A Rutta e ru Palummaru (nel complesso delle Grotte dette di San Giovanni Calybita a Caloveto)




Esattamente quattro anni fa abbiamo pubblicato un articolo di Caterina Palmieri dedicato alla Grotta di San Giovanni Calybita, un patrimonio enorme per la storia e la cultura, non solo del paese di Caloveto ma di tutto il territorio del Nord-est calabrese, in quanto si tratta di un luogo che tra l'altro è certamente collegato alla storia di altri luoghi simili disseminati nel territorio. L'articolo, che si può leggere qui, aveva il merito di alzare un grido di dolore per la condizione della Grotta. Un grido rimasto purtroppo inascoltato, almeno fino ad oggi. Certo è che la condizione della Grotta è ormai disastrosa, tanto più se si pensa che alcuni dei suoi ambienti sono diventati irraggiungibili.
Di uno di questi ambienti ci parla Umberto Mazza nello straordinario reportage che pubblichiamo qui di seguito, realizzato grazie ad un vero e proprio "azzardo": è diventato infatti rischiosissimo raggiungere la Grotta del Palummaru, a meno che non si sia dotati di particolari capacità da "scalatore". Ringraziamo Umberto per aver realizzato un "viaggio" sognato da molti calovetesi, facendoci "vedere" un luogo di cui i calovetesi più giovani non hanno mai sentito parlare. 
Le ipotesi che Umberto avanza nel suo resoconto meriterebbero forse un'adeguata attenzione da parte degli studiosi, magari sollecitati dalle autorità competenti.
(tg)



di Umberto Mazza


Quando ero un ragazzino ebbi la fortuna di vedere la grotta del Palummaru nella Timpa di San Giovanni Calybita. I ricordi con il passare degli anni si erano sbiaditi, inoltre ero convinto che gli occhi di quel ragazzino non avessero colto appieno i particolari di quella Grotta. Il ritorno al Palummaru era diventato oramai un chiodo fisso, ma c'è voluto lo sprone del giovane Niccolò Braccini per appagare questo mio desiderio: il vantaggio di essere di mezza età è sicuramente una maggiore consapevolezza, lo svantaggio è la perdita della temerarietà tipica dell'età giovanile.
Arrivare a ru Palummaru non è stato semplice; il terreno è coperto di rovi e la stradina cavata nell'arenaria dai monaci non esiste più, la provvidenziale presenza di un “terebinto” (pistacchio selvatico), i cui rami hanno funto da liana, ci ha permesso di scendere nella Grotta. La Grotta presenta una serie di nicchie disposte in doppia fila: due serie di tre sulle pareti laterali; una fila di sei sulla parte superiore della parete centrale e nove sulla serie inferiore. In totale 27 cellette. Per chi conosce la simbologia del numero tre e dei suoi multipli qui può già avere materiale per un seminario... Ciò che colpisce è la presenza, nelle nicchie protette dalla luce diretta del sole, di un colore rosso sbiadito a mò di affresco: sarebbe necessario eseguire un’analisi del colore per individuarne la natura chimica; di primo acchito mi è sembrato un rosso sinopia.
Un altro aspetto interessante della Grotta è l'esposizione ad oriente. Per quanto riguarda la funzione, azzardo un’ipotesi: le cellette (30x40 cm circa) erano dei loculi dove venivano custodite le reliquie dei santi monaci trafugate per sottrarle al vilipendio della persecuzione iconoclasta. Ad irrobustire questa teoria è il nome della grotta: U Palummaru. Non bisogna lasciarsi ingannare dal toponimo: nulla c'entrano i piccioni (palummi in dialetto) dal momento che non è presente nessuna traccia organica tale da far pensare che ci fosse un ricovero di colombi. Il toponimo, a mio modesto avviso, è una trasposizione dialettale del latino Colombarium, ovverosia un antico monumento funebre che ricordava per forme e dimensioni il ricovero dei colombi. Il nome Palummaru non è nemmeno antichissimo; l’estensione terminologica colombarium, infatti, fu gradualmente usata solo a partire dal 1727 quando l’erudito Francesco Gori pubblicò una sua opera intitolata “Monumentum sive Columbarium Libertorum et Servorum Liviae Augustae” in seguito alla scoperta, avvenuta l’anno precedente, del colombario dei servi e liberti di Livia, moglie d’Augusto. Nelle iscrizioni latine, infatti, questa tipologia architettonica è nominata ossarium, ossuarium, monumentum o sepulchrum ma mai “Colombario”.
Un dato che mi incuriosisce molto è — anche in questo caso, come era successo per le grotte di Gadarra —, l'elevato magnetismo terrestre (0,45-0,50 gauss), segno che gli antichi avevano un’alta conoscenza degli effetti benefici di questa energia.
Negli allegati fotografici, oltre al Palummaru, è presente una grotta sottostante.






















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