario. Esperienza non di rado coronata dalla sconfitta del rientro ai
luoghi d’origine, resi ancor più desolati agli occhi di chi torna dalla
percezione di un invincibile destino di deprivazione.
Futuro
Passato
Bisogna comunque mettere i piedi per terra per poter
muovere i primi passi verso il domani possibile. E allora: quanto costerebbe
realizzare l’ologramma, cioè la proiezione virtuale del tempio? Non moltissimo,
probabilmente non oltre i 200.000 euro, almeno per la parte tecnica. Per quella
storico-ricostruttiva, invece, bisognerebbe valutare l’impegno con la
Sovrintendenza. Si tratta comunque di costi abbastanza sostenibili. A partire
dal tempio potrebbe proseguirsi con il recupero dell’antico plesso abitativo,
quindi con l’elaborazione virtuale delle molteplici attività svolte all’interno
di esso. Per capirsi, una sorta di Pompei vivente in 3D, fatta solo di
proiezioni. Le possibilità di sviluppo sono enormi.
Si può provare a immaginare dunque dall’alto di un
futuro possibile il presente stesso come qualcosa di già avvenuto. Queste
divagazioni potrebbero essere pensate come l’inizio di quello che è, in un oggi futuro, un inter-parco
archeologico dello Jonio. Da Crotone a Locri, allora, tutti i siti saranno già divenuti (esprimendosi al
futuro anteriore) scavi virtuali e viventi, in grado di attirare l’interesse
del mondo intero, di mettere in scena se stessi attraverso le reti web di
fronte agli occhi di milioni di persone. Da qui tutto il resto. L’importante,
per evitare scivoloni speculativi e antiestetici, sarebbe mantenere in vista la
stella polare costituita dal tempio di Kaulón e dall’intero patrimonio
archeologico calabrese, la cifra d’intelligenza, il nocciolo di energia
rinnovabile custodito tra le sue fondamenta, tra i suoi reperti. Si tratta di
un dispositivo, di una strategia mentale, prima ancora che pratica,
suscettibile di essere rimessa in moto surclassando le barriere del tempo.
Ancora dall’alto di un futuro passato, alla meglio
tra dieci anni, potrebbe guardarsi indietro al periodo (tristemente attuale) in
cui l’interesse della Sovrintendenza e quello dei privati risultavano
inconciliabili, irrimediabilmente in conflitto, segnati spesso da vicende di
espropri sbocciati nel nulla di progetti rimasti monchi di finanziamenti.
Aspetti sconnessi e dialetticamente contrapposti di una sintesi possibile e
necessaria. Investire con le tecnologie più avanzate nel patrimonio storico
della Regione ne avrebbe rappresentato invece la realizzazione, per certi versi
la condensazione, dove al miglior interesse degli archeologi sarebbe corrisposto
simmetricamente il miglior interesse dei commercianti, degli investitori, della
gente comune. Un miracolo possibile, reso effettivo dall’acquisizione della
capacità di vedere, attraverso il tempio di Kaulon, il proprio presente in 3D. In sintesi, un’antica e inedita vista
politica e insieme una nuova, rinnovabile e sostenibile politica della vista.
Post-scriptum
Le ‘divagazioni’ qui proposte sono rimaste solo
sulla carta. Il testo al quale fa da chiosa questo po-scritto, fu pubblicato
più di sette anni fa (Quotidiano della Calabria, 14 agosto 2011). Nulla ha
avuto seguito di ciò che in esso era prefigurato. Il tempio giace come sempre, nella
sua solitudine, lungo la costa. L’ultima volta che ho visitato il sito
archeologico, non v’era più alcuna recinzione a perimetrare le fondamenta
dell’edificio che fu. Unico superstite, solingo e paradossale, giaceva un
cancello, incorniciato da due pilastri in mattoni. Una porta nello spazio
vuoto. Ancora una volta un segno, una sorta di via d’accesso a uno spazio-tempo
antico e a un futuro possibile ma solo immaginato. È su questo orizzonte che ho
scorto quel cancello chiuso.
E chi dovesse ridere del suo essere serrato,
perché lasciato a galleggiare in uno spazio vuoto, senza mura, così da renderlo
totalmente aggirabile e quindi inutile, ebbene quel qualcuno riderà perché non
ha ancora compreso la Calabria, la sua tragedia, l’indisponibilità della sua
gente a credere nel domani. Le mura complementari al cancello e al suo reale
significato ci sono. Sono mura invisibili, composte di pensieri pietrificati in
un presente cieco, senza tempo, senza orizzonte. Mura spettrali eppure
granitiche, impossibili da abbattere con la ragione e i suoi mezzi espliciti,
dall’impegno civile alle tecnologie più avanzate. Verrebbe da dire –
riecheggiando Kafka – che quel cancello era aperto, un tempo, solo per far
transitare l’azzoppata immaginazione dei calabresi. Qualcuno, a un certo punto,
dopo aver provato a rivelare questo segreto, avrà detto: “adesso vado e lo
chiudo”.
Non so dire se in futuro, qualcuno, troverà la
chiave per riaprirlo; oppure se qualcosa, qualcosa di tellurico, potrà
sfondare, come un ariete, le fantomatiche mura che cingono, con l’assurdità e
l’inaudita potenza di una frontiera immateriale, quel tempio e tutto il destino
geo-storico della Calabria. Un po’ di speranza può emanare solo dal dovere di
maneggiare il presente e le menti che lo abitano – le nostre – con rigorosa modestia,
non cedendo alla tentazione, sempre in agguato, di scambiare l’oggi per il
conio dell’eternità. Con la decisa intenzione di esorcizzare questa pericolosa
inclinazione vorrei chiudere affermando, contro ogni evidenza, che qualcuno,
venendo dal mare e immerso in un passato presente, rivedrà il tempio di Kaulón.
Perché accada basta un po’ di fede, la stessa che i calabresi sembrano avere
irrimediabilmente abbandonato, se non addirittura divelto dalle proprie menti.
Non c’è accusa in questo. Io stesso, che calabrese
non sono se non per ascendenza e affinità, dopo aver provato a sostenerli e
aiutarli, per quanto in modo estremamente esiguo e non risolutivo, ho gettato
la spugna. Non credo in loro come comunità, rendendomi così colpevole di
sfiducia esattamente come essi lo sono. Non vedo rimedio alla sofferenza
inaccettabile dei singoli, al dolore di molti segnati dall’inesistente colpa
d’essere stati destinati dalla lotteria della sorte a nascere e a vivere in
Calabria. In alcuni frangenti della storia, alcuni ostacoli si rivelano
invincibili e spingono se non addirittura costringono a concludere
sconsolatamente, anche a costo di scoprirsi cinici, che Eraclito in fondo non
aveva torto. “A ciascuno è destino il suo carattere”.
*Mario Ricca è Professore Ordinario di Diritto interculturale nel Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Parma. E' autore di Riace. Il futuro è presente, Edizioni Dedalo, Bari 2010.
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